giovedì 2 gennaio 2025

Fine della libertà?

Per la libertà di pensiero


Marino Badiale



1. Una lenta erosione

Assistiamo da molto tempo, nei paesi occidentali, a una lenta erosione del fondamentale principio della libertà di pensiero, intesa naturalmente come libertà di espressione pubblica delle opinioni. Nel 2024 abbiamo assistito, per fare qualche esempio, all’arresto di Pavel Durov, fondatore del “social” Telegram, e a iniziative repressive contro le proteste nei confronti della politica israeliana, iniziative che assumono modalità diverse nei vari paesi ma sembrano avere in comune l’accomunare la critica alle politiche israeliane con l’antisemitismo. Il catalogo dell’intolleranza contemporanea è però, purtroppo, molto più vasto, e comprende per esempio alcuni aspetti di quello “spirito del tempo” che viene genericamente indicato con termini quali “politicamente corretto”, “wokism”, “cancel culture”. Un recente notevole esempio in questo senso è rappresentato dalle contestazioni verso il film “Ultimo tango a Parigi”, che hanno portato alla cancellazione di una proiezione prevista in una sala cinematografica della capitale francese.

In sostanza, l’intolleranza contemporanea è presente in versioni sia “di destra” sia “di sinistra”, e va quindi indagata appunto come una espressione dello “spirito del tempo”.

Per fissare un punto di partenza di questa deriva, almeno per quanto riguarda l’Europa, si può forse indicare la legge francese del 1990, legge Gayssot, che fra le altre cose rendeva reato la negazione dell’esistenza del genocidio subito dagli ebrei ad opera del nazismo. Questa legge è stata poi imitata, in un modo o nell’altro, da molti paesi europei. Sicuramente tale legge non è la prima, in un paese occidentale, a colpire la libertà di opinione: basti pensare, in Italia, alla legge Scelba. La legge Gayssot mi sembra però significativa perché è stata imitata, in forme diverse, in vari paesi europei, e soprattutto perché essa colpisce non tanto una posizione politica sgradita, ma proprio la pura e semplice manifestazione di un’opinione: negare il genocidio ebraico, di per sé, è solo un’opinione relativa a fatti storici e non sottintende nessuna particolare posizione politica, tanto che sono esistite correnti di estrema sinistra (ultraminoritarie anche all’interno dell’estrema sinistra, s’intende) che sostenevano tale opinione. Insomma, la legge Gayssot esprime esattamente la volontà politica di rendere reato una mera opinione. Ovviamente, l’intenzione che la sottendeva era quella di colpire un’area politica, quella dell’estrema destra, ma il fatto che questa intenzione politica si sia manifestata come creazione di un puro reato di opinione mi sembra un aspetto molto significativo, tanto da giustificare il fatto di prendere tale legge come punto di inizio simbolico dei fenomeni di cui s’è detto. Senza voler ripercorrere qui tutte le tappe di questa evoluzione, possiamo però notare un aspetto importante: i provvedimenti come la legge Gayssot proibiscono una opinione precisa e ben determinata, ed è quindi difficile che, da soli, possano essere usati per un attacco generalizzato alla libertà di opinione. La tendenza più recente della cultura dominante è invece quella di sollevare discredito sociale verso chi esprime opinioni sgradite usando nozioni del tutto generiche, sfocate, mai chiaramente definite, come “discorso d’odio”, “fake news”, “mainsplaining”. Il discredito sociale in questo modo creato può poi essere usato per rendere accettabili provvedimenti legislativi di ulteriore restrizione della libertà di opinione. Si tratta di una strategia molto chiara, da parte dei poteri dominanti: poiché nozioni come quelle sopra indicate sono assolutamente vaghe, non possono essere usate come base di una precisa accusa se non ne viene in qualche modo specificato il contenuto. Di conseguenza, tutto il gioco sta nel decidere, di volta in volta, che cosa sia “discorso d’odio” o “fake news”: e ovviamente questo potranno farlo i poteri dominanti che dispongono di molteplici modi per influenzare i media e la magistratura. La creazione di reati di opinione, specie se vagamente definiti, è quindi uno strumento significativo per il tentativo, da parte dei ceti dominanti, di mantenere il proprio potere in una situazione di declino sociale generalizzato come è quella attuale.


2. Perché è un problema

Queste tendenze sono davvero molto pericolose, perché la libertà di opinione ha un carattere fondamentale, tanto più in una fase storica come quella attuale. Spendiamo qualche parola su questo.

Il primo punto da sottolineare è del tutto ovvio: le nostre sono società democratiche dove le decisioni vengono prese a partire dalle discussioni nell’arena pubblica. Ovviamente le decisioni democratiche, prese a maggioranza, per definizione quasi mai soddisferanno tutti; ma la minoranza insoddisfatta sa di aver potuto liberamente manifestare e argomentare le proprie opinioni, e soprattutto sa che, grazie a questa libertà, ha la possibilità di diventare maggioranza nelle discussioni e decisioni future. È questo il meccanismo che permette di mantenere i conflitti su un terreno di politica democratica, evitando che essi degenirino in contrapposizioni violente e, al limite, in una guerra civile. La libertà di pensiero, in una società democratica, ha dunque un carattere costitutivo e fondante, ed è chiaro che ogni sua limitazione presenta dei rischi che non possono essere taciuti.

Quanto appena detto rappresenta un argomento valido in generale per le nostre società democratiche, senza relazione ad una situazione specifica. È però necessario dare maggiore concretezza al discorso, e quindi mettere in relazione il problema della libertà di pensiero con quello del presente declino e del futuro probabile collasso dell’attuale organizzazione sociale capitalistica. Ho discusso questa tema in altri interventi, quindi non ripeterò qui l’analisi che mi porta a pensare probabile un collasso sociale generalizzato. Basti solo un accenno al fatto che l’attuale organizzazione sociale capitalistica, ormai estesa al mondo intero, vive una fase in cui si intrecciano una crisi economica (dalla quale non si intravede via d’uscita), una crisi di egemonia (che sta portando a nuove guerre) e una crisi degli ecosistemi terrestri, ormai avviata, che non verrà affrontata con le misure necessarie perché queste sono incompatibili con la logica capitalistica del profitto e della crescita illimitata. È ragionevole pensare che l’intreccio di queste crisi porterà, in tempi non lunghissimi, al collasso dell’attuale organizzazione sociale.

Inserita in questo contesto, la necessità della libertà di pensiero appare ancora più evidente. Infatti, una crisi generalizzata come quella che ci aspetta mette in questione l’intero apparato concettuale della nostra civiltà: le ideologie dominanti (cioè, negli ultimi decenni, il neoliberismo) che hanno accompagnato la società nel suo percorso suicida, ma anche le ideologie cosiddette critiche, magari sedicenti rivoluzionarie, che non hanno saputo bloccare tale percorso. Di fronte ad un collasso di civiltà, il fatto di aver espresso istanze critiche può forse portare ad un giudizio morale positivo su una persona, ma non toglie che il giudizio sulla sua ideologia sia un giudizio di fallimento, analogo a quello che si deve dare verso le ideologie dominanti. Ma se la situazione è quella di un fallimento completo delle ideologie disponibili, “mainstream” o “critiche”, è chiaro che è necessaria la ricerca il più possibile spregiudicata di nuovi apparati concettuali, che siano in rottura netta con quanto li ha preceduti. Ed è chiaro che tale ricerca ha bisogno della massima apertura e libertà, per poter essere portata avanti. La libertà di pensiero è cioè un prerequisito indispensabile se vogliamo sperare di trovare una strada umana e sensata attraverso le rovine dell’attuale organizzazione sociale. Detto altrimenti: oggi, di fronte al collasso prossimo venturo, per trovare una via di uscita è necessario poter pensare e dire anche cose estreme. Impedirlo è solo un aiuto al sistema di potere che ci ha portato in questa situazione. Il che non significa, naturalmente, che ogni opinione estrema sia utile o condivisibile.

L’obiezione che si sente tipicamente ripetere, di fronte ad argomentazioni a favore della libertà di pensiero come quelle sopra svolte, consiste nel sostenere che è necessario escludere la possibilità di espressione di opinioni aberranti, assurde o moralmente ignobili, e che tale esclusione non inficia in nessun modo la possibilità di una discussione razionale nell’opinione pubblica. Si tratta di un’opinione apparentemente ragionevole, ma che può essere confutata, e per questo si può partire dai casi cui abbiamo accennato all’inizio, cioè dal fatto che in vari paesi europei si è molto ristretta la possibilità di esprimere solidarietà ai palestinesi e contrarietà alle politiche israeliane. Queste restrizioni sono giustificate a partire dall’accusa di antisemitismo rivolta a chi si mobilita contro le politiche israeliane. È naturalmente ovvio che l’antisemitismo fa parte di quelle opinioni ripugnanti che sembrerebbe possibile escludere dal dibattito pubblico senza grave nocumento per il dibattito stesso. Ma questo esempio dimostra che non è così, perché a partire dalla proibizione dell’antisemitismo si arriva a proibire l’antisionismo, e più in generale ogni possibile obiezione radicale alle politiche israeliane. Dovrebbe essere ovvio che antisionismo e antisemitismo appartengono a livelli logici differenti, perché il rifiuto del sionismo è il rifiuto di una ideologia politica, quindi non ha in sé nulla di razzista e non ha in sé nulla a che fare con l’antisemitismo che è il razzismo contro gli ebrei. Ma quello che succede è invece che un immenso apparato mediatico da decenni spinge all’identificazione di antisionismo e antisemitismo, fino ad arrivare appunto alla situazione cui abbiamo accennato. Il punto è che una simile deriva è difficile da evitare quando si cominciano a proibire le opinioni, perché le idee non sono chiuse in asettiche provette di laboratorio, ma sono collegate da mille legami vitali alla totalità pulsante della cultura di una società. “Il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare”, come cantava Lucio Dalla. In altri termini, se si decide di proibire una serie di ripugnanti opinioni A,B,C,D, quando si presenta sulla scena del dibattito politico e culturale una opinione E sgradita al potere, sarà sempre possibile mobilitare l’apparato mediatico e intellettuale asservito al potere stesso e trovare un modo di collegare E a una delle opinioni reiette, in maniera intellettualmente onesta o disonesta (più probabile la seconda possibilità). Riprendendo il discorso svolto sopra, osserviamo che questo sarà particolarmente facile se per le opinioni proibite vengono usate categorie del tutto generiche e indefinibili come “discorsi d’odio” o “misoginia estrema”, e non è un caso che categorie di questo tipo siano sempre più diffuse nel dibattito pubblico.

Se questo discorso appare astratto, per renderlo concreto basta pensare a quanto detto sopra, cioè a come la “potenza di fuoco mediatico” del sistema informativo dominante sia riuscita a rendere accettabile l’equiparazione fra antisionismo e antisemitismo, delegittimando in questo modo ogni critica alle politiche israeliane. È facile rendersi conto che altre operazioni di questo tipo che sarebbero realizzabili senza grosse difficoltà, se si rendessero necessarie. Proviamo per esempio a fare l’ipotesi che nei prossimi tempi sorga, nei paesi occidentali, un significativo movimento di contestazione del capitalismo attuale e che esso nasca con forti riferimenti alla tradizione marxista. Si tratta certo di un’ipotesi molto lontana dalla realtà, ma ci serve qui come esperimento mentale. Un tale movimento sarebbe ovviamente attaccato in molto modi diversi ma, se per caso la nozione di “discorso d’odio” diventasse davvero una fattispecie di reato, uno di tali modi sarebbe quello di denunciare come “discorso d’odio” il principio, fondamentale nel marxismo, della lotta di classe. E ovviamente non sarebbe difficile andare a pescare, in più di un secolo e mezzo di produzione letteraria marxista, una enorme quantità di citazioni esaltanti la violenza rivoluzionaria o l’odio di classe. Se si trattasse di una discussione accademica sarebbe certo possibile discutere caso per caso, spiegare, contestualizzare, ma nel vivo di uno scontro politico, e avendo accettato la creazione di una tale fattispecie di reato, il risultato sarebbe, con ogni probabilità, quello che vediamo accadere oggi nei confronti delle contestazioni alla politica israeliana.

Se tutto questo è chiaro, una conclusione si impone: poiché chi vuole opporsi alla deriva suicida della nostra società non ha minimamente la “potenza di fuoco” dell’apparato mediatico al servizio del potere, è chiaro che non c’è modo di difendersi da questi indebiti collegamenti, una volta che si sia accettata l’idea che alcune opinioni estreme o ripugnanti debbano essere proibite. Vi è quindi una sola posizione razionale da prendere: il rifiuto di ogni reato di opinione, ovvero assoluta e totale libertà di pensiero e di opinione. Qualsiasi opinione ha diritto ad essere espressa. Le leggi eventualmente reprimono le azioni che possono nascere dalle opinioni, non le opinioni stesse.



3. Declino di una civiltà

Una volta chiariti i motivi per i quali ritengo che la più assoluta libertà di pensiero sia una condizione necessaria per affrontare la spirale autodistruttiva nella quale si stanno muovendo le società contemporanee, occorre affrontare il problema se sia concretamente possibile un’azione politica a difesa della libertà di pensiero. Sembra purtroppo evidente il fatto che non esistono forze politiche disposte a impegnarsi concretamente in questo senso. Le forze politiche interne al sistema (centrodestra e centrosinistra), che si alternano nei governi dei paesi occidentali, non si differenziano molto su questi temi, come non lo fanno sul resto: in sostanza, ciascuna forza politica chiede libertà di espressione per la propria area ma, appena ne ha l’occasione, chiede restrizioni e limitazioni nei confronti dell’area avversa. Si tratta di forze del tutto interne all’attuale sistema di potere attuale, che ne seguono pedissequamente la corrente, e non hanno quindi nessuna intenzione di opporsi alle politiche di restrizione della libertà di pensiero, visto che esse rappresentano appunto una delle tendenze di fondo del potere attuale.

Se non ci si può aspettare nulla dalle forze politiche maggioritarie di destra o di sinistra, si potrebbe allora pensare che una simile lotta potrebbe essere combattuta dalle minoranze anticapitalistiche: dopotutto, le posizioni anticapitalistiche sono quelle a maggior rischio di repressione, e la repressione utilizzerà i meccanismi descritti in precedenza in riferimento alle polemiche su Palestina/Israele. Poiché le posizioni antisistemiche sono oggi ultraminoritarie, una simile battaglia dovrebbe cercare di allargare il più possibile lo spettro delle alleanze, rivolgendosi a tutti coloro che hanno a cuore l’idea della libertà di pensiero, che possono essere per il resto molto lontani dall’anticapitalismo. E affinché siano possibili queste alleanze, è ovvio che deve essere allontanato ogni sospetto di doppiezza o ambiguità. Bisogna cioè che chi lotta per la libertà di pensiero non dia spazio al minimo sospetto di “essere come gli altri”, cioè di essere come coloro che vogliono la libertà di pensiero per “i miei” ma vogliono la repressione “per quegli altri”. In altri termini, l’unica base possibile di una autentica alleanza per la libertà di pensiero non può che essere, come abbiamo più volte ribadito, la richiesta della più totale e assoluta libertà di pensiero e di espressione per tutti, anche per le idee più lontane dalle proprie e più assurde e ripugnanti. Per essere chiari, e per rispondere finalmente all’obiezione che i lettori avranno già da sé stessi formulato : sì, anche i nazisti. Anche le idee naziste hanno diritto alla libera espressione. Naturalmente, appena la libera espressione delle idee diventa una concreta azione che viola le leggi, essa deve essere repressa, con durezza proporzionale alla gravità della violazione. Ma questo vale per l’estrema destra come per chiunque altro.

Una volta enunciato questo punto fondamentale, è facile capire perché il mondo anticapitalista, il mondo della sinistra radicale, non farà mai una seria lotta politica per la libertà di pensiero. L’estrema sinistra è un mondo di piccole comunità identitarie, e quello che conta in esse non è l’elaborazione concreta di linee politiche praticabili, ma la rappresentazione della propria identità. Una componente essenziale di tale identità è proprio l’idea che l’estrema destra non ha diritto a esprimersi e bisogna cercare di impedire, anche fisicamente, ogni sua manifestazione. Si tratta di un elemento identitario rispetto al quale l’estrema sinistra è incapace di autocritica, perché esso ha un valore essenziale: serve a rimuovere dalla coscienza la sostanziale impotenza di quest’area politico-culturale. L’estrema sinistra vuole il socialismo, la rivoluzione, il comunismo, ma non li ha mai ottenuti e non li otterrà mai. Impedire fisicamente una iniziativa di un qualche gruppuscolo fascista serve a credere di esistere, di fare qualcosa. Se l’estrema sinistra rinunciasse a queste inutili sciocchezze, dovrebbe confrontarsi col proprio secolare fallimento, e questo ovviamente non lo può fare.

È chiaro allora che una politica di difesa del principio della assoluta libertà di pensiero non ha nessuna speranza di essere presa in considerazione nel mondo anticapitalista, e in definitiva non c’è nessuna speranza che una forza politica significativa faccia propria la lotta per una autentica libertà di pensiero e di opinione.

Tale assenza di una forza politica che lotti per la libertà di opinione rispecchia, a mio avviso, una realtà sociale significativa: il fatto cioè che vi sono ampi strati sociali per i quali la libertà di opinione non è più un valore primario. Questo fenomeno mi sembra rappresenti un mutamento importante nello “spirito del tempo”. L’Occidente si definisce da secoli come la civiltà della libertà e in particolare della libertà di pensiero. Il fatto che la corrosione di tale libertà non trovi un contrasto, ma sia anzi in risonanza con settori non trascurabili della popolazione, mi sembra rappresentare un ulteriore indizio di un generale processo di dissoluzione dell’attuale civiltà.


(Genova, fine 2024)

















2 commenti:

  1. Inserisco, in due parti, questo commento inviato da Giulio Bonali:

    Trovo lo scritto “Fine della libertà”) estremamente lucido e stimolante,
    come sempre; mi sentirei di obiettarvi queste poche osservazioni piuttosto marginali.

    Secondo me il concetto della repressione o censura del “discorso di odio” è un’ aberrazione tipica dell’ ipocritissimo, pessimo (senza virgolette) “buonismo" politicamente corretto, che pretende di atteggiarsi ad arbitro della morale ma invece fa del deteriore moralismo (tutt’ altra cosa!).
    E’ per me un principio etico elementare che il male esiste, e un
    atteggiamento moralmente corretto verso di esso non consiste nel
    nasconderlo pudicamente alla vista o nell’ abbellirlo cercandone
    pretestuose, infondate giustificazioni, magari “culturali”, sociologiche o
    psicologiche, cioè in sostanza nel negarlo come realtà, ma invece nel
    “denudarlo” in tutta la sua ripugnanza, nell’ odiarlo e nel combatterlo con tutte le forze (proporzionatamente alla sua entità nelle diverse
    circostanze concrete, ovviamente).
    Per esempio non odiare e combattere i nazisti o i sionisti secondo me è
    malvagità, violazione di un fondamentale imperativo etico, immoralità.

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  2. Seconda parte del commento di Giulio Bonali:


    A me pare del tutto evidente che il falso (per gli anglomani le “fake
    news”) va combattuto con la verità e con argomenti che la provino o almeno orientino verso di essa: una tesi non è falsa per il fatto di non essere detta o sentita, e non può essere detta e sentita essere falsa in altro modo che dicendola, né può essere falsificata altrimenti che argomentando razionalmente a proposito di essa, e dunque inevitabilmente citandola.
    Fra l’ altro assai spesso la censura tende di fatto ad indurre, soprattutto
    chi più sia avveduto e dotato di senso critico, a sospettare che vi si
    ricorra per la mancanza di argomenti in grado di provare la falsità di chi
    ne è colpito, e in qualche misura anche a prenderne “benevolmente” in
    considerazione le affermazioni (ovviamente solo in prima istanza, per poi sottoporle ad una rigorosa critica razionale; ma malgrado questo è comunque qualcosa di controproducente al fine della ricerca del vero).

    (Credo che questi non siano che semplici corollari dell’ aureo principio
    qui perfettamente sintetizzato da queste efficaci parole:
    “Qualsiasi opinione ha diritto di essere espressa. Le leggi eventualmente reprimono le azioni che possono nascere dalle opinioni, non le opinioni stesse”).

    Circa il comune fallimento delle ideologie dominanti e delle ideologie
    critiche (ma perché mai, ma in che senso “cosiddette” essere tali?) che non hanno saputo bloccare il percorso della crisi di civiltà in atto in
    Occidente, per parte mia enfatizzerei, ritenendolo importante, piuttosto
    che minimizzare come qualcosa di poco o punto rilevante, il giudizio morale positivo (per me indubbiamente e non “forse”) su chi le abbia seguite e le segua.
    Se una proposta (e un’ ideologia che la persegua) è giusta e non si è
    riusciti a conseguirla non ritengo che solo per questo possa essere
    liquidata come “fallimento”, men che meno “completo”; credo invece che vada apertamente riconosciuta con onestà intellettuale come “sconfitta”, e soprattutto che della sua sconfitta si ricerchino le cause oggettive e soggettive (in chi l’ ha perorata e ha vanamente cercato di realizzarla) onde rilanciarla e ritentare di realizzarla attraverso mezzi e iniziative pratiche più adeguate (nessuno nasce “imparato” ma sbagliando si impara).
    Concordo con la constatazione che L’estrema sinistra è un mondo di piccole comunità identitarie, e quello che conta in esse non è l’elaborazione concreta di linee politiche praticabili, ma la rappresentazione della propria identità, e che da ciò consegue una gravissima mancanza di autocritica e una sorta di coazione a ripetere un controproducente antifascismo e antinazismo rituale che impedisce di comprendere la assoluta necessità di difendere -tanto più nelle terribili circostanze attuali- la libertà di espressione di tutte le opinioni, nessuna esclusa per infame e disumana che oggettivamente sia.
    Però credo che fra penoso identitarismo sfociante in ottuso antinazismo meramente rituale da una parte e “liquidazione fallimentare” delle esperienze di lotta rivoluzionaria contro lo stato di cose (allora) presenti che ha condotto all’ attuale (ulteriormente) disastrosa deriva verso la barbarie e forse verso l’ estinzione “prematura e sua propria mano” (Sebastiano Timpanaro) dell’ umanità “ce ne passi”, come si suol dire.

    Credo di non fare cosa scorretta mandando queste osservazioni anche alla rivista telematica “L' Interferenza”, che ha ricevuto e volentieri
    pubblicato lo scritto in questione.

    Grazie per l’ attenzione.

    Giulio Bonali (Fiorenzuola - PC)

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