Il
patto suicida
(lettere
al futuro 8)
Marino
Badiale
1. Il
patto sociale nelle società premoderne e nella modernità.
In
questo scritto espongo alcune riflessioni sulla situazione dello
“spirito del tempo”. Il punto di partenza è la convinzione che
la società attuale sia indirizzata verso un rovinoso crollo di
civiltà, che sarà causato dal concorrere di una serie di crisi
concomitanti, fra le quali la più significativa in questo momento è
la crisi climatica. Ho argomentato tale mia convinzione in interventi
passati [1] e non mi soffermerò su di essa in questo scritto, che è
piuttosto dedicato ad esaminare le conseguenze di questa situazione
sul piano della cultura e delle ideologie.
Il
punto di partenza è una considerazione del tutto generale (e
piuttosto banale): in ogni società umana che presenti un gruppo
sociale dominante e uno o più gruppi sociali subalterni, esiste una
qualche forma di “patto sociale”, non sempre chiaramente
esplicitato, per il quale i ceti subalterni accettano il dominio dei
ceti dominanti. Nessun dominio stabile può basarsi esclusivamente
sulla forza bruta, ma deve prevedere un momento nel quale le istanze
dei ceti subalterni sono considerate e almeno parzialmente
soddisfatte; ovviamente questo avviene entro limiti ben precisi,
compatibilmente cioè con la perpetuazione del potere e dei privilegi
dei ceti dominanti [2]. Naturalmente, niente garantisce che il patto
sociale funzioni: può succedere che i ceti dominanti falliscano nel
tener fede al patto, per incapacità propria o per cause di forza
maggiore (disastri naturali, sconfitte militari). Ma in tal caso il
loro dominio è messo seriamente in pericolo, e se non viene
ripristinato e reso storicamente efficace un patto sociale
soddisfacente, i ceti dominanti vengono abbattuti e sostituiti da
altri ceti dominanti.
Questo
scritto è dedicato ad una riflessione su quale sia oggi la natura
del patto sociale fra ceti dominanti e ceti subalterni. Per
comprendere meglio il problema, possiamo iniziare tracciando una
distinzione, anch’essa molto generale, fra le caratteristiche che
le ideologie egemoniche assumono nelle società premoderne e quelle
tipiche della modernità.
Nelle
società premoderne il patto sociale fra dominanti e dominati è di
tipo conservatore: il sovrano si impegna a conservare la stabilità
dell’ordine sociale, in maniera che i ceti subalterni abbiano la
garanzia di poter vivere una vita pacifica all’interno della rete
comunitaria nella quale sono vissuti i loro antenati, e nella quale
vivranno in pace i loro discendenti. Questo patto sociale è
comunemente espresso in termini religiosi, in maniera da ricevere una
legittimazione che lo radica nell’ordine complessivo del mondo.
Naturalmente sono molteplici le forme specifiche di espressione del
patto sociale, dall’alleanza di Dio col popolo eletto nell’Antico
Testamento alla teoria del “mandato celeste” del pensiero cinese
tradizionale. L’aspetto fondamentale del patto sociale tradizionale
sta nel fatto che esso è rivolto alla conservazione sia degli
aspetti materiali sia di quelli simbolici: è ovviamente necessario
che i ceti subalterni possano vivere una vita materialmente
sufficiente e priva per quanto possibile di violenze arbitrarie, ma
oltre a questo è necessaria anche la conservazione delle loro
comunità, che sono depositarie dei fondamenti simbolici necessari ad
una vita sensata.
La
modernità introduce in questo quadro un elemento nuovo e dirompente:
la nozione di progresso. Il patto sociale nella modernità non è più
basato sulla conservazione ma appunto sul progresso. I ceti dominanti
non promettono più la continuazione pacifica della vita
tradizionale, ma al contrario il suo incessante sovvertimento. I
figli non faranno la vita dei padri, ma una vita migliore. La base
del patto sociale della modernità è innanzitutto, ovviamente, il
progresso materiale, cioè lo sviluppo delle forze produttive, che
permette il superamento delle condizioni di scarsità tipiche delle
società premoderne. Ma il progresso nella modernità significa anche
la dissoluzione delle comunità tradizionali, che davano senso alla
vita ma al tempo stesso rinchiudevano gli individui entro confini,
più o meno stretti a seconda delle situazioni, ai quali gli
individui erano forzati ad adattarsi. La promessa della modernità è
dunque quella della liberazione dell’individuo sia dal timore della
penuria materiale, sia dai vincoli delle comunità tradizionali.
Naturalmente, nel caso delle società moderne come in quello delle
società tradizionali, il patto sociale di cui parliamo è un tipo
ideale, rispetto al quale le concrete vicende storiche potevano
rappresentare momenti di vicinanza o di forte distacco. È abbastanza
evidente che, per le società occidentali, i trent’anni seguiti
alla Seconda Guerra Mondiale, gli anni del “compromesso
socialdemocratico”, hanno rappresentato un momento di tendenziale
avvicinamento all’ideale “patto sociale della modernità”. Lo
sviluppo materiale (riassunto nel concetto di “grande
accelerazione” [3]) si diffuse fra i ceti subalterni, mentre si
disgregavano le barriere morali alle scelte individuali, tipiche
delle fasi precedenti. In questo modo si creavano per larghe fasce di
popolazione effettive possibilità di liberazione e di sviluppo
personale.
2. La situazione contemporanea
A
partire dalla fine degli anni ‘70 il “compromesso
socialdemocratico” viene attaccato ed eroso dall’azione dei ceti
dirigenti, per ragioni indagate da una letteratura ormai amplissima,
che in questa sede non discutiamo [4]. Ovviamente le classi
dirigenti, nel rifiutare il precedente patto sociale, hanno elaborato
una costruzione ideologica che lo potesse sostituire. Tale
costruzione è ciò che usualmente chiamiamo “neoliberismo”.
Senza ripercorrere la complessa storia di questa formazione
ideologica, mi limito a quanto è rilevante nel contesto di questo
articolo, cioè la natura del nuovo patto sociale proposto dai ceti
dirigenti. Tale patto si basava sulla tesi che lo smantellamento del
Welfare State “socialdemocratico” avrebbe liberato le energie del
capitalismo, e questo avrebbe portato ad un forte sviluppo economico
che si sarebbe risolto in maggior benessere per tutti. Ora, a
distanza di qualche decennio dal primo instaurarsi di pratiche ed
ideologie neoliberiste fra i ceti dominanti, appare abbastanza
evidente che i risultati non sembrano così brillanti, per i ceti
subalterni, anche se le situazioni possono essere diverse da paese a
paese. Il punto che intendo qui sottolineare è però un altro. Come
ho scritto all’inizio, è mia convinzione che l’attuale società
capitalista, ormai estesa all’intero pianeta, si sia avviata lungo
una spirale di autodistruzione. Per uscire da questa spirale
occorrerebbero drastici mutamenti dell’intera organizzazione
economica e sociale, dei quali oggi non si scorge neppure l’ombra.
La radice ultima di questa dinamica mortifera sta nel carattere
“illimitato” della logica capitalistica, nel fatto che il modo di
produzione capitalistico implica una crescita continua, senza fine, e
senza altri fini che non siano i profitti. Il passaggio di fase del
capitalismo, dal “compromesso socialdemocratico” al neoliberismo,
ha accentuato questi aspetti, che certo erano presenti anche nelle
fasi precedenti, in quanto radicati nella logica del modo
capitalistico di produzione. Alla luce del collasso prossimo venturo
dell’attuale società, il patto sociale neoliberista assume un
aspetto diverso, e più sinistro, rispetto a quanto poteva apparire
decenni fa. All’epoca della sua instaurazione, fra gli anni
Settanta e gli Ottanta del Novecento, il patto sociale neoliberista,
che i ceti dominanti hanno proposto o imposto ai ceti subalterni,
poteva suonare come “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del
Welfare State, e in cambio avrete uno sviluppo economico che porterà
maggior benessere a tutti”. Alla luce del prossimo collasso, esso
diventa “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del Welfare
State, e in cambio avrete una catastrofe quale mai si è vista nella
storia umana. Ma vi lasciamo giocare con lo smartphone”. Appare
chiaro che, su queste basi, se chiaramente esplicitate in tutti i
loro aspetti e soprattutto nelle loro conseguenze, è impossibile
costruire consenso ed egemonia. D’altra parte, come abbiamo detto
all’inizio, senza qualche forma di egemonia da parte delle classi
dominanti e di consenso da parte delle classi subalterne, nessuna
società divisa in classi può sostenersi. I ceti dominanti attuali
si trovano quindi di fronte a un problema serio. La risposta
ideologica a tale problema, da parte dei ceti dominanti, segna in
profondità la situazione spirituale contemporanea. Nei paesi
occidentali (ai quali limito qui la mia analisi), i fondamenti di
tale azione ideologica dei ceti dominanti mi sembrano tre: in primo
luogo, distrazione di massa; in secondo luogo, restrizioni alla
libertà di pensiero e di parola; in terzo luogo, rilegittimazione
dei ceti dominanti come alfieri di qualche tipo di valori. L’insieme
di questa operazione ideologica si può riassumere come creazione di
una “bolla onirica” dentro alla quale i ceti subalterni perdono
il contatto con la realtà. In tutte le tre forme sopra indicate,
appare centrale il ruolo del sistema mediatico.
Per
quanto riguarda il primo punto, la distrazione di massa consiste
soprattutto nell’alimentare i simulacri spettacolari della lotta
fra destra e sinistra, fra fascismo e antifascismo, fra progressisti
e conservatori. Si tratta di contrapposizioni del tutto avulse dalla
realtà: nella realtà, tutte le correnti politiche che hanno accesso
alla scena mediatica accettano senza discussioni di sottostare alla
logica capitalistica e al comando imperiale statunitense, e solo dopo
questa accettazione hanno il permesso di accedere alla scena
mediatica e di giocare a fare la parte della destra o della sinistra,
del fascismo o dell’antifascismo, del populismo o del progressismo.
Questa scena mediatica crea una bolla onirica nella quale si perde
ogni contatto con la realtà sociale, segnata dalla perdita di
diritti del lavoro, della lenta distruzione del Welfare State,
dell’impoverimento progressivo. E se tale schermo onirico impedisce
di vedere la realtà sociale attualmente esistente, a maggior ragione
impedisce di vedere il collasso sociale ed ecologico in arrivo.
In
secondo luogo, mi sembra possibile affermare che sia in atto da
tempo, nei paesi occidentali, un processo di restrizione della
libertà di parola. Esso si manifesta come tendenza all’ampliamento
dello spettro di opinioni configurate come reato, e soprattutto alla
definizione sempre più generica delle opinioni proibite o a rischio
di esserlo: basti pensare alla vaghezza di nozioni come quella di
“hate speech”. In ogni caso, una volta che si è raggiunto un
certo consenso sociale sulla possibilità di configurare come reato
le opinioni sgradite, è chiaro che si apre la strada ad ogni
arbitrio del potere politico, specie se quest’ultimo, disponendo
dell’appoggio dei media, può suscitare le emozioni del pubblico
contro una particolare opinione sgradita. Tale tendenza sembra
riguardare l’intero spettro delle forze politiche ufficiali dei
paesi occidentali: a tutte fa comodo la prospettiva di poter limitare
l’espressione delle idee sgradite, che sono sempre quelle esterne
all’ufficialità mediatico-politica.
In
terzo luogo, le forze politiche ufficiali cercano di rilegittimarsi
agli occhi dell’opinione pubblica: per questo fanno leva sulle
opposizioni oniriche viste al primo punto (destra e sinistra,
fascismo e antifascismo). La divisione artificiosa dell’attuale
ceto politico, sostanzialmente unitario nelle sue scelte di fondo,
permette a ciascuna delle due “ali” di presentare l’altra come
un pericolo per la civiltà, e di legittimarsi contro il pericolo
così evocato: la sinistra presenta la destra come fascista e
autoritaria, e se stessa come argine dei diritti e delle libertà, la
destra presenta la sinistra come artefice di dinamiche incontrollate
e distruttive (immigrazione, distruzione della famiglia tradizionale,
controlli invasivi statali), e se stessa come difesa contro tali
dinamiche.
3.
Il patto suicida
Le
strategie egemoniche messe in campo dai ceti dirigenti, sopra
discusse, sembrano piuttosto efficaci. La grande maggioranza della
popolazione accetta acriticamente lo spettacolo onirico proposto
incessantemente dai media, ma la cosa più significativa è che
neppure le piccole minoranze che vorrebbero essere critiche verso
l’esistente riescono a sottrarsi ad esso. Tali piccole minoranze
pensano la realtà attraverso gli schemi di destra/sinistra o
fascismo/antifascismo o progresso/conservazione, e in questo modo
risultano totalmente incapaci di capire la realtà contemporanea, e a
maggior ragione di agire su di essa.
Si
potrebbe pensare che, anche in assenza di una comprensione adeguata
della realtà, il peggioramento delle condizioni materiali
dell’esistenza porterà presto o tardi ad una rivolta popolare, ma
una simile illusione, comune nei ristretti ambienti anticapitalistici
o marxisti, è purtroppo smentita dalla realtà storica: se fosse
vero che le persone sottoposte a condizioni inumane si ribellano,
avremmo avuto rivolte continue nei lager nazisti e nel gulag
staliniano, e tali strutture non avrebbero nemmeno potuto esistere.
È
probabile che nella sostanziale e diffusa accettazione della sfera
onirica prodotta dal sistema mediatico abbia un ruolo decisivo una
“volontà di non sapere”, un rifiuto di confrontarsi con le
scelte, dure e necessarie, che la realtà oggi ci impone. E la
“volontà di non sapere” è a sua volta basata sulla “volontà
di non cambiare”. In definitiva, la stragrande maggioranza
dell’umanità contemporanea, dominanti e subalterni, appare unita
nella volontà di non cambiare, di non rinunciare a nulla di ciò che
la società capitalistica offre loro: i dominanti non vogliono
rinunciare a ricchezze e potere, i subalterni non vogliono rinunciare
all’auto, o al cellulare, o ai viaggi aerei. E le popolazioni che
ancora non sono arrivate ai livelli occidentali di consumi, non
aspirano ad altro che ad arrivarci.
Mi
sembra allora che siamo di fronte ad un sostanziale accordo fra ceti
dominanti e ceti dominati: nessuno vuole i profondi cambiamenti
necessari alla sopravvivenza della civiltà umana. Poiché la
coscienza chiara della situazione renderebbe difficile far finta di
nulla, una buona parte dell’umanità ha scelto di non sapere, o di
sapere il meno possibile. Per questo motivo i ceti subalterni
accettano passivamente di vivere nella sfera onirica che i ceti
dominanti sono ben lieti di fornire. Se le cose stanno così,
possiamo affermare che questo sia il patto sociale contemporaneo, e
quindi il fondamento ultimo dell’egemonia degli attuali ceti
dominanti.
Si
tratta ovviamente di un patto suicida. L’egemonia su di esso basata
è destinata a collassare assieme alla società attuale. Purtroppo,
non si può evitare di pensare che nell’immediato l’evoluzione
sociale proseguirà secondo lo schema attuale, finché la
devastazione di società e natura, prodotta da un capitalismo ormai
impazzito, non renderà impossibile la riproduzione della società
stessa, generando un collasso sociale su scala planetaria. Durante il
processo del collasso ovviamente crolleranno tutte le illusioni, e i
pochi sopravvissuti ricostruiranno una società e una cultura
rispetto alle quali oggi non è possibile nemmeno formulare ipotesi.
Genova,
fine 2022
1]
http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html
,
http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html
http://www.badiale-tringali.it/2021/07/verso-il-collasso-lettere-al-futuro-5.html
[2]
Si
tratta di quegli aspetti della realtà sociale che Gramsci indicò
con la nozione, oggi divenuta forse un luogo comune, di “egemonia”.
Per
una prima introduzione si veda il capitolo relativo in F.Frosini,
G.Liguori (cura di), Le
parole di Gramsci,
Carocci 2004.
[3]
J.R.McNeill, P.Engelke, La
Grande
accelerazione,
Einaudi 2018.
[4]
Per una sintesi efficace del vastissimo dibattito su questi temi si
può
vedere P.Dardot, C.Laval, La
nuova ragione del mondo,
Deriveapprodi 2019.