martedì 29 novembre 2022

domenica 13 novembre 2022

Una finestra che si sta chiudendo

Un articolo del sito Climalteranti che presenta l'Emission gap report dell'UNEP (il Programma Ambientale delle Nazioni Unite). All'interno dell'articolo c'è il link per scaricare il rapporto.


https://www.climalteranti.it/2022/11/09/una-finestra-che-si-sta-chiudendo/#more-11647



martedì 27 settembre 2022

"Le risorse sono una quantità finita"

Un altro ottimo articolo di Guia Soncini.


https://www.linkiesta.it/2022/09/elezioni-meloni-vittoria/


"Le risorse sono una quantità finita, e i diritti per tutelare i quali non

 allochi risorse non sono diritti, sono cuoricini su Instagram".

 Splendidamente detto, complimenti. 


lunedì 19 settembre 2022

Cliché patriarcali

Secondo l'europarlamentare PD Picierno, l'idea che "gli uomini sono perbene fino a prova contraria" è un "cliché patriarcale". Dopo aver attaccato per decenni i diritti "socialdemocratici" conquistati dai ceti subalterni nel dopoguerra, la sinistra oggi si rivolge contro i diritti "liberali", come la presunzione d'innocenza, che sono a fondamento della civiltà occidentale. Mi sembra un interessante segno della barbarie che avanza.



https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/09/18/ombre-molestie-in-senato-picierno-pd-contro-il-silenzio-di-carfagna-boschi-e-bonetti-no-a-femminismo-a-giorni-alterni/6808060/ 

lunedì 5 settembre 2022

Brutali sacrifici

Un bell'articolo di Donatella Di Cesare. E' apparso sul "Fatto quotidiano", ma mi sembra che sul sito del "Fatto" non sia ad accesso libero. Si può leggere al link sotto indicato.


https://contropiano.org/news/politica-news/2022/09/05/i-brutali-sacrifici-imposti-ai-cittadini-per-la-guerra-0152215

giovedì 1 settembre 2022

La guerra in un mondo senza futuro (M.Badiale)

 




1. Introduzione.

Il primo dei numeri della rivista “Limes” dedicati alla guerra in Ucraina (uscito a marzo) aveva il titolo “La Russia cambia il mondo”. È un titolo che coglie molto bene uno degli aspetti di fondo della situazione attuale, cioè il cambiamento netto, nella realtà politica mondiale, causato dall’attacco della Russia all’Ucraina. In questo intervento cercherò di esaminare come questo cambiamento si colleghi all’analisi della situazione storica contemporanea che ho sviluppato in vari interventi su questo blog, analisi la cui tesi principale è che l’attuale società capitalistica mondializzata si sta avviando verso un drammatico collasso.

Il punto di partenza per queste riflessioni è la sensazione che nei paesi occidentali buona parte dell’opinione pubblica, ma anche degli analisti e degli stessi ceti dirigenti, sia stata colta di sorpresa dall’azione russa, ritenendo evidentemente molto improbabile quello che poi è realmente accaduto. Anch’io ero di questa opinione, perché mi sembrava che una guerra, come quella attualmente in corso, fosse contraria agli interessi di tutti gli attori in gioco, e ovviamente confidavo nella razionalità di tali attori. La realtà ha smentito queste opinioni (che, come ho indicato, ritengo non fossero solo mie), e naturalmente occorre prenderne atto. D’altra parte, il fatto che la guerra sia iniziata e prosegua mi sembra non invalidi del tutto la tesi che vi siano, in questo fatto, forti elementi di irrazionalità, nel senso sopra indicato: tale guerra non appare del tutto congrua agli interessi dei vari attori coinvolti. Questo intervento è dedicato ad una riflessione su questo punto, cioè su come questa vicenda, e la sua disturbante irrazionalità, illumini alcuni aspetti di fondo della realtà contemporanea.


2. Irrazionalità degli attori in gioco

Cercherò in questa sezione di mostrare gli elementi di irrazionalità che mi sembrano individuabili nel comportamento dei principali attori in gioco. Prenderò in esame, in quest’ordine, la Russia, gli USA, l’Ucraina.

2.1 Per quanto riguarda la Russia, sembra evidente che la scelta dell’intervento militare è un azzardo assai rischioso. Esaminiamo alcuni dei fattori di rischio.

In primo luogo, chi inizia una guerra corre il rischio di perderla, e la sconfitta molto spesso comporta il cambiamento, pacifico o violento, del ceto dirigente. Tutto questo è ovvio, ma nel caso della Russia il rischio sembra maggiore, perché la Russia è uno Stato che presenta vari punti critici: una economia debole e basata sulle esportazioni di materie prime, la presenza di popolazioni etnicamente differenziate che in un momento di crisi potrebbero avanzare rivendicazioni di autonomia o di indipendenza, una strisciante crisi demografica, un deficit di democrazia. Tutto queste debolezze fanno pensare che una sconfitta potrebbe comportare per la Russia una crisi più profonda di un semplice ricambio ai vertici. Non si può escludere, in queste condizioni, l’ipotesi estrema di una frammentazione dell’attuale Federazione Russa, in maniera analoga a quanto è successo alla Jugoslavia.

Queste osservazioni vanno legate ovviamente al fatto che l’invasione russa ha causato una risposta decisamente ostile da parte degli USA, e di conseguenza da parte dei loro vassalli europei. Sembra abbastanza evidente che nei ceti dirigenti USA vi sia da una parte chi vede nella Cina il nemico principale, e da questo punto di vista è disposto ad essere conciliante con la Russia; dall’altra, chi intende contrastare in ogni caso entrambe le potenze. Se questo è vero, non si può dubitare del fatto che la mossa di Putin abbia fatto pendere la bilancia in favore della seconda corrente, che appare adesso ispirare la politica estera USA, e che, prevedibilmente, resterà dominante almeno finché durerà la guerra. In questa temperie politica, è chiaro che lo smembramento della Federazione Russa potrebbe diventare, se non lo è già, un preciso progetto dei ceti dirigenti occidentali. In sostanza, la mossa di Putin ha alzato il livello dello scontro e le poste in gioco, rendendo possibili scenari estremi che finora erano quasi impensabili.

In secondo luogo si può osservare che la mossa di Putin ha introdotto ulteriori elementi di debolezza per la Russia, con le sanzioni economiche occidentali e il consumo di risorse militari che, per quanto grandi, non sono infinite. È probabile che il ceto dirigente russo abbia previsto questi problemi e abbia fatto il possibile per prevenirli. Sembra infatti che per il momento le sanzioni economiche non abbiano l’esito sperato nei paesi occidentali, ma d’altra parte è difficile pensare che esse non provochino un indebolimento del paese, almeno sul medio-lungo periodo e soprattutto pensando al fatto che la Russia ha bisogno delle importazioni di macchinari ad alta tecnologia. Per quanto riguarda l’esercito, appare evidente che la Russia ha programmato un’invasione che non mettesse in campo tutte le proprie forze, per non sguarnirsi, ma in ogni caso la situazione militare al momento in cui scrivo queste righe (fine estate 22) appare bloccata, e ovviamente le operazioni militari non possono continuare indefinitamente senza esaurire le risorse russe. Si può inoltre osservare che, impegnando l’esercito russo in una guerra in campo aperto, ampiamente monitorata dalle potenze occidentali in tutti i modi possibili (satelliti, agenti sul territorio, collaborazione con l’intelligence ucraina), Putin ha fornito a tali potenze una messe di informazioni sullo stato dell’esercito russo, sui suoi armamenti, le sue capacità, le sue tattiche. Senza che gli occidentali abbiano rivelato nulla di analogo dalla propria parte, visto che i loro eserciti non sono direttamente impegnati.

In terzo luogo, se l’invasione russa è stata sicuramente accolta con soddisfazione dalle minoranze che si sentivano oppresse dallo Stato ucraino, altrettanto sicuramente ha cementato un senso di appartenenza nazionale e di necessità di difesa del proprio paese da parte della maggioranza degli ucraini. È certo questa una delle ragioni della resistenza che finora l’Ucraina ha saputo opporre all’esercito russo. In sostanza, se la Russia riuscirà probabilmente, alla fine, ad incamerare alcuni territori finora ucraini, pagherà queste acquisizioni con la creazione di un granitico sentimento nazionale e antirusso in ciò che resterà dell’Ucraina, che diventerà così un altro membro del gruppo di Stati confinanti con la Russia e decisamente ostili ad essa (come Polonia e Stati baltici).

Infine, sul piano della politica globale, è evidente che la mossa di Putin spinge la Russia ad una alleanza sempre più stretta con la Cina, proprio perché le debolezze russe delle quali si è discusso rendono difficile evitare la sconfitta senza un alleato di grande forza come appunto la Cina. Ma è discutibile se questa alleanza stretta sia davvero conveniente, nel lungo periodo, per la Russia: essendo indubbiamente il partner più debole, essa corre il forte rischio di diventare subalterna. È evidente che per la Russia sarebbe stata più conveniente una politica di autonomia sia dall’Occidente sia dalla Cina, una politica che avrebbe più facilmente potuto perseguire i propri interessi nazionali, scegliendo volta per volta il partner dal quale fosse possibile ottenere di più. La mossa di Putin ha in sostanza grandemente ristretto la libertà d’azione geopolitica della Russia.

2.2 Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il punto da mettere in rilievo è che, come abbiamo appena detto, la situazione attuale spinge la Russia ad una stretta alleanza con la Cina. Ora, è abbastanza plausibile pensare che vi siano state, prima della guerra, trattative fra Russia e USA, che la Russia abbia fatto delle richieste come l’accettazione dell’annessione della Crimea e forme di forte autonomia per le zone russofile, e che gli USA le abbiano respinte, favorendo quindi la scelta di Putin di assumersi i rischi di cui abbiamo sopra parlato.

D’altra parte, una tesi ampiamente diffusa fra chi si occupa di questi problemi è quella che vede nel confronto USA-Cina il tema strategico fondamentale di questo secolo. La Cina è la potenza emergente di questa fase storica, e passaggi di questo tipo in passato hanno sempre portato a scontri, alla fine anche militari, fra la potenza egemone e quella emergente. Di ciò sono perfettamente consci i ceti dirigenti USA, che in questi anni hanno cercato in vari modi di contenere la crescita di influenza (economica, politica e anche militare) della Cina.

Ma se tutto questo è vero, è difficile evitare di trarre la conseguenza che gli USA dovrebbero fare di tutto per evitare una alleanza fra Russia e Cina. Se io sono il numero 1 e so che dovrò prima o poi scontrarmi col numero 2, è mio interesse isolare quest’ultimo e in particolare evitare che esso stringa un’alleanza col numero 3. Entrambi sono più deboli di me, ma messi assieme possono essere molto pericolosi.

Rispetto a questo tipo di argomentazioni, il comportamento degli USA, prima e dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, appare come un gravissimo errore strategico: avere prima negato a Mosca quanto chiedeva, e farsi, dopo, leader della coalizione antirussa, significa spingere la Russia all’alleanza con la Cina, che è proprio quello che gli USA dovrebbero evitare ad ogni costo (o quasi).

Ci sono spiegazioni per questo che appare come un grave errore strategico? Come è stato fatto anche per Putin, si può chiamare in questione l’irrazionalità, ma si tratta di una spiegazione puramente verbale. Dire che un certo comportamento è irrazionale significa semplicemente dire che non lo capisco, che non ho spiegazioni. Si tratta di una confessione di ignoranza. L’irrazionalità, quando diventa fattore storico significativo, non è una spiegazione perché va a sua volta spiegata. Un esempio di possibile spiegazione sarebbe il considerare l’ipotesi, alla quale abbiamo già accennato, che una strategia di lungo periodo degli USA sia quella della distruzione della Russia, e della creazione, come inevitabile conseguenza, di una fascia di instabilità, conflitti e rischi politici e militari di vario tipo nel cuore dell’Eurasia. Questa “strategia del caos” avrebbe come scopo, in questa ipotesi, di creare, appunto, il caos ai confini della Cina, in maniera che essa ne venga coinvolta, in un modo o nell’altro, e si trovi quindi bloccata nella sua crescita verso l’egemonia mondiale. Se questa è la strategia USA, sembra comunque altrettanto rischiosa per gli USA di quanto l’invasione lo sia per la Russia: infatti, creare il caos in un paese che possiede migliaia di testate nucleari potrebbe mettere in questione la stessa sicurezza nazionale USA; inoltre, lo sfaldamento della Russia creerebbe sicuramente problemi alla Cina, ma potrebbe offrirle anche una possibilità di espansione nelle ricche terre della Siberia orientale, e in generale l’opportunità di agire come agente di ordine in una Eurasia resa caotica, ampliando così la sua sfera di influenza e di potere, e magari creando un vastissimo “impero asiatico” che rappresenterebbe la base territoriale dalla quale lanciare la sfida agli USA.

2.3 Infine, per quanto riguarda l’Ucraina, la scelta di combattere una guerra contro un nemico dotato di risorse molto maggiori è una scelta autodistruttiva. È ovvio che nessun ceto dirigente statale accetta volentieri diminuzioni della propria sovranità, ma il punto è che, a meno di svolte drastiche nel corso della guerra, tali diminuzioni verranno comunque imposte, ad un grado maggiore o minore a seconda di ciò che accadrà sul campo: e a quel punto l’Ucraina si troverà ad aver perso parte dei propri territori, e soprattutto si troverà con una economia devastata. Appare del tutto ovvio che sarebbe stato più sensato, per l’Ucraina, accettare subito perdite territoriali limitate ma evitare i disastri della guerra.


Si possono riassumere le riflessioni fin qui svolte dicendo che il probabile esito finale di questa guerra sarà la sconfitta di tutti gli attori in gioco. Per “probabile esito finale” intendo una situazione in cui l’esaurimento delle risorse porterà ad una stabilizzazione del fronte che diverrà poi, materialmente o anche formalmente, la linea di confine. In questo modo, la Russia avrà incamerato una parte di Ucraina, ma a caro prezzo: farsi ancora più nemici tutti i paesi europei con lei confinanti (la richiesta di adesione alla NATO di due paesi tradizionalmente neutrali come Finlandia e Svezia è un segnale forte in questo senso), peggiorare la propria economia, specie nei settori che richiedono tecnologie avanzate, diventare dipendente da una potenza non del tutto amichevole come la Cina. Gli USA avranno indebolito la Russia ma rafforzato la Cina regalandole appunto la Russia, e non sembra una mossa di grande genialità. L’Ucraina avrà ottenuto di conservare una identità statale, ma sarà un paese devastato e impoverito.

Se davvero questo è l’esito più probabile della guerra in corso, l’irrazionalità delle scelte fin qui compiute da tutti gli attori appare evidente.


3. Scelte razionali.

Erano possibili scelte più razionali? È difficile rispondere, perché ci manca la conoscenza completa della situazione reale, che è a disposizione di ristretti ceti dirigenti. Non sappiamo quali siano i rischi reali che Russia, Ucraina, USA ritenevano di correre se avessero fatto scelte diverse. Il quadro completo della situazione ce l’avranno gli storici non prima di venti o quarant’anni, e solo allora sarà possibile una discussione approfondita.

Senza avere, quindi, la pretesa di una comprensione esaustiva, mi sembra però ragionevole far presente che in altri momenti, in situazioni non troppo diverse, i paesi occidentali hanno saputo usare strategie più sottili, che hanno dimostrato la propria efficacia con la vittoria nella Guerra Fredda.

Se pensiamo a quella fase storica, è facile rendersi conto che, in una formula, la Guerra Fredda l’hanno vinta i supermercati, non i carri armati. Ovvero, è stato il chiaro ed evidente spettacolo del benessere delle popolazioni dei paesi occidentali, contrapposto alle difficoltà quotidiane di quelle dei paesi dell’Est, a costituire il fattore decisivo, che ha permesso di far crollare il socialismo reale praticamente senza l’uso dello strumento militare. Ovviamente, ci voleva anche lo strumento militare per dissuadere il blocco orientale dal tentare avventure militari in Europa, ma una volta stabilizzata la situazione nell’equilibrio deciso a Jalta, il fattore decisivo per la vittoria dell’Occidente sono stati, come si diceva, i supermercati pieni di merci.

Se questo è vero, sembra allora chiaro quale dovrebbe essere la strategia vincente per USA e paesi occidentali: il primo passo sarebbe arrivare il più presto possibile ad una stabilizzazione della situazione in Ucraina con la divisione (per dirla in maniera grezza) fra una “Ucraina orientale” controllata dai russi e una “Ucraina occidentale” legata all’Occidente; il secondo passo, e sarebbe naturalmente quello decisivo, dovrebbe consistere nel trasformare, grazie agli aiuti, agli stimoli economici, al dinamismo generale, una tale Ucraina occidentale un paese ricco e prospero, mentre l’Ucraina orientale ovviamente sarebbe in difficoltà economica esattamente come la Russia. Il confronto fra le due situazioni eroderebbe lentamente l’eventuale consenso di cui forse godono i russi nella parte orientale, e presto o tardi l’Ucraina orientale farebbe la stessa fine della Germania Est.

Ma è facile rendersi conto che un analogo ragionamento vale anche per gli attuali vertici dello Stato russo: dopotutto, perché non dovrebbero essere loro a fare propria la possibile strategia occidentale, sopra accennata, e a trasformare la possibile “Ucraina dell’Est” in un paese ricco e prospero, così da diminuire il numero degli ucraini che guardano ad Occidente? Ma in realtà questo discorso si può estendere alla stessa Federazione Russa. Si tratta di un paese ricco di risorse ancora da sfruttare, con tradizioni scientifiche e tecnologiche di tutto rispetto: la risposta razionale rispetto alle pressioni che la Russia ritiene di subire dagli USA dovrebbe allora essere quella di trasformare la Russia stessa in un paese ricco e prospero, capace di attirare i paesi vicini nella propria orbita non con la forza delle armi ma con la forza del benessere. Non sembra che gli attuali ceti dirigenti russi abbiano la capacità o la volontà di muoversi in questa direzione.


4. La ragione di questa follia.

Ci avviciniamo, io credo, al cuore del problema se proviamo a riflettere sul perché nessuno degli attori in gioco ha adottato il tipo di strategia indicata nel punto precedente. Per quanto riguarda i paesi occidentali credo che il punto decisivo sia che essi non sono più in grado di ripetere quanto fatto nel dopoguerra: non sono più in grado di assicurare un benessere diffuso ai cittadini, e di garantirlo per il futuro prevedibile. Al contrario, negli ultimi decenni abbiamo visto in Occidente una continua erosione, almeno per i ceti medi e bassi, dei diritti e dei livelli di reddito ottenuti nei decenni precedenti, abbiamo visto crisi economiche dalle quali è sempre più difficile riaversi, abbiamo visto disoccupazione, precarietà, crescita delle disuguaglianze. Non mi dilungo su questi punti, perché si tratta del passaggio dalla fase “keynesiano-socialdemocratica” del capitalismo del dopoguerra a quella “neoliberista-globalizzata” del capitalismo attuale, sulla quale si è ormai detto tutto o quasi. Possiamo solo aggiungere che alla perdita di diritti e redditi dei ceti subalterni, indotta dalla fase attuale del capitalismo, si aggiunge l’angosciante realtà di un processo ormai avviato di stravolgimento degli equilibri sistemici del pianeta, processo che rende sempre più realistica la prospettiva di un collasso dell’attuale civiltà. I gruppi dirigenti occidentali non sono ovviamente interessati alla difesa di diritti e redditi dei ceti subalterni, visto che hanno attivamente contribuito ad eroderli, lungo gli ultimi decenni; ma non appaiono neppure realmente interessati a fermare il processo di degrado sistemico dei cicli ecologici del pianeta che l’attuale organizzazione economica e sociale genera. Ma accettare il degrado delle condizioni di vita dei ceti subalterni, e la distruzione dell’ambiente naturale che per millenni ha sorretto l’evoluzione delle società umane, significa in sostanza non avere prospettive di futuro. I gruppi dirigenti occidentali possono continuare in questa traiettoria, distruttiva per la civiltà, perché sono espressione di ristrettissimi ceti globalizzati di ricchi e super ricchi, evidentemente convinti che ricchezza e potere li metteranno al riparo dalle catastrofi che si preparano.

Finora ho parlato dei ceti dirigenti occidentali, ma è evidente lo stesso si può dire dei ceti dirigenti della Russia: anch’essi non sono in grado di impostare la strategia egemonica sopra accennata, perché in ogni caso la Russia è interna a una società capitalistica globale che sta declinando, e i leader russi, come quelli occidentali e quelli ucraini, non sono interessati al benessere del proprio popolo, ma sono espressione di ristretti ceti oligarchici a cui interessa solo utilizzare le risorse del proprio paese per accumulare ricchezze.


5. Un mondo senza futuro

In definitiva, il punto a cui siamo arrivati è il seguente: i ceti dirigenti delle varie potenze mondiali, per quanto fortemente contrapposti sul piano delle dinamiche globali del potere, sono accomunati dall’incapacità di offrire ai loro popoli la prospettiva realistica di una vita dignitosa nel prossimo futuro. Per di più, nella sostanza della loro azione, appaiono essenzialmente indifferenti alla prospettiva di un collasso drammatico dell’attuale civiltà, collasso indotto dalla sempre più evidente alterazione dei cicli fisici, geologici e biologici del pianeta. Tutto questo non fa che rendere evidente la mancanza di prospettive degli attuali ceti dirigenti. L’irrazionalità che appare nelle scelte strategiche dei vari attori è una conseguenza di questa mancanza di prospettive, che non siano quelle dell’arricchimento di ceti ristretti.

Per spiegare meglio la tesi che qui si espone, facciamo un paragone con la situazione storica del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, i “trent’anni gloriosi” dello sviluppo capitalistico, del Welfare State e del confronto USA-URSS. Anche in quella fase storica, naturalmente, vi sono stati eventi imprevisti che hanno turbato le strategie e le interazioni di potere fra le potenze e le superpotenze, e vi sono state, di conseguenza, valutazioni erronee e comportamenti non razionali, come sempre ve ne sono nella storia. La mia tesi è che ci sia una fondamentale differenza fra quella situazione e il mondo attuale. In quella fase, la realtà di un progresso effettivo per le società e gli individui forniva alle strategie politiche uno sfondo di solidità, sicurezza, fiducia, sulla base del quale era possibile affrontare le crisi impreviste e rimediare agli errori di valutazione: in ogni caso, era fiducia diffusa (e ben risposta, almeno per quella fase) che le tante crisi non avrebbero potuto cambiare radicalmente la direzione progressiva del divenire storico. Tali crisi era solo perturbazioni rispetto al vettore del progresso: perturbazioni che potevano essere gravi, e avere conseguenze tragiche per tanti individui, ma che non cambiavano i riferimenti di base delle strategie politiche. È questa situazione di fondo ad essere oggi completamente diversa: la prospettiva di un collasso generalizzato dell’attuale civiltà, causato dall’accumularsi di crisi sempre più numerose e sempre più difficili da gestire, provoca il venir meno dei riferimenti fondamentali delle strategie delle potenze, e quindi il loro carattere sempre più inadeguato alla realtà. È questa, a mio parere, la radice ultima dell’irrazionalità che emerge da una vicenda come quella della guerra ucraina: i ceti dirigenti delle potenze mondiali lottano in un mondo che non ha una prospettiva di futuro, e lo fanno restando all’interno della logica che sta portando questa civiltà al collasso, la logica del capitale e della sua espansione senza fine e senza fini.

Per fare un’analogia, la situazione dei ceti dirigenti attuali è analoga a quella di un membro del senato romano che, nel 465 d.C., si lanciasse in trame e scontri per cercare di salvare il ruolo e il potere dell’Impero Romano d’Occidente mantenendone la struttura sociale ed economica di base, che stava crollando: tutti i suoi piani e le sue strategie, per quanto abilmente concepite, apparirebbero nella sostanza irrazionali.

Questa situazione potrebbe cambiare solo se, di fronte al collasso prossimo venturo, vi fosse qualche forza sociale e politica disposta a uscire dalla logica di questo sistema morente, e quindi a cambiare radicalmente gli assetti dell’attuale mondo globalizzato nelle forme e nei modi necessari per rendere vivibile e giusto il mondo che emergerà dal collasso. È mia convinzione che questo necessariamente significhi la fuoriuscita dal capitalismo e la costruzione di una qualche forma di organizzazione che, in mancanza di parole migliori, chiamerò ecosocialista. Una tale forza sociale e politica è però del tutto assente dall’orizzonte delle possibilità effettive del presente e del futuro prevedibile. In un mondo senza futuro, gli scontri fra le potenze per l’egemonia mondiale, attuati mentre l’intera civiltà attuale si sta avviando al collasso, non faranno che accentuare la dinamica del collasso stesso.

(M.Badiale, estate 2022)

mercoledì 17 agosto 2022

martedì 2 agosto 2022

lunedì 1 agosto 2022

martedì 26 luglio 2022

venerdì 15 luglio 2022

Spiegare l'assurdo

 

Spiegare l’assurdo

(lettere al futuro 7)


Marino Badiale



1. L’assurdo

In un intervento precedente [1] ho osservato come sia paradossale la situazione dell’umanità contemporanea, posta di fronte al cambiamento climatico, e più in generale alla devastazione ambientale indotta dalla società attuale: da una parte si accumulano le conoscenze scientifiche che delineano un quadro di grande pericolo e grande urgenza, mentre le prime avvisaglie della crisi climatica in corso stanno concretamente interferendo con la vita di varie comunità sparse nel pianeta [2]; dall’altra, la società globalizzata contemporanea non sta in sostanza facendo nulla di essenziale per affrontare la crisi climatica e le altre problematiche ambientali. Dicendo “nulla di essenziale” intendo dire che le iniziative che si tenta di porre in essere, a livello sia degli individui sia delle comunità e delle istituzioni, per quanto lodevoli e necessarie, non appaiono tuttavia sufficienti rispetto alla gravità dei processi in atto. Il problema sta infatti nella struttura fondamentale della nostra organizzazione economico-produttiva, nei rapporti sociali ed economici che la strutturano e che possiamo riassumere come “capitalismo”. Senza toccare questi dati strutturali non è possibile un’azione realmente efficace di contrasto e contenimento della crisi climatica. Ciò che colpisce è il fatto che l’umanità contemporanea sembra ignorare questa “scomoda verità”, e quindi appare nella sostanza indifferente rispetto alla crisi climatica, nonostante le oscillazioni di maggiore o minore interesse che si possono avere negli anni. Questa indifferenza appare con molta evidenza nei ceti dirigenti dell’attuale società globalizzata, perché ovviamente sono loro ad avere il potere e i mezzi per “fare qualcosa”, ed è l’assenza del loro “fare” la principale responsabile della situazione in cui ci troviamo, e del cupo futuro che ci si prepara. Ma una tale indifferenza è anche molto evidente nei ceti subalterni, che non si mobilitano per imporre ai gruppi dirigenti azioni efficaci di contrasto alla crisi climatica, eventualmente sostituendoli con altri gruppi. Questa mancanza di azione da parte dei ceti subalterni colpisce in modo particolare, per il banale motivo che saranno loro le prime e più numerose vittime dei disastri che ci attendono, perché chi sta ai vertici della piramide sociale avrà i mezzi per sottrarsi, almeno in un primo tempo, ai danni peggiori.


Un esempio abbastanza evidente di questa sostanziale indifferenza è l’atteggiamento pubblico nei confronti della siccità che colpisce l’Italia nei giorni in cui scrivo questo intervento (estate 2022). Una delle previsioni sulle quali concordano i climatologi è infatti proprio quella di un progressivo inaridimento dell’area mediterranea, quindi ovviamente anche dell’Italia. Non è certo sorprendente, data la miseria del ceto politico italiano, il fatto che nella sostanza nessuno si sia preoccupato di queste previsioni, negli anni passati, quando esse erano appunto solo previsioni. Ma quest’anno le previsioni sembrano cominciare a trovare conferma nella siccità, che colpisce duramente anche zone del Paese (il Nord), normalmente esenti da questo tipo di problemi. La reazione comune, sia dei ceti dirigenti sia delle masse popolari, sembra essere però quella di considerare la situazione descritta come un’emergenza alla quale resistere, aspettando il ristabilirsi di condizioni “normali”. Nessuno sembra prendere in considerazione il fatto che siamo di fronte a cambiamenti epocali, che le condizioni “normali” stanno scomparendo, e che appare necessario e urgente attrezzarsi per sopravvivere nella nuova realtà: per esempio, limitandomi qui ad alcuni suggerimenti circolati nei media, costruendo invasi per raccogliere l’acqua piovana, intervenendo sulla rete idrica che ha molte perdite, costruendo impianti per la desalinizzazione dell’acqua di mare. Il mondo della politica non sembra impegnato a impostare le azioni necessarie, e, soprattutto, non c’è una pressione popolare perché tali azioni vengano intraprese. Se pensiamo a cosa significhi l’acqua corrente in ogni casa per la qualità della nostra vita quotidiana, questa sostanziale e diffusa indifferenza appare davvero misteriosa.


L’evidenza di questo paradosso (stiamo andando verso un collasso sociale mai visto prima, e a nessuno, o quasi, importa) colpisce tutti coloro che si interessano di questi temi, ed è naturale che si tenti di formulare una spiegazione per tale stranezza. In questo intervento esaminerò alcune di queste spiegazioni, cercando di argomentare la loro insufficienza, e poi esporrò alcune considerazioni sul problema in questione.


2. Spiegazioni insufficienti

Una prima spiegazione, che ho sentito ripetere in vari interventi e discussioni in rete, è quella che fa riferimento a una carenza di tecnica comunicativa da parte di scienziati e attivisti. Le persone che cercano di mobilitare l’opinione pubblica su questi temi, secondo l’opinione che sto analizzando, non sarebbero in grado di farlo in maniera appropriata, non riuscendo così ad ottenere l’effetto voluto.

Si tratta di una spiegazione apparentemente plausibile, che però, a mio avviso, ad un esame più attento si rivela alquanto debole. Si può infatti osservare che quando vengono formulate queste riserve non viene mai detto chiaramente quali dovrebbero essere le forme corrette di comunicazione: sembrerebbe, per esempio, sconsigliabile lanciare allarmi “catastrofisti” perché potrebbero scoraggiare il pubblico, ma d’altra parte sembra arduo sperare di convincere il pubblico stesso alle azioni, impegnative e costose, che appaiono necessarie per contrastare la crisi climatica, senza comunicare al tempo stesso l’urgenza e la gravità dei problemi che incombono sulla società contemporanea. Oppure, per fare un altro esempio, sembrerebbe controproducente produrre discorsi troppo tecnici, che difficilmente vengono correttamente intesi dalla massa del pubblico, ma d’altra parte se si rinuncia al rigore scientifico le parole di un climatologo non di distinguono troppo da quelle di un incompetente negatore della crisi climatica.

Quello che intendo dire è che, in mancanza di indicazioni precise su quale sia la “corretta comunicazione”, la tesi che stiamo discutendo appare imprecisa e poco utile. Per uscire da tale imprecisione chi agita questo tipo di critica dovrebbe fornire degli esempi reali di una comunicazione efficace, capace di smuovere l’indifferenza delle masse. Non mi pare che qualcosa del genere sia stato finora prodotto.

D’altra parte, se si prova a ricercare materiale disponibile su questi temi, sembra che si possa sostenere una tesi diametralmente opposta: nel campo della divulgazione sulla crisi climatica esistono ottimi esempi di comunicazione, e, quel che è ancora meglio, ne esistono di adatti a tutti i tipi di pubblico. Penso a un divulgatore come Luca Mercalli, assolutamente insuperabile nella capacità di rendere in maniera gradevole e accessibile contenuti scientifici [3], oppure al podcast “Bello mondo”, di Elisa Palazzi e Federico Taddia [4], anch’esso del tutto accessibile al largo pubblico. Chi desidera approfondimenti più tecnici può trovare in rete una enorme quantità di materiale. In sostanza, chiunque desideri essere informato su questi temi, trova facilmente, in rete o sul mercato editoriale, la comunicazione più adatta al proprio livello di preparazione.

Mi sembra che queste considerazioni portino a concludere che sia erronea la spiegazione che interpreta il problema che stiamo indagando come un problema di cattiva comunicazione.

Un altro tipo di spiegazione proposta fa appello a limitazioni dell’apparato cognitivo umano, dovute alla nostra storia evolutiva. L’idea è che noi discendiamo da primati bipedi vissuti per tempi lunghissimi nella savana africana, e siamo di conseguenza “calibrati” per certi tipi di percezioni e di pensieri, e non per altri. Per fare un esempio, Dalie Jamieson scrive, in riferimento al problema del cambiamento climatico: “l’evoluzione non ci ha fatti per risolvere, e nemmeno per riconoscere, questo tipo di problema: noi abbiamo una forte propensione per rilevare movimenti evidenti di oggetti di medie dimensioni percepibili con la vista; in genere, il cambiamento climatico non si presenta così” [5]. Confesso che un simile argomento, per quanto sostenuto da persone colte e preparate (come lo stesso Jamieson), mi lascia alquanto perplesso, perché sembra stranamente ignorare, più o meno, l’intera storia delle civiltà umane dal neolitico in poi, storia che ha dimostrato che gli esseri umani hanno le capacità cognitive per costruire infinite diversissime elaborazioni simboliche, senza nessun legame diretto con la vita degli australopiteci nella savana o nella foresta: dalla meccanica quantistica all’arte della fuga, dalla Cappella Sistina alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, dalla costruzione delle grandi cattedrali gotiche ai buchi neri, dalle dimensioni frattali alla teologia negativa dello Pseudo-Dionigi. Gli esseri umani hanno dimostrato di essere perfettamente in grado di immaginare, pensare, creare, scoprire (e si scelga il verbo che si ritiene più adatto) realtà simboliche diversissime fra loro e completamente aliene rispetto a quello che poteva essere il mondo dell’australopiteco o dell’Homo abilis. Perché mai dovrebbero avere ora speciali difficoltà a concepire il cambiamento climatico? E infatti il cambiamento climatico è concepito e indagato da una comunità numerosa di studiosi che, mi risulta, discendono dagli stessi primati africani da cui discende il resto dell’umanità. E se i limiti cognitivi dai quali sarebbe gravata la nostra specie non hanno impedito ai climatologi lo studio scientifico approfondito del cambiamento climatico, perché mai dovrebbero impedire al resto dell’umanità di prendere atto delle elaborazioni scientifiche dei primi?

In definitiva, anche questa spiegazione appare poco convincente.


3. Una risposta semplice

Per comprendere la nostra situazione attuale, conviene forse tentare altre vie, rispetto a quelle, poco convincenti, delle quali abbiamo appena discusso. A me sembra infatti che l’essenziale per tale comprensione sia già stato detto, come spesso accade, molto tempo fa. Penso all’episodio del “giovane ricco” riportato dai Vangeli sinottici. Al giovane che gli chiede come ottenere “la vita eterna”, Gesù risponde di osservare i comandamenti. Il giovane risponde di averlo sempre fatto. Allora, prosegue il Vangelo

Gesù gli rispose: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Il giovane, udite queste parole, se ne andò via rattristato, perché aveva molti beni. [6]

Il giovane sta confusamente cercando un modo per cambiare la propria vita, che, evidentemente, percepisce come insoddisfacente. Gesù gli espone la possibilità di un cambiamento radicale, ma il giovane si ritrae, e se ne va “rattristato”. Siamo di fronte ad un incontro mancato fra un bisogno di significato, da parte del giovane, e la proposta che gli fa Gesù. Come mai le due prospettive non riescono a incontrarsi? È forse un errore di comunicazione da parte di Gesù, che si è spiegato male? È forse un errore cognitivo del giovane, che non ha capito quello che intendeva dire Gesù, errore dovuto alle impostazioni cognitive insufficienti che ci vengono dai nostri antenati nella savana africana? Mi sembra si possa dire di no. Mi sembra che il punto non sia davvero l’incomprensione, ma anzi proprio il contrario: il giovane ha capito benissimo quello che Gesù gli ha detto, ed è perché lo ha capito, che rinuncia e se ne va. Non siamo di fronte a un problema di comprensione o di comunicazione. Siamo di fronte a un problema di scelte.

A me sembra che la nostra situazione sia del tutto analoga. L’umanità contemporanea, in sostanza, nei confronti della crisi climatica ha capito benissimo qual è il problema e quali sono le possibili soluzioni. Ha capito benissimo che tali soluzioni, in un modo o nell’altro, comportano un cambiamento radicale di quella che è stata finora l’organizzazione generale della vita. Comportano l’abbandono del consumismo esasperato delle società occidentali, e della rincorsa a tale modello da parte delle economie emergenti. E come il giovane del Vangelo, l’umanità ha fatto la sua scelta. Vuole la ricchezza e il consumo (sia che ne disponga attualmente, sia che speri di arrivarci in un modo o nell’altro), e quindi continuerà nella strada percorsa sinora, anche se essa porta al collasso di natura e società.


4. Articolando la risposta

La risposta semplice che abbiamo dato nel paragrafo precedente è però davvero troppo semplice. Il suo difetto principale sta nel parlare di una “umanità” indifferenziata. Nonostante questo, essa a mio avviso contiene un elemento di verità che può essere sviluppato, correggendo il difetto sopra evidenziato. È chiaro che dobbiamo almeno distinguere fra i ceti dominanti dell’attuale società globalizzata e i ceti subalterni. Ora, per quanto riguarda i ceti dominanti, credo che quanto detto nel paragrafo precedente rappresenti una descrizione essenzialmente corretta. Nella sostanza, i ceti dominanti internazionali hanno deciso che contrastare seriamente la crisi climatica potrebbe mettere in pericolo il loro potere e la loro ricchezza. Ho argomentato estesamente questo punto in alcuni interventi precedenti, ai quali rimando [7]. Mi sembra che gli sviluppi successivi agli interventi appena citati confermino la tesi in essi sostenuta, e ribadita nelle righe precedenti. È facile infatti rendersi conto che, con la guerra in Ucraina, il tema del cambiamento climatico è passato in secondo piano, nelle agende politiche e nei mezzi di comunicazione. Prima di tale guerra, poteva sembrare che i ceti dominanti si fossero finalmente resi conto della gravità della situazione e stessero assumendo impegni per fronteggiarla. Ma la crisi ucraina ha mostrato con chiarezza estrema che, davanti ad un vero scontro di potere fra gli Stati più importanti, le tematiche ecologiche vengono dimenticate in un batter di ciglia, tanto che oggi si parla tranquillamente di riaprire alcune centrali a carbone, notoriamente il combustibile peggiore, dal punto di vista delle emissioni di anidride carbonica.

Certo, i ceti dominanti sanno che in questo modo la società attuale va incontro a rischi gravissimi, ma in sostanza ritengono, a torto o a ragione, di essere in grado di usare potere e ricchezza per proteggersi dalla crisi climatica. La loro scelta è quindi chiara e netta: non rinunciare a nulla del loro potere e dei loro privilegi, anzi usare potere e privilegi per proteggersi dalle nefaste conseguenze della crisi climatica, lasciando che tali conseguenze colpiscano la stragrande maggioranza dell’umanità, che non avrà a disposizione mezzi per proteggersi. Come il giovane del racconto evangelico, sono stati posti di fronte ad una scelta morale, e hanno scelto. La loro scelta prefigura un orrore inaudito nella storia dell’umanità. Chi riuscirà a sopravvivere, e a ricostruire faticosamente una qualche forma di civiltà, guarderà agli attuali ceti dominanti con un orrore pari solo alla dimensione della catastrofe che colpirà il nostro mondo.


5. Solo una rivoluzione ci può salvare

La scelte dei ceti dominanti sono, nell’essenza, abbastanza facili da comprendere e da descrivere. Appare invece più difficile da decifrare l’atteggiamento dei ceti subalterni. Il resto di questo articolo è dedicato a questo problema, rispetto al quale non ho una risposta definitiva. Mi sembra però possibile offrire almeno alcuni elementi di una possibile risposta, alcune tessere del puzzle, per così dire.

È difficile capire la sostanziale passività dei ceti subalterni perché, come si è già detto, si tratta di coloro che maggiormente soffriranno del collasso che si avvicina. Si potrebbe pensare che i ceti subalterni siano preoccupati dal fatto che anche l’abbandono dell’attuale percorso sociale suicida porterebbe disagi e problemi, e fra essi l’abbandono del consumismo tipico dell’attuale società, abbandono che molti vivrebbero come una grave rinuncia. D’altra parte, disagi e rinunce potrebbero trovare un senso nell’accettazione di una organizzazione economica e sociale che, rinunciando al consumismo e alla crescita fine a se stessa, assicuri a tutti una vita dignitosa, tramite la soddisfazione dei bisogni materiali fondamentali, la piena libertà di sviluppo della personalità, e una significativa diminuzione delle attuali disuguaglianze sociali. Se si considera che l’alternativa è il collasso sociale ed ecologico che in ogni caso annienterà, per la stragrande maggioranza, gli attuali livelli di vita, la strada da percorrere non sembrerebbe negativa.

È anche facile capire cosa sia necessario per abbandonare la traiettoria che ci porta al suicidio sociale: una forte mobilitazione dei ceti popolari, con proteste diffuse, manifestazioni, scioperi e boicottaggi, mobilitazione che porti alla nascita di una o più forze politiche ben radicate, che a loro volta lottino contro i ceti dominanti per espellerli dal potere, sostituirli e iniziare un radicale cambiamento dell’intera organizzazione economica, nella direzione sopra indicata. In sostanza, utilizzando il titolo di un bel libro di Naomi Klein [8], solo una rivoluzione potrà salvarci. Il problema è che di una tale rivoluzione non si vede il minimo accenno: le masse popolari accettano passivamente il lento peggioramento delle loro condizioni di vita, e non si vede traccia della mobilitazione che sarebbe necessaria per fronteggiare la vastità e l’urgenza dei pericoli che ci sovrastano.

È possibile capire i motivi alla base di tale passività? Proviamo a indicarne qualcuno.

Una prima ovvia osservazione è che uno degli aspetti fondamentali del dominio dei ceti dominanti è l’egemonia sull’informazione e in generale sul discorso pubblico, che significa egemonia ideologica e culturale. Il mondo dell’informazione (giornali e televisioni) è rigidamente al servizio dei ceti dominanti ed esclude con cura la possibilità che voci alternative possano acquisire autorevolezza nei mezzi di comunicazione più importanti. D’altra parte, il mondo del web e dei social network è senz’altro meno controllato, ma proprio per questo è in larghissima parte un delirio sconclusionato di voci dissonanti, che non permette la discussione razionale necessaria per comprendere la realtà. Allo stesso effetto di irrazionalità diffusa concorre la crisi della scuola, che ha privato i ceti subalterni di quella minima base di cultura e di capacità critica necessarie all’impegno politico.

Queste osservazioni mi sembrano sostanzialmente corrette, ma ancora insufficienti. Vanno affiancate da un discorso più approfondito.


6. Il capitalismo intrascendibile

A me sembra che un problema di fondo sia la totale incapacità di pensare la propria esistenza al di fuori dell’attuale organizzazione economica e sociale. La stragrande maggioranza dell’umanità (che ci si trovi in alto o in basso nella scala sociale) non riesce a concepire seriamente che si possa organizzare un modo di vivere, alternativo a quello attuale, che sia accettabile, e magari anche migliore, da certi punti di vista. Ciò che l’intera umanità sembra aver introiettato è l’intrascendibilità della presente organizzazione sociale: essa appare come un dato di natura, del quale è assurdo pensare di fare a meno, come non si può fare a meno dell’aria o dell’acqua. Certo, tutti ormai si avvedono, in maniera più o meno cosciente, che tale organizzazione sociale crea problemi e anche disastri, ma questi sono appunto visti come disastri naturali, contro i quali è inutile protestare, mentre l’unico comportamento ragionevole appare l’adattamento. E magari l’adattamento può significare compiere azioni lodevoli come installare pannelli fotovoltaici o diminuire il consumo di carne, ma in ogni caso non implica la radicale messa in discussione della logica sociale capitalistica che ci porterà al collasso.

Questa incapacità di pensare la propria vita al di fuori dell’attuale logica sistemica è indubbiamente legata all’egemonia culturale dei ceti dominanti, alla quale abbiamo già accennato. Ma il fatto di accettare senza resistenze questa egemonia mi pare richieda una spiegazione.

Un primo punto rilevante, a questo proposito, credo sia il constatare una sostanziale fragilità della personalità umana nell’attuale “tardo capitalismo”. L’invasione di ogni sfera sociale da parte della logica capitalistica ha come conseguenza un sempre maggiore conformismo sociale: siamo tutti spinti alla maggiore diversificazione possibile dei gusti e dei consumi (per chi se lo può permettere, s’intende), ma al di sotto di questa superficie la vita sociale è in realtà rigidamente incanalata secondo la logica sistemica del profitto, proprio perché tale logica ha invaso ogni ambito sociale. Ciò significa che opporsi ad essa richiede dall’individuo una grande forza interiore, perché si tratta di una logica alla quale si soggiace in maniera quasi automatica, incorporata com’è nello scorrere quotidiano dell’apparato tecnico su cui si basano le nostre società. Ma proprio questa forza interiore, la forza di opporsi, di dire no alla logica sistemica, sembra essere oggigiorno venuta meno. Moltissimi protestano, per un motivo o per l’altro, ma sono quasi sempre proteste del tutto interne alla logica sistemica: proteste che quasi sempre hanno come scopo (quando ne hanno uno) la richiesta di qualche modificazione legislativa a favore del proprio gruppo di interesse, e magari di qualche finanziamento statale. E poiché questi vantaggi possono essere ottenuti solo se il sistema scorre senza inciampi, appare evidente che, nella maggior parte dei casi, le proteste di questo tipo non hanno la capacità, e direi nemmeno l’intenzione, di pensare una fuoriuscita dal capitalismo.

Se davvero la “personalità debole” è un aspetto importante dell’attuale incapacità di pensare un’alternativa, è probabile d’altra parte che una tale “debolezza” sia a sua volta un effetto della logica sistemica. Il capitalismo è stato descritto correttamente come la realtà sociale nella quale “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” [9]. Ma la personalità per svilupparsi ha bisogno di basi ferme, di punti di riferimento solidi. Anche per contrapporsi ad essi, e per crescere in questa contrapposizione. Sembra logico dedurre che un sistema sociale che annulla ogni passato e ogni tradizione, che dissolve ogni punto di riferimento, finirà col produrre personalità deboli e fondamentalmente insicure. Questa insicurezza di fondo delle persone mi sembra appaia con molta evidenza in una serie di fenomeni sociali oggi assai diffusi, legati in sostanza all’estrema facilità del sentirsi e dichiararsi offesi e feriti, che Guia Soncini ha efficacemente riassunto con l’espressione “era della suscettibilità”[10].

Un secondo punto fondamentale mi sembra quello della distruzione di ogni razionalità nel dibattito pubblico. È ormai venuto meno un piano di discussione comune, nel quale sia possibile elaborare e condividere interpretazioni del mondo forti e razionali, che possano costituire la base di un movimento di massa. Nel discorso pubblico si è prodotta una contrapposizione netta fra gli specialismi accademici e il linguaggio di massa. I primi conservano, almeno in molti casi, forti elementi di razionalità, ma è una razionalità che riesce a rimanere tale solo isolandosi dal dibattito pubblico. D’altra parte, il linguaggio di massa appare come un delirio cacofonico, una maionese impazzita di voci discordanti sulla base delle quali è impossibile costruire alcunché. Questo impazzimento lo si scorge con chiarezza, come si diceva sopra, nella comunicazione virtuale su internet, ma ormai appare evidente anche nei media “mainstream”, che sembrano aver imboccato la strada di un abbassamento continuo del livello intellettuale delle proprie produzioni.

Gli elementi indicati mi sembrano importanti, e si potrebbe ovviamente continuare con un lungo elenco, diciamo “fenomenologico”, di tutto ciò che, nello “spirito del tempo” attuale, appare indicare una decadenza. Ma un tale elenco diventerebbe davvero rilevante solo riuscendo a connettere i diversi fenomeni in una spiegazione complessiva che di tali fenomeni mostri le radici nelle forme di funzionamento attuali della logica autoriproduttiva del capitalismo.

Non ho la pretesa di svolgere qui un tale immane compito teorico. Penso sia possibile però fornire alcune indicazioni. Un simile lavoro non potrà, io credo, prescindere dai concetti elaborati da Massimo Bontempelli in alcuni testi scritti poco prima della sua prematura scomparsa [11]. Si tratta della nozione di “sussunzione reale della persona al capitale”, cioè della tesi che la logica di espansione senza limiti del modo di produzione capitalistico lo porta ad invadere ogni ambito della società, strappandolo alla sua logica specifica e piegandolo alla logica dell’estrazione di valore. Viene così meno ogni esempio di logica sociale almeno parzialmente autonoma rispetto alla logica capitalistica, che in questo modo arriva a dare forma alla stessa personalità individuale. Il compito teorico da intraprendere sarebbe allora, come detto poc’anzi, quello di connettere questi concetti generali alle manifestazioni empiriche odierne della subalternità diffusa alla logica sistemica. Si tratta purtroppo di un compito ancora largamente inevaso, e possiamo solo sperare che giovani forze intellettuali abbiano la voglia e la capacità di dedicarsi ad esso.

In mancanza di tale sistemazione teorica, l’argomentazione che ho qui proposto resta incompleta. Mi sembra però che, scontando tale incompletezza, essa permetta comunque di capire alcuni aspetti fondamentali della nostra attuale situazione, una situazione in cui i ceti subalterni appaiono privi di ogni autonomia intellettuale e morale rispetto ai ceti dominanti. È questa sudditanza che rende i ceti subalterni realmente tali, e che produce le assurdità che abbiamo sopra descritte. Tale situazione potrebbe ovviamente cambiare, ma, se sono corrette le considerazioni sopra svolte, un tale cambiamento richiederebbe un rovesciamento totale delle forme di coscienza odierne. Non è qualcosa di impossibile: dalla condizione di cacciatori-raccoglitori a quella attuale, grandi mutamenti culturali e antropologici non sono mancati, nella storia della nostra specie. Ma è assai difficile che un simile radicale mutamento avvenga nel breve tempo rimasto prima che la traiettoria mortifera che ci trascina diventi irreversibile. Sembra dunque inevitabile concludere che l’attuale civiltà proseguirà nella sua corsa folle fino all’autodistruzione, oltre la quale i sopravvissuti ricostruiranno forme di civiltà oggi imprevedibili.


(Genova, estate 2022)



Note


[1] http://www.badiale-tringali.it/2020/10/il-muro.html


[2] Si vedano i seguenti utili resoconti di tipo giornalistico: S.Liberti, Terra bruciata, Rizzoli 2020; F.Deotto, L’altro mondo, Bompiani 2021; R.Mezzalama, Il clima che cambia l’Italia, Einaudi 2021; M.G.Mian, Artico, Neri Pozza 2018.


[3] È sufficiente cercare su youtube alcune delle conferenze di Mercalli, per rendersi conto che difficilmente questi temi possono essere comunicati meglio di così. D’altra parte Mercalli è anche bravissimo a scrivere libri divulgativi: L.Mercalli, Prepariamoci, Chiarelettere 2011; L.Mercalli, Il clima che cambia, Rizzoli 2019; L.Mercalli, Non c’è più tempo, Einaudi 2018; L.Mercalli, La Terra sfregiata, Edizioni Gruppo Abele 2020; L.Mercalli, Salire in montagna, Einaudi 2020.


[4] https://open.spotify.com/show/71W3wVj56B3b7XH55SlhTR


[5] D.Jamieson, Il tramonto della ragione, Treccani 2022, pag.192 (faccio riferimento all’edizione digitale, non so se la numerazione delle pagine sia la stessa dell’edizione cartacea).


[6] Matteo 19, 16-26. Come si è detto, l’episodio è riportato negli altri sinottici: Luca 18, 18-27, Marco 10, 17-27, ma solo Matteo qualifica l’interlocutore di Gesù come “giovane”. Poiché questa qualificazione è diventata tradizionale, riporto l’episodio nella versione di Matteo. Cito dalla Bibbia nella versione delle Edizioni Paoline, 1979.


[7] http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html,

http://www.badiale-tringali.it/search?q=fine+partita,


[8] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli 2015. Anche il titolo originale inglese, This changes everything, è ben scelto.


[9] M.Berman, Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, Il Mulino 2012.


[10] G.Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio 2021. La tematica del libro è ben descritta nella pagina di presentazione sul sito della casa editrice

https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2970987/l-era-della-suscettibilit


[11] Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”:

https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1503-massimo-bontempelli-capitalismosussunzione-

nuove-forme-della-personalita.html

e inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore

Francesco Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità antropologiche”,

pagg.49-62.