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mercoledì 3 novembre 2021

Riflessioni sul PCI

 

Riflessioni sul PCI

Marino Badiale


1. Introduzione.

Questo intervento espone alcune riflessioni su aspetti di fondo della storia del Partito Comunista Italiano. Si tratta di temi sui quali sono andato interrogandomi a lungo, in parte per motivi legati alla mia storia personale. Le tesi che esporrò hanno carattere ipotetico, e sottolineo questo aspetto: esse andrebbero intese come stimoli a discussioni e ricerche di tipo storico, finalizzate a corroborarle o limitarne la validità o confutarle.

La discussione svolta in questo articolo non riguarda l’intera storia del PCI, ma si concentra su quel periodo nel quale esso è effettivamente un agente storico fondamentale nella costruzione dell’Italia attuale. Si tratta del periodo che va dal 1943 (con l’inizio della Resistenza) agli anni Settanta. I pochi accenni ai primi vent’anni di vita del Partito serviranno solo per segnalare alcuni aspetti rilevanti per le mie argomentazioni. Per quanto riguarda invece la parte finale della storia del PCI, cioè gli anni Ottanta, ritengo che essa non apporti nessuna autentica novità: come cercherò di argomentare più avanti, il declino del PCI inizia negli anni Settanta e si esprime nella disgraziata politica del “compromesso storico” che il partito sceglie allora di perseguire. Gli anni Ottanta, con la scomparsa finale del partito comunista in quanto tale, sono solo la stanca conseguenza delle scelte precedenti.



2. Quale doppiezza?

Il periodo sul quale mi concentrerò, dall’inizio della Resistenza agli anni Settanta, è quello nel quale il PCI si radica nella realtà del nostro paese, acquista un seguito di massa e diventa il primo partito della sinistra italiana, caratteristica che, mi pare, distingue il nostro paese da ogni altro paese occidentale. Si tratta, per parlare in termini strettamente pragmatici, di un notevole successo, ottenuto in condizioni non facili, col potere statale in mano agli avversari politici appoggiati dagli USA, la potenza egemone nel campo occidentale al quale apparteneva l’Italia. D’altra parte, questa fase storica termina, per il PCI, in maniera piuttosto negativa, con la sconfitta di ogni prospettiva socialista e l’inizio del declino che porterà poi all’autoscioglimento del partito alla fine degli anni Ottanta. Per cercare di comprendere le ragioni sia del successo sia del declino, credo sia opportuno partire da una delle critiche che sono state tante volte rivolte al PCI, da parte degli avversari politici di matrice liberale: alludo qui al rimprovero sulla “doppiezza” del PCI, cioè alla tesi che l’azione nazionale del Partito, sempre mantenuta nei binari della correttezza democratica, fosse solo un paravento per nascondere una volontà di abbattimento violento dell’ordine democratico e di instaurazione di un dittatura comunista. È mia opinione che questa accusa contenga elementi di verità ma anche un certo travisamento, e cercherò adesso di argomentare questa tesi. È interessante, tanto per cominciare, confrontare questa accusa con quella che arrivava dagli ambienti dell’estrema sinistra, particolarmente agguerriti nel decennio successivo al ‘68: quella cioè di una doppiezza pensata in senso esattamente opposto a quello appena descritto. Negli ambienti dell’estrema sinistra la doppiezza di cui il PCI era accusato consisteva nell’utilizzare linguaggio, simbologie, slogan, argomenti della tradizione socialista e comunista avendone però completamente abbandonata la sostanza rivoluzionaria. In sostanza, per i critici liberali il PCI era un partito apparentemente riformista ma in realtà rivoluzionario, per l’estrema sinistra, tutto all’opposto, era un partito apparentemente rivoluzionario ma in realtà riformista. Questa contrapposizione fa sospettare che nessuna delle due posizioni colga esattamente l’oggetto in questione. La tesi che intendo sostenere è che in effetti è corretto parlare di una certa “doppiezza” del PCI, ma che essa non è esattamente descritta da nessuna delle due posizioni sopra indicate, anche se ciascuna ne coglie qualche aspetto parziale. La tesi che espongo è che la doppiezza del PCI stava in una certa frattura fra la politica interna e la politica estera.

In che senso il PCI era un partito riformista? La risposta è banale e consiste nella descrizione di quello che effettivamente il partito faceva nella politica locale e nazionale. Come tutti gli osservatori hanno sempre riconosciuto, la politica interna del PCI è sempre stata quella di battersi per ottenere gli avanzamenti economici e giuridici tipici della fase “keynesiano-socialdemocratica” del “trentennio dorato” 1945-1975: aumenti salariali, miglioramento dei trattamenti pensionistici, scuola pubblica, assistenza sanitaria pubblica, sostegno al lavoro femminile e in generale all’emancipazione femminile, maggiori diritti del lavoratore sul posto di lavoro, e così via. Si trattava di obiettivi strettamente “riformisti” e non certo “rivoluzionari”. Certamente, l’impossibilità di accesso al potere centrale limitava questa azione riformista del PCI, ma le seguenti semplici considerazioni sono sufficienti a far capire come questa limitazione fosse molto minore di quanto possa apparire: in primo luogo, il PCI e la sinistra tendevano a spingere la società italiana nella direzione nella quale si stava muovendo l’intero mondo occidentale, e questo dava ovviamente una grande forza a tali richieste; in secondo luogo, anche senza una partecipazione diretta al potere, la capacità di mobilitazione popolare del PCI, il suo radicamento nella società, il rispetto di cui godeva in molti ambienti intellettuali, rendevano la “pressione riformista” esercitata dal PCI in molti casi efficace; in terzo luogo, all’inizio degli anni ‘60 l’alleato del PCI, il PSI, entra nelle compagini governative, e nonostante le polemiche che ne seguirono, questo fatto dava maggiore forza alle istanze di riforma per le quali si batteva il PCI, e alle quali ovviamente il PSI era altrettanto sensibile; in quarto luogo, il PCI comunque arrivò a governare molte amministrazioni locali, e questo gli forniva un certo spazio per la realizzazione di qualcuna almeno delle istanze riformiste sopra accennate.

La tesi sul carattere riformista del PCI mi sembra dunque solidamente fondata sulla concretezza di ciò che il partito effettivamente faceva. E non mi riferisco qui ovviamente solo ai vertici. Era l’intero partito, vertici, quadri intermedi, militanti di base, che era impegnato in questo tipo di politica.

Se questo è chiaro, dovrebbe apparire chiaro in cosa consisteva la “doppiezza” del PCI. Infatti, se sul piano della scelte concrete di politica interna esso appare una variante, certo non del tutto ortodossa, della socialdemocrazia, dal punto di vista della politica internazionale le cose cambiano completamente: il PCI è un partito schierato, senza possibilità di dubbi, con l’URSS e il “campo socialista”. Nell’epoca storica segnata dalla Guerra Fredda e dallo scontro fra le due superpotenze per l’egemonia mondiale, si tratta ovviamente un punto decisivo, che segna una differenza netta e drastica rispetto alle socialdemocrazie occidentali. Questo punto decisivo implicava il fatto che, nelle condizioni del mondo come si erano configurate nel trentennio seguito alla Seconda Guerra Mondiale, il PCI mai avrebbe potuto accedere al potere statale. Come è noto, questa configurazione della politica italiana ha segnato in profondità la storia italiana del trentennio in questione.

Sorge a questo punto naturale la domanda: perché il gruppo dirigente del PCI mantiene questa scelta di campo filosovietica per tutto il periodo seguito alla Seconda Guerra Mondiale, fino alla caduta del Muro di Berlino? Per quanto riguarda il periodo del fascismo, e quello della Seconda Guerra Mondiale, è chiaro che tale gruppo dirigente non aveva molta scelta: un partito piccolo e perseguitato in patria poteva sopravvivere solo grazie all’appoggio dell’URSS. Ma con il ritorno in Italia del gruppo dirigente, la Resistenza, e la fondazione del partito di massa dopo la fine della guerra, il PCI si era costruito un radicamento reale nel paese, che avrebbe potuto permettergli il distacco dall’osservanza filosovietica. Ma tale distacco non è avvenuto. La ragione profonda di tale legame con l’URSS io credo risalga al fatto che il gruppo dirigente togliattiano si formò come tale nel periodo di crisi acuta del sistema capitalistico mondiale che, secondo una formula adottata dagli storici, possiamo chiamare “la seconda guerra dei Trent’anni”: cioè appunto il trentennio 1914-1945 che comprende la Prima Guerra Mondiale, la crisi postbellica col sorgere del fascismo in Italia, la crisi del ‘29 e la vittoria del nazismo in Germania, infine la Seconda Guerra Mondiale. Formatosi in questa fase storica così drammatica, il gruppo dirigente togliattiano aveva acquisito l’idea di fondo che il capitalismo fosse un sistema ormai decadente e destinato ad essere sostituito, in tempi non troppo lunghi, dal socialismo, che in quel momento era rappresentato da URSS e satelliti. Ora, è chiaro che se si accetta questa assunzione, l’idea di una rottura col campo socialista è semplicemente improponibile: se la decadenza del capitalismo e la vittoria finale del socialismo sono inevitabili, l’unica politica ragionevole è rimanere nel campo socialista cercando di lavorare per correggerne le storture e gli aspetti negativi (che venivano negati ufficialmente, ma ovviamente erano ben noti al gruppo dirigente). Decadenza del capitalismo e possibilità di una evoluzione progressiva del “socialismo reale” sono i fondamenti ultimi della strategia politica del PCI nella fase storica che stiamo discutendo.

Riassumendo quanto detto finora, mi sembra che la specificità del PCI, nell’ambito dei paesi occidentali, si possa sintetizzare nel suo mettere assieme il riformismo nella politica interna e l’adesione al campo socialista in quella estera; nel suo essere, per usare una formula sintetica, una “socialdemocrazia filosovietica”.

Alla luce di quanto detto, possiamo allora riesaminare le accuse di “doppiezza” rivolte al PCI da destra e da sinistra. Avevamo notato come essere fossero contraddittorie, e mi sembra che adesso questa contraddizione si possa risolvere: la soluzione che propongo consiste nel distinguere i diversi piani temporali. Se è vero che il PCI manteneva l’aspirazione al superamento, anche in Italia, del capitalismo nella direzione di una società socialista, tale aspirazione era rimandata a un tempo futuro del tutto indeterminato e non era oggetto di concreta azione politica. Questo si accordava col filosovietismo del PCI perché nell’immediato dopoguerra la scelta strategica della dirigenza dell’URSS è stata quella di accettare, per l’Europa, i risultati geopolitici emersi dalla Seconda Guerra Mondiale: ovvero, da una parte l’URSS non ha avuto scrupoli nel fare dell’Europa orientale occupata dall’Armata Rossa un circuito di satelliti del proprio impero; ma dall’altra ha accettato l’egemonia USA sull’Europa occidentale, sapendo di non essere in grado di sfidarla nel breve e medio periodo. Una volta stabilizzata la situazione, che nell’immediato dopoguerra era o poteva sembrare ancora fluida, il compito dei partiti comunisti dell’Europa occidentale non era quello di prendere il potere (compito impossibile, dati i vincoli internazionali) ma piuttosto quello di condizionare, per quanto possibile, la politica estera dei rispettivi paesi in senso favorevole all’URSS.

Era questa la situazione storica che aveva creato lo spazio dove poteva attecchire e anche prosperare la strana forma di “socialdemocrazia filosovietica” rappresentata dal PCI: da una parte la spinta storica, nel mondo occidentale, al riformismo tipico del trentennio”keynesiano-socialdemocratico”, dall’altra il “congelamento” della situazione geopolitica in Europa, che in sostanza permetteva al PCI di negarsi, nella concretezza delle scelte politiche, al pericoloso gioco della rivoluzione, concentrandosi così su una politica riformista, senza però rinnegare l’ortodossia. Il fatto che la situazione storica offrisse oggettivamente questa possibilità non implica però che fosse inevitabile saperla cogliere, e infatti il PCI è stato in sostanza l’unico partito comunista nell’Europa occidentale capace di farlo: qui ha indubbiamente giocato un ruolo fondamentale il genio di Palmiro Togliatti, uno dei più grandi uomini politici del Novecento italiano.

Mi sembra che questa interpretazione permetta di cogliere l’elemento di verità di entrambe le critiche che abbiamo discusso all’inizio, mostrandone anche la parzialità. In effetti, avevano ragione i critici liberali del PCI a ritenere che l’istanza di superamento socialista della società liberale restasse elemento costitutivo della natura del PCI. Ma si sbagliavano nel non vedere che questa istanza rimaneva proiettata in un futuro indeterminato e in sostanza non aveva quasi nessuna realtà politica concreta. D’altra parte avevano ragione i critici di estrema sinistra che coglievano quest’ultimo aspetto e quindi accusavano il PCI di essere un partito riformista camuffato con simboli rivoluzionari. Ma si sbagliavano nel non riconoscere che il riformismo del PCI era inserito in una strategia di lungo periodo che manteneva comunque il socialismo come obbiettivo, e che faceva riferimento alla realtà molto concreta del “campo socialista”. Naturalmente, se guardiamo questa vicenda storica oggi, e quindi col senno di poi, è inevitabile concludere che il giudizio sul PCI dei critici di estrema sinistra è quello più vicino alla realtà: infatti, poiché la strategia di lungo periodo per il passaggio al socialismo si è rivelata totalmente fallimentare, ciò che resta della concreta esistenza storica del PCI è solo la sua concreta azione politica nel nostro paese, che è stata appunto, in quella determinata fase storica, quella di un partito di tipo riformista e socialdemocratico.



3. Successo o fallimento?

Abbiamo detto sopra che la vicenda storica del PCI presenta, dal punto di vista pragmatico, luci ed ombre: da certi punti di vista potrebbe essere considerata un successo, da altri un fallimento. Se vogliamo approfondire l’analisi, e superare questa prima impressione, dobbiamo a mio parere cercare di elaborare un giudizio a partire da quelli che erano gli obbiettivi che il partito stesso si poneva in modo esplicito. Ma cosa si proponeva il PCI, nella fase storica che stiamo esaminando? Abbiamo già detto che il PCI mirava al superamento del capitalismo e alla costruzione in Italia di una realtà economica e sociale di tipo socialista, e abbiamo osservato che il passaggio dal capitalismo al socialismo era pensato realizzarsi in un futuro indeterminato. Questo non riduceva però del tutto l’idea socialista a una vaga utopia senza risvolti pratici. Il punto decisivo qui sta nel fatto che la realizzazione del socialismo era pensata come il farsi Stato della classe operaia, e più in generale del popolo lavoratore, cioè come la crescita culturale e politica dei ceti subalterni che cominciano a intervenire nella gestione della macchina statale, a livelli via via più alti, fino a farsi classe dirigente capace di gestire la società. Il partito si pensava come lo strumento storico di questa crescita del popolo lavoratore a classe dirigente del paese. Si tratta chiaramente di un’impostazione di tipo riformista, molto lontana dalle istanze rivoluzionarie sbandierate dai partiti comunisti negli anni Venti del Novecento. Tale impostazione poteva però trovare appoggio nella lettura che nel dopoguerra il partito diede dei testi di Gramsci.

Se vogliamo allora giudicare la vicenda storica del PCI a partire da ciò che esso si proponeva, dobbiamo chiederci se il Partito è riuscito a fare quanto abbiamo sopra esposto, cioè a produrre o aiutare la crescita della classe operaia, o in generale del popolo lavoratore, a classe dirigente del paese. La risposta è ovviamente negativa, e basta aprire la finestra per saperlo. Ma questa risposta non basta alla comprensione della vicenda storica che stiamo esaminando. Dobbiamo chiederci le ragioni di questo fallimento, e in particolare mi sembra importante capire se vi siano, e quali siano, le ragioni interne alla natura stessa del PCI che hanno portato a questo esito. Occorre infatti osservare che il PCI, nella fase storica che stiamo discutendo, ha fatto molto per realizzare l’obbiettivo indicato: ha fatto molto cioè per far crescere i propri militanti a classe dirigente. Chi abbia avuto a che fare in quegli anni col Partito e i suoi militanti ricorda sicuramente le tante iniziative finalizzate alla crescita intellettuale e politica dei militanti, in particolare le famose “scuole di partito”. E tutto ciò ha avuto effetti pratici molto concreti: migliaia di militanti, uomini e donne, di estrazione popolare e senza un curriculum di studi, attraverso l’esperienza di militanza, le lotte politiche, le attività formative del partito, acquisirono le capacità e le competenze per diventare popolari dirigenti politici e sindacali, rispettati sindaci o assessori nelle amministrazioni locali, deputati e senatori abili a muoversi nelle schermaglie della politica parlamentare. Da questo punto di vista, l’azione del PCI è stata un successo storico che ha pochi precedenti nella storia del nostro Paese. Come mai allora tutto questo è finito nel nulla, e occorre constatare che, qualche decennio dopo, l’idea stessa dei ceti subalterni che si fanno classe dirigente è diventata una favola che può far ridere o piangere, ma non ha nessun legame con la realtà?

Mi sembra che si possa fare l’ipotesi che l’azione di “educazione politica di massa” svolta da Partito presentasse un serio limite, che consisteva nel fatto che essa era diretta allo sviluppo di determinate capacità e competenze, ma non a quello di una vera autonomia intellettuale dei militanti. In questo tipo di formazione erano rigidi i vincoli relativi a ciò che non poteva essere messo in discussione ma doveva essere accettato pena l’esclusione. Tali vincoli erano accettati senza troppe esitazioni proprio perché la gran parte dei militanti era debitrice al Partito di quella identità politica che si erano faticosamente elaborati al suo interno e col suo aiuto, e l’espulsione dal Partito avrebbe significato rischiare di distruggere questa stessa identità.

L’ipotesi che sottoponiamo qui all’attenzione è dunque che la ragione del fallimento sul lungo periodo del PCI consista nel rapporto fideistico e dogmatico dei militanti e quadri verso i vertici del partito stesso. Fideismo e dogmatismo hanno bloccato lo sviluppo dell’autonomia intellettuale della maggioranza del “corpo” del partito, e questo da una parte ha reso molto difficile la correzione di politiche sbagliate, e dall’altra ha alla fine bloccato l’avvicinamento all’obbiettivo di lungo periodo del partito, cioè la crescita della classe operaia e del popolo lavoratore come classe dirigente.

Esempi di tale dogmatismo se ne possono fornire moltissimi. Quelli che più colpiscono oggi sono probabilmente legati all’appoggio alle azioni più oscure dell’URSS, dalla repressione della rivolta ungherese del ‘56 a quella della Primavera di Praga del ‘68. Ciò che più colpisce in queste vicende è come persone che nell’azione politica concreta in Italia manifestavano umanità, senso di giustizia, solidarietà con gli oppressi, fossero poi completamente incapaci di tali sentimenti nei confronti delle vittime delle dittature comuniste. La mancanza di autonomia intellettuale rispetto al partito produceva in queste persone una specie di “schizofrenia morale”.

Gli esempi a cui ho accennato riguardano però paesi e situazioni piuttosto distanti dalla realtà di un militante del PCI degli anni ‘50 e ‘60. Vorrei allora approfondire un altro nodo problematico nella storia del PCI, che riguarda la realtà italiana che questi militanti conoscevano bene, e per questo mi sembra mostri con più efficacia i problemi legati al loro fideismo dogmatico. Mi riferisco alle vicende degli anni Settanta, e in particolare alla politica del “compromesso storico”.



4. Il compromesso storico, ovvero il suicidio del PCI.

Gli anni Settanta sono, per il PCI, gli anni di Enrico Berlinguer e della politica del “compromesso storico”. Ricordo rapidamente di cosa si tratta. La politica del compromesso storico nasce come risposta agli eventi cileni, culminati nel sanguinoso colpo di stato dell’11 settembre 1973. L’avventura cilena di “Unidad Popular” era stata vissuta con molta partecipazione da parte della sinistra italiana e del PCI, perché apparivano evidenti somiglianze di situazioni e progettualità politiche fra Cile e Italia. Il fatto che in Cile la sinistra fosse riuscita ad accedere al potere rispettando le regole democratiche, che avesse iniziato un esperimento di audaci riforme sociali, e che questa esperienza fosse stata violentemente stroncata dalla destra interna ma soprattutto dagli Stati Uniti, tutto questo non poteva non colpire dolorosamente militanti e dirigenti della sinistra italiana. La risposta da parte del PCI a tutto ciò fu, come si è detto, la politica di “compromesso storico”. Il passaggio fondamentale era la rinuncia alla presa di potere, tramite il processo elettorale, da parte del blocco delle sinistra, e la proposta di una alleanza con le forze politiche che le sinistre avevano sempre combattuto, essenzialmente la Democrazia Cristiana. La giustificazione di questa proposta si basava su due passaggi fondamentali: a) la vicenda cilena prova che la presa del potere da parte delle sinistre non è sufficiente, perché le forze reazionarie interne, spalleggiate dagli USA, sarebbero pronte ad arrivare al colpo di stato militare; b) La DC rappresenta forze popolari che è possibile coinvolgere in un processo di trasformazione progressista del Paese.

La sostanza della politica del compromesso storico, almeno per come è stata trasmessa alla base del partito, era dunque “alleanza politica con la DC per evitare un colpo di stato sul modello cileno”. La cosa ha una sua apparenza di ragionevolezza che però, a mio avviso, si dissolve se appena si riflette meglio. Il punto fondamentale è la minaccia di una “soluzione cilena”, cioè del colpo di stato, e la domanda cruciale è: chi lo avrebbe fatto, questo colpo di stato contro un eventuale governo delle sinistre democraticamente eletto? A questa domanda sono possibili risposte differenziate, perché un’azione politica complessa come un colpo di stato richiede azioni di livelli molto diversi. Dal punto di vista strettamente esecutivo, è chiaro che un colpo di stato nell’Italia dei primi anni Settanta sarebbe stato portato ad esecuzione concreta da parte di settori delle Forze Armate e dei servizi segreti, probabilmente con qualche tipo di aiuto da parte delle piccole formazioni politiche di estrema destra che in quegli anni erano attive. Ma ovviamente forze armate, servizi segreti e fascisti sarebbero stati solo gli strumenti di una strategia politica saldamente in mano ad altri. In ultima analisi, questa strategia politica avrebbe avuto origine nelle decisioni degli USA, così com’era avvenuto appunto in Cile. È però del tutto evidente che nel quadro fin qui delineato vi è un grande spazio vuoto: abbiamo ad un estremo gli “ispiratori in ultima istanza” di un eventuale colpo di stato (gli USA), all’altro estremo i possibili esecutori materiali (Forze armate, servizi segreti, gruppi fascisti); è chiaro che manca qualcosa di molto importante, qualcosa che colleghi questi due estremi: è chiaro cioè che è necessario il controllo dell’apparato statale, o almeno di sue parti significative, affinché un colpo di stato nell’Italia degli anni Settanta abbia la possibilità vincere le resistenze e dare stabilità alla nuova situazione politica. Ma dire “apparato statale”, nell’Italia degli anni Settanta, significa ovviamente dire “Democrazia Cristiana”. È questo un punto cruciale: la situazione politica dell’Italia del secondo dopoguerra, a causa di una serie di fattori che non possiamo analizzare adesso (uno dei quali comunque è l’esclusione del PCI dall’area di governo a causa del suo filosovietismo), aveva generato una dinamica del tutto particolare, nella quale in pratica il partito della Democrazia Cristiana si era impadronito delle leve principali del potere dello Stato, e si era trasformato in una specie di Partito-Stato. Questa strana realtà era il contraltare dell’altrettanto strana realtà del PCI in quanto “socialdemocrazia filosovietica”, della quale abbiamo sopra parlato. Infatti la DC come Partito-Stato era la forma politica che aveva assunto in Italia il “compromesso socialdemocratico” tipico dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra. Tale situazione era stata ovviamente favorita dal fatto che il candidato naturale a gestire una statualità “socialdemocratica”, appunto il PCI, non poteva farlo per i motivi indicati.

Per tornare al problema del colpo di stato, da quanto detto appare chiaro che l’appoggio della DC, o almeno delle sue componenti politicamente dominanti, era indispensabile per un tentativo in quel senso. La DC era indispensabile per assicurare l’appoggio dell’apparato statale, come si è detto, e anche, più in generale, il sostegno di una parte significativa delle classi dirigenti e, almeno, l’accettazione passiva da parte di una frazione significativa dei ceti subalterni. In sintesi, la DC era l’unica forza politica, nell’Italia degli anni Settanta, che mettesse assieme le caratteristiche che servivano per dare stabilità ad una eventuale nuova forma politica del paese: era una forza politica profondamente intrecciata con le classi dirigenti ma nel contempo capace di dotarsi di una base popolare significativa; ben addentro nei gangli dello Stato, quindi in particolare capace di assicurarsi il controllo di Forze armate e servizi segreti; infine, era senza dubbi la sua fedeltà agli USA.

Quanto ho fin qui argomentato si può allora sintetizzare nel modo seguente: è indubbio che un eventuale colpo di stato, in quegli anni in Italia, avrebbe visto un ruolo determinante, come “motore ultimo”, degli USA, e pure un ruolo (subordinato, ma operativamente importante) di gruppi di estrema destra, di servizi segreti, e ovviamente di parte almeno delle Forze Armate; ma il punto fondamentale è che il perno di tutto questo, il basamento politico effettivo di una simile operazione, non poteva che essere la DC. La proposta politica del “compromesso storico” si riassume dunque, in estrema sintesi, nella tesi che, poiché le forze avverse alle sinistre potrebbero organizzare un colpo di stato contro un governo di sinistra, il PCI propone di allearsi con quelle stesse forze che, nelle condizioni dette, organizzerebbero il colpo di stato, cioè con la DC. Presentata in questi termini, dovrebbe apparire chiara l’assurdità di una simile proposta. Sarebbe come dire che, poiché a combattere la mafia si corre il rischio che la mafia ci spari, allora ci alleiamo con la mafia. È chiaro che chi presenta una proposta di questo tipo, ha semplicemente deciso di non combattere più la mafia, e cerca un modo per non dirlo in maniera aperta. Allo stesso modo, la proposta del compromesso storico, fatta propria dal PCI, ha rappresentato semplicemente la resa del partito, la rinuncia ad un ruolo di trasformazione progressista del paese, e in sostanza una autocertificazione di totale inutilità. Alla fine degli anni Settanta il PCI abbandonerà la politica del compromesso storico, senza aver ottenuto da essa nulla di significativo per il progresso del paese.

Per evitare fraintendimenti, preciso che in questa sede non mi esprimo sul fatto che in quegli anni vi fosse oppure no un effettivo pericolo di colpo di stato reazionario in Italia. Quello che sto cercando di argomentare è una tesi del tutto diversa, cioè che chi in quegli anni sosteneva la possibilità di un colpo di stato in Italia non poteva non rendersi conto che tale colpo di stato avrebbe avuto la sua base istituzionale nella DC, e che era quindi totalmente contraddittorio sostenere la possibilità di un colpo di stato e contemporaneamente l’alleanza con la DC. La mia tesi insomma è che la politica del compromesso storico era basata su argomentazioni contraddittorie e irrazionali.

È facile intuire che obiezioni di questo tipo, contro la prospettiva politica del “compromesso storico”, vennero sollevate subito, e da più parti. Uno degli argomenti con cui il militante del PCI respingeva il tipo di obiezioni sopra delineate consisteva nel distinguere una anima “popolare” della DC, contrapponendola a quella “borghese” (o una DC di sinistra e una di destra, si poteva anche dire). L’idea era che il compromesso storico si rivolgeva alla DC “popolare” per rafforzarla nei suoi contrasti con la DC “borghese” e “reazionaria” e così spostare gli equilibri politici in senso progressista. Non so dire se e quanto idee di questo tipo fossero diffuse nei vertici del PCI, ma lo erano fra i militanti “di base” ai quali ero vicino in quegli anni. Queste argomentazioni si basavano però su una visione estremamente semplicistica della realtà. Non che si trattasse di assolute falsità, s’intende. È certamente vero che la DC era una realtà politica con profonde divisioni interne, che si traducevano in scontri e lotte di correnti, ed è vero che in questa dialettica si potevano grosso modo individuare tendenze “di sinistra” (oggi possiamo dire: legate all’esperienza del “capitalismo keynesiano” del secondo dopoguerra) e tendenze “di destra” (che in certi casi prefiguravano la nascente configurazione neoliberista che si imporrà come risposta alla crisi degli anni Settanta, in altri casi erano legate alla difesa di valori ormai in crisi, sul genere “Dio, Patria e Famiglia”). Il punto decisivo era che in ogni caso l’intero corpo politico della DC aveva il suo ruolo specifico nella gestione dello Stato secondo una linea di compromesso fra le esigenze di profitto e di crescita del capitale e le richieste dei ceti popolari. Per rendere possibile tale compromesso era fondamentale, appunto, l’uso di tutti gli strumenti statali, e quindi l’occupazione dello Stato era proprio la ragion d’essere della DC. Ma per continuare a gestire lo Stato gli scontri interni alla DC non potevano spingersi troppo in là. Il legame fra la DC “popolare” e quella “borghese”, fra la DC “di sinistra” e quella “di destra” era quindi profondo ed essenziale: metterlo in crisi avrebbe voluto dire mettere in crisi il controllo sull’apparato statale e quindi l’esistenza stessa della DC. Gli appelli alla DC “popolare” e “di sinistra” non avevano quindi modo di tradursi in una proposta politica concreta e apparivano come semplici consolazioni ideologiche per il militante. L’unico sbocco serio di una simile analisi sarebbe stato il lavoro politico per favorire una scissione nella DC, con la “sinistra DC” che si sarebbe unita alla sinistra tradizionale (PCI e PSI). Ma questa prospettiva sembra piuttosto lontana dalle possibilità concrete di quegli anni, come abbiamo appena cercato di mostrare, e soprattutto, se anche si fosse verificata, avrebbe configurato una sinistra politica (accresciuta dalla DC “buona”) che avrebbe cercato di prendere il potere contro il blocco del centrodestra: ma questo era esattamente lo scenario “cileno” che la politica del compromesso storico voleva evitare!

Possiamo concludere con la tesi principale di questa sezione: la proposta politica del compromesso storico appare irrazionale e contraddittoria. Essa si configura come la rinuncia da parte del PCI a svolgere un ruolo realmente progressivo nella realtà italiana di allora. Ma poiché questo ruolo era la sua ragion d’essere, con la politica del compromesso storico il PCI dichiara la propria inutilità e in sostanza inizia il processo che porterà, in poco più di dieci anni, al suo autoscioglimento. Certo, tale ultimo evento è legato a ciò che era nel frattempo successo all’interno del “campo socialista”, ma spero di aver spiegato perché io ritengo che gli eventi degli anni Settanta rappresentino per il PCI il prerequisito necessario per lo scioglimento della fine degli anni Ottanta.

Rispetto al ragionamento sviluppato nei paragrafi precedenti, quello che appare rilevante è come la stragrande maggioranza di militanti e quadri abbia in quegli anni accettato, propagandato e difeso la politica del compromesso storico, nonostante le stridenti contraddizioni che ci siamo sforzati di delineare. Se il PCI ha proseguito in una strada che era in sostanza suicida, è stato anche perché sapeva di poter contare sul sostengo fideistico dei suoi militanti. Questo sostegno rappresentava dunque nell’immediato una grande forza, ma nel lungo periodo una grave debolezza, perché impediva di correggere politiche radicalmente sbagliate come quella del compromesso storico.



5. Un giudizio sorico sul PCI degli anni Settanta.

In questo paragrafo facciamo una piccola deviazione dal corpo principale del ragionamento, per esprimere un giudizio storico sulle vicende del PCI degli anni Settanta.

Credo si possa condividere la tesi secondo la quale le scelte del PCI negli anni Settanta non hanno avuto conseguenze solo per il partito stesso, ma hanno inciso nella storia successiva dell’Italia. Enuncio qui un giudizio drastico sulla situazione attuale del nostro Paese: personalmente ritengo che l’Italia sia avviata su una strada di decadenza senza speranza di salvezza, perché il paese è reso sempre più fragile dal sommarsi dei suoi mali storici, e incapace quindi di far fronte alle gravissime crisi che sconquasseranno il mondo nei prossimi decenni (penso in particolare al cambiamento climatico, ma non solo a questo). Riprendendo uno spunto del compianto Massimo Bontempelli, Maestro e amico, penso si possa affermare che i mali del nostro paese non nascono negli anni Settanta. Da certi punti di vista sono più antichi, e risalgono al modo in cui è stata realizzata l’unità nazionale (e al suo ritardo); da altri punti di vista sono più recenti, e sono legati al fatto che la fase neoliberista e globalizzata del capitalismo (che da noi è iniziata negli anni Ottanta-Novanta) è tale da esaltare le debolezze della nostra economia. Se questo è vero, se ne può dedurre che gli errori del PCI negli anni Settanta non sono responsabili dei mali attuali del nostro paese. La mia tesi è che tali errori sono responsabili del fatto che non si è riusciti a guarirli, quei mali, e a porre basi salde per il progresso sociale. Gli anni Settanta sono stati anni di fortissima spinta al cambiamento, diffusa in tutta la società. È questa spinta al cambiamento la motivazione dei grandi successi elettorali del PCI di allora. Si trattava di un profondo sommovimento delle coscienze, che portava con sé, come è ovvio, un po’ di tutto, compreso il futile ribellismo anarcoide di tanti giovani e la violenza omicida del terrorismo. Era chiaro quale doveva essere il compito di un partito come il PCI, in quegli anni: farsi carico di questa grande spinta e indirizzarla verso una forma di “riformismo radicale”, che era ciò che la società chiedeva, in forme confuse. Con la politica suicida del compromesso storico, il PCI ha rinunciato platealmente a questo compito, e in tal modo non solo ha posto le basi per la propria dissoluzione, come si è già detto, ma soprattutto ha sprecato un’occasione storica per incidere davvero sui mali di lunga durata del nostro paese. Si trattava di una di quelle opportunità che si presentano forse una volta in un secolo. Averla sprecata è la pesantissima responsabilità storica del partito di Enrico Berlinguer.



6Conclusioni

La discussione sugli anni Settanta ci è servita per argomentare, con un esempio tratto dalle concrete vicende politiche del nostro paese, che il rapporto fideistico fra base e vertici ha rappresentato alla lunga un elemento di debolezza, che ha impedito al partito di correggere i propri errori e di bloccare il processo di autodissoluzione iniziato negli anni Settanta. Possiamo allora cercare di arrivare alle conclusioni di questo ragionamento. Volevamo capire perché, nonostante tanti sforzi sinceri e il loro relativo successo, almeno per una fase storica, il PCI abbia fallito nel suo tentativo “gramsciano” di elevare il popolo lavoratore a classe dirigente del paese. Abbiamo intravisto un limite profondo nel rapporto fideistico fra base e vertice. Il problema di fondo sta nel fatto che la crescita politica e culturale dei militanti di base, che indubbiamente c’è stata, non è mai diventata una vera crescita di autonomia e indipendenza personale. Al contrario, fatte salve le eccezioni che sempre si danno, possiamo sostenere che quanto più il militante cresceva culturalmente e politicamente, tanto più si sviluppava la sua dipendenza fideistica dal partito, nel quale vedeva, del tutto correttamente, la base indispensabile dei suoi sforzi. Ma una leva di militanti incapaci di uscire da un rapporto fideistico e dogmatico col partito, non è e non può diventare classe dirigente del paese. Una classe dirigente è fatta di persone che hanno autonomia intellettuale, che sanno giudicare e decidere indipendentemente dai vincoli dell’ideologia e dell’appartenenza. Persone che hanno saputo uscire da quella che Kant ha chiamato “minorità”, cioè “l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”.

Questa è dunque la contraddizione di fondo che ha fatto fallire il progetto “gramsciano” del PCI: era impossibile far crescere i militanti a classe dirigente del paese se nello stesso tempo li si manteneva in uno stato di “minorità” nei confronti del partito stesso.

Se vogliamo andare più a fondo, possiamo sospettare che questa evoluzione fosse inevitabile, perché la crescita culturale e politica dei militanti non era fatta per loro, ma per il partito: non era una crescita di individui visti come fini, rispetto alla quale il partito era il mezzo, ma al contrario era lo sviluppo di individui pensati come mezzi per il fine della permanenza e crescita del Partito. D’altra parte, in una realtà di lotta, di scontro di forze, nella quale il Partito stesso era una delle forze sul terreno, questa dinamica era inevitabile. Nello spazio della lotta politica vige la legge della forza, ed essa implica quelle caratteristiche di sottomissione dello sviluppo individuale alle necessità dell’organizzazione, che appare così chiaramente nella storia del PCI e dei suoi militanti. La sfera dell’azione politica del PCI e dei suoi militanti apparteneva cioè ancora al regno della necessità e non al regno della libertà. Ci si può chiedere se questo dipendesse da un qualche errore o limite, nei dirigenti o nei militanti o in entrambi. Ritengo di no, perché ritengo che la sfera della politica non sia mai sfera della libertà degli individui. La lotta politica è necessaria, ma la libertà è al di là di essa, è nello sviluppo della propria autonomia intellettuale ed emotiva. L’errore di fondo del PCI non è allora quello di aver “usato” i suoi militanti per la lotta politica, ma quello di aver preteso che la sfera della politica coincidesse con quella dell’autonomia e della libertà degli individui. Ma non si tratta qui, come è evidente, solo del PCI. È l’intera tradizione della sinistra moderna che è qui chiamata in causa. È un’intera tradizione che non vede come l’ambito dell’azione politica sia sempre entro il regno della necessità, e come la libertà sia solo al di là di esso. La politica è necessaria e inevitabile, come tante altre cose poco piacevoli della vita. È necessaria per conquistare e mantenere le condizioni della libertà, ma la pratica della libertà e dell’autonomia individuale iniziano solo al di là della politica stessa.

Per concludere, ci si può chiedere se in tutta questa vicenda ci sia un insegnamento per la politica contemporanea. Credo si debba essere molto prudenti nell’uso attuale di vicende che appartengono ad una costellazione storica e culturale ormai tramontata. È però difficile sottrarsi all’impressione che nella politica attuale, tanto a sinistra quanto a destra, agiscano meccanismi di identificazione e di appartenenza che producono effetti di chiusura e intolleranza paragonabili a quelli che hanno agito nelle coscienze dei militanti PCI di cui abbiamo parlato. Sono convinto che i meccanismi causali di questi fenomeni attuali siano diversi rispetto a ciò di cui ho parlato in questo articolo, perché troppo diversa è la situazione spirituale contemporanea rispetto a quella degli anni del dopoguerra. Ma se un insegnamento si può trarre dalle vicende di cui ho parlato, esso sta nella coscienza che l’unica autentica libertà intellettuale e morale è quella di chi persegue verità e giustizia al di là delle sigle e delle appartenenze, al di là di destra e sinistra.


(Genova, settembre-ottobre 2021)






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