Verso
il collasso
(lettere
al futuro 5)
1.
Introduzione
Il
presente intervento intende approfondire alcuni temi di un articolo
di qualche tempo fa (“Fine partita. Ha vinto la barbarie”[1]),
nel quale argomentavo che il carattere ecologicamente insostenibile
dell’attuale organizzazione economica e sociale sta portando il
mondo verso l’esplosione concomitante di numerose, diversificate e
pericolose crisi, il cui peso il mondo attuale non potrà reggere.
L’argomentazione dello scritto citato portava quindi ad una
prognosi di prossimo collasso dell’attuale società.
Nell’analisi
svolta in [1], l’elenco (peraltro incompleto) dei vari fattori di
crisi, generati dalla dinamica dell’espansione economica
illimitata, era desunto dalla letteratura internazionale su tali
argomenti, ormai piuttosto ampia (si veda la bibliografia dello
stesso articolo). A questo si aggiungevano una serie di argomenti per
sostenere che l’attuale società mondializzata non ha al proprio
interno le risorse politiche e culturali per affrontare le crisi in
arrivo: era questo il fulcro della diagnosi di collasso prossimo
dell’attuale civiltà. Per la sua importanza all’interno della
mia argomentazione, mi è sembrato che valesse la pena di dedicare un
intervento all’approfondimento specifico di quest’ultimo tema,
che nello scritto citato era mescolato con altri. Nel presente
articolo non ripeterò quindi l’elenco delle crisi ecologiche che
minacciano l’attuale società, per le quali rimando a [1] e alla
sua bibliografia. Mi concentrerò invece sull’assenza delle
condizioni sociali e politiche che sarebbero indispensabili per
contrastare l’incombente crollo della nostra civiltà.
Il
concetto di base è stato già enunciato in “Fine partita”: per
salvare la civiltà occorre una forza sociale che intenda farlo ed
esprima un ceto politico adeguato. La domanda è quindi se esista una
tale forza sociale. Per analizzare la situazione distingueremo fra
ceti dominanti e ceti subalterni. Si tratta certo di un approccio a
grana grossa, che, a mio parere, permette però di svolgere qualche
riflessione interessante. Per evitare incomprensioni, è però
necessaria qualche precisazione preliminare. In primo luogo, parlando
di “ceti dominanti” non faccio grandi distinzioni fra le varie
zone del mondo: i ceti dominanti dei vari paesi sono ovviamente
divisi da forti conflittualità (e ad esse è dedicata una sezione
specifica di questo articolo) ma sono funzionalmente assai simili, in
quanto il loro dominio si basa in ogni caso su un’organizzazione
economica di tipo capitalistico. Questo fa sì che i vari gruppi di
dominanti siano soggetti ai vincoli e alle dinamiche della logica
capitalistica, e in questo senso possiamo appunto parlare in generale
di “ceti dominanti”. Per quanto riguarda i ceti subalterni,
invece, in questo articolo mi riferisco in modo specifico ai paesi
occidentali, perché mi sembra che vi siano differenze importanti
rispetto ai paesi non occidentali. In particolare, è probabile che
in vari paesi del Sud i ceti subalterni conservino strutture sociali
e culturali di tipo comunitario, non ancora del tutto erose dal
capitalismo. Queste strutture potrebbero rappresentare la base
oggettiva di una capacità di resistenza rispetto al collasso
dell’attuale civiltà, che ritengo invece assai improbabile nei
paesi occidentali. In altri termini, non credo che dai ceti
subalterni dei paesi del Sud possa venire la forza per fermare il
collasso del nostro mondo, ma forse le loro comunità potrebbero
riuscire ad attraversare tale collasso senza esserne distrutte.
Osservo
infine che la distinzione fra dominanti e subalterni può non piacere
ai marxisti, che preferirebbero probabilmente un’analisi che metta
al centro non i generici ceti subalterni ma il proletariato o, meglio
ancora, la classe operaia. Il punto è che in questa fase storica,
nei paesi occidentali, proletariato e classe operaia non sembrano in
grado di elaborare una propria autonoma soggettività politica, e il
loro essere confusi nei generici ceti subalterni è un dato di fatto.
La situazione potrebbe certo cambiare, ma difficilmente lo farà nel
breve tempo (qualche decennio) che abbiamo a disposizione per tentare
il salvataggio della civiltà. Rispetto a questo tema, parlare
genericamente di ceti subalterni è oggettivamente inevitabile.
Il
punto fondamentale dal quale deve partire la riflessione è il
seguente: salvare la nostra civiltà comporta un ristrutturazione
profonda e radicale dell’intera organizzazione economica, in
particolare nei settori dell’energia e dei trasporti, ma più in
generale in tutti i comparti industriali, e di conseguenza in tutta
intera l’organizzazione sociale. Il nostro impatto distruttivo
sull’ambiente dipende da tutto quello che facciamo: il modo in cui
lavoriamo e in cui trascorriamo il tempo libero, il modo in cui
mangiamo e ci vestiamo, il modo in cui riscaldiamo e raffreddiamo le
nostre case, e così via. D’altra parte l’attuale sistema sociale
ed economico è esattamente quello che ha permesso a larghe masse di
popolazione, nei paesi occidentali, di fuoriuscire da una millenaria
condizione di povertà, ed appunto per questo, ovviamente, è
esattamente il modello che perseguono i paesi poveri o in via di
fuoriuscita dalla povertà. E nel perseguire questo modello essi
stanno naturalmente spingendo sull’acceleratore del collasso. Se
questa è la situazione, appare evidente che il radicale cambiamento
necessario, la fuoriuscita dall’attuale sistema produttivo,
comporta grandi rischi di destrutturazione sociale, e implica dei
prezzi da pagare [2]. È pensabile che si avventurino in questa
impresa rischiosa i ceti sociali la cui vita quotidiana, in tutti i
suoi aspetti, dipende dal buon funzionamento del sistema stesso?
Sembra naturale rispondere di no, ma cerchiamo di svolgere un’analisi
più approfondita. Come abbiamo spiegato sopra, distinguiamo fra ceti
dominanti e ceti subalterni.
2.
I ceti dominanti
Evitare
il collasso dell’attuale civiltà richiede, come
abbiamo appena detto, un
superamento radicale dell’attuale logica economica capitalistica, e
la costruzione di rapporti sociali alternativi. È proprio il
principio logico fondamentale del capitalismo, il principio della
crescita senza
fine e senza fini, a portare la nostra civiltà al collasso. Questo
punto è approfondito da quelle
correnti del
pensiero contemporaneo che
coniugano marxismo ed ecologia, alle
quali spesso si fa
riferimento parlando di “ecosocialismo” o “ecomarxismo” [3].
Lo sfondo teorico delle
nostre argomentazioni, nel
presente scritto ed in altri
precedenti, è questo tipo
di analisi marxista della dinamica capitalistica e delle sue
interazioni con società e natura.
Per
sviluppare la nostra argomentazione, dobbiamo allora chiederci se è
pensabile che siano gli attuali ceti dominanti a gestire il
superamento dell’attuale organizzazione economica e sociale, ormai
autodistruttiva, cioè in sostanza il
superamento del capitalismo. Ora, non facciamo certo un’osservazione
molto profonda se notiamo che difficilmente i ceti dominanti, in
qualsiasi sistema sociale, sono ben disposti verso l’idea di
rivoluzionare il sistema economico e sociale dal quale ricavano
potere e ricchezza.
Ma
anche ammettendo che i ceti dominanti si rendano conto dei pericoli
che sovrastano l’attuale civiltà e della necessità di cambiamenti
radicali per farvi fronte, si può realisticamente dubitare che
possano intraprendere le azioni necessarie. I
ceti dominanti sono assolutamente convinti della superiorità del
capitalismo (che loro chiamano “economia di mercato”), e sono
anche selezionati in base alla loro capacità di perseguire lo scopo
del profitto come fine in sé. Quest’ultimo
aspetto spesso si traduce sul piano psicologico come “avidità”.
Si tratta di componenti psicologiche e ideologiche che
derivano da un ruolo sociale e ne sono l’espressione, sui loro
piani specifici. Gli attuali ceti dominanti sono nati e cresciuti
all’interno di un mondo in cui la finalità assoluta del profitto è
un aspetto necessario per la sopravvivenza nel mercato. Questo modo
di vedere il mondo è innervato nella struttura socioeconomica della
fase neoliberista, nella quale la concorrenza aperta dei capitali
alla ricerca del profitto non subisce più le limitazioni politiche
della fase precedente. In una situazione di concorrenza globale, ogni
impresa deve badare esclusivamente alla massimizzazione dei profitti,
senza farsi distogliere da altre finalità e senza troppo pensare a
cosa succederà sul periodo medio o lungo. I ceti dirigenti di queste
imprese devono essere spinti a investire tutto il proprio tempo e le
proprie energie in questa attività di crescita dei profitti, a
scadenza non troppo lunga. Si tratta di una crescita senza fine (nel
momento in cui ci si ferma si viene superati dai concorrenti) e senza
fini (il profitto è fine a se stesso). Difficilmente una simile
attività può trovare motivazioni nelle ideologie religiose o morali
della tradizione, e di conseguenza, fatte salve s’intende le
possibili eccezioni individuali, l’unica motivazione che può
spingere una persona ad accettare questo tipo di vita non può che
essere l’avidità, che verrà giustificata con la strumentazione
ideologica liberista della superiorità del mercato su ogni forma di
regolazione sociale o politica. Si tratta quindi di componenti
psicologiche e ideologiche indispensabili alla complessa macchina
dell’economia globalizzata contemporanea.
Se
tutto questo è chiaro, proviamo ora a pensare se sia possibile che
questo tipo di ceti dominanti possa guidare un radicale cambiamento
nell’organizzazione economica e sociale, come è necessario per
evitare il collasso della civiltà. Per farlo, si dovrebbero
affrontare difficoltà enormi, su tutti i piani: economico, sociale,
ideologico. Mi interessa qui sottolineare solo un punto: per ottenere
il consenso sociale necessario a un’operazione così drastica, si
dovrebbe poter offrire ai ceti subalterni un compromesso ragionevole,
analogo a quello che ha segnato la fase keynesiano-socialdemocratica
(il “trentennio dorato”) delle società occidentali. Un
compromesso nel quale i ceti subalterni accettano la propria
subalternità in cambio della sicurezza di un livello di vita decente
e sostenibile. Ora, gli attuali ceti dominanti sono i ceti emersi
proprio dalla crisi del precedente compromesso socialdemocratico, e
sono arrivati ad ottenere potere e privilegi gestendo la fase storica
nella quale i ceti subalterni si sono visti sottrarre le conquiste
della fase keynesiano-socialdemocratica. Il risultato di questa
dinamica, come sappiamo, è quello di una divisione sempre più
accentuata fra le minoranze che riescono a trarre vantaggi dalla fase
attuale, e la maggioranza che vede peggiorare le proprie condizioni
di vita e le prospettive per il proprio futuro e quello dei propri
figli. È questa situazione di profonda divisione a rendere arduo
pensare che vi possa essere una discussione ragionevole sul prezzo da
pagare per evitare il collasso dell’attuale società. I ceti
subalterni hanno subito una perdita netta di diritti e qualità della
vita, in seguito alle dinamiche della globalizzazione, e sembra
difficile che possano accettare di pagare il prezzo ulteriore che si
rende necessario, se si resta all’interno dell’attuale struttura
sociale, per provare a rimediare ai disastri che tale capitalismo sta
incubando. D’altra parte, sembra del tutto ragionevole pensare che
a pagare un prezzo debbano essere per primi coloro che hanno tratto i
maggiori vantaggi dall’attuale organizzazione economica e sociale.
Solo una decisa e importante rinuncia ai privilegi e alle ricchezze
accumulate nei decenni rampanti del neoliberismo, da parte dei ceti
dominanti, potrebbe fornire loro l’autorità morale per chiedere ai
ceti subalterni di pagare anch’essi una parte del prezzo. Detto
altrimenti, solo una radicale redistribuzione della ricchezza, e dei
privilegi ad essa associati, può creare la solidarietà sociale
necessaria per affrontare le crisi che ci aspettano. Ma basta
enunciare questa ipotesi per capirne l’assurdità, viste le
caratteristiche ideologiche e psicologiche degli attuali ceti
dominanti, che abbiamo sopra analizzato. Le riassumo: gli attuali
ceti dominanti sono ideologicamente imbevuti della dottrina della
superiorità del mercato, sono in buona parte spinti dall’avidità,
sono arrivati al potere e ai privilegi nella fase storica di
distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni, non si sono mai
interessati agli effetti laceranti delle dinamiche neoliberiste sulla
coesione sociale [4]: come si può pensare che proprio questi ceti
propongano una redistribuzione delle proprie ricchezze e privilegi
per ottenere la coesione sociale necessaria ad affrontare il
difficilissimo passaggio ad una organizzazione economica e sociale
radicalmente nuova?
Sembra
inevitabile concludere che gli attuali ceti dominanti non potranno
essere gli attori del cambiamento necessario ad evitare il collasso
della civiltà.
Queste
considerazioni possono essere esemplificate dalla storia di come
importanti settori dei ceti dominanti abbiano, negli scorsi decenni,
fatto esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario: abbiano
cioè investito tempo, energie e risorse per contrastare ogni
tentativo di mettere qualche limite all’espansione della logica
capitalistica.
È
ben noto come, nel dopoguerra, la creazione di numerosi, prestigiosi
e ben finanziati “think tank” di ispirazione liberista abbia
contribuito alla vittoria globale del neoliberismo, a partire dagli
anni ‘80. Una storia di queste dinamiche si può trovare nel testo
ad esse dedicato da Marco D’Eramo [5]. Ovviamente in questo non c’è
nulla di sorprendente: ogni ceto dominante diffonde nella società la
propria visione del mondo. Il punto è che la difesa ideologica del
neoliberismo globalizzato è continuata anche quando crisi economica
e crisi ecologica hanno cominciato a mostrare gli aspetti nefasti e
autodistruttivi di questa forma di organizzazione del capitalismo.
Una tale difesa ideologica non è un’astrazione ma una realtà
molto concreta fatta di azioni lobbistiche, finanziamenti, interventi
sui media. Questo tipo di azioni è ricostruito in dettaglio da Naomi
Oreskes e Erik M.Conway, due storici della scienza, nel loro libro
sui “mercanti di dubbi” [6], e dalla giornalista Stella Levantesi
nel suo “I bugiardi del clima” [7]. Questi libri mostrano con
chiarezza l’organizzazione della campagna di rifiuto delle
elaborazioni scientifiche relative al cambiamento climatico, che ha
visto in azione molte grandi aziende e molti think tank
neoconservatori. Il testo di Nathaniel Rich [8] fa poi vedere gli
effetti pratici di tali azioni: il fatto cioè di aver ritardato di
decenni la necessaria presa d’atto del problema del cambiamento
climatico. Un dato di grande interesse, messo in evidenza da Oreskes
e Conway, è come tale azione non faccia che ripetere modalità già
efficacemente usate in passato dalle lobby legate a grandi aziende:
per esempio per seminare dubbi sugli effetti negativi del fumo sulla
salute (e qui ovviamente in primo piano è l’industria del tabacco)
o sul problema delle piogge acide.
Un’altra
osservazione significativa, per il tema che stiamo discutendo, che si
ricava dai testi citati, è la seguente: in alcuni casi le grandi
imprese erano informate per tempo, grazie a proprie ricerche interne,
dei problemi legati alle proprie attività, e hanno taciuto quanto
era a loro conoscenza per non danneggiare il “business as usual”.
Le
dinamiche documentate dai libri di Oreskes, Conway, Levantesi e Rich
ci mostrano con estrema chiarezza come la logica dell’impresa
capitalistica porti inevitabilmente (con la mediazione di psicologie
individuali votate all’avidità, come si è detto) a contrastare
ogni forma di controllo o di limitazione al profitto come fine in sé.
Una limitazione “ecologica” della logica del profitto si traduce
alla fine in una limitazione del profitto, e questa a sua volta in
una perdita di terreno nei confronti dei competitori. All’interno
di tale logica, le retoriche ambientaliste dei ceti dominanti non
possono essere altro che ipocrisia (o “green washing”, come si
dice).
Un
altro esempio significativo di ciò che sono gli attuali ceti
dominanti è il modo in cui le élite europee hanno gestito la crisi
finanziaria greca, descritto in modo analitico da uno dei
protagonisti della vicenda, Yanis Varoufakis, economista greco che è
stato ministro delle finanze del governo greco di sinistra che ha
trattato con le istituzioni internazionali [9]. La crisi finanziaria
greca non è tra i temi principali del presente articolo, quindi non
mi soffermerò a lungo su di essa e sul libro citato. Ciò che ci
racconta Varoufakis è però rilevante, per la nostra discussione,
perché mostra l’incapacità delle élite internazionali ad uscire
dai limiti ideologici e psicologici che abbiamo sopra descritto,
anche di fronte a crisi serie e a sofferenze di massa. Nel suo libro
Varoufakis riporta le sue discussioni con i principali protagonisti
della crisi. Da esse emerge come anche gli esponenti migliori del
potere siano completamente interni alle logiche che producono le
crisi, e siano quindi incapaci di andare alla radice dei problemi. Se
questo è vero per una crisi come quella greca, che in fondo rientra
in un ambito di tematiche già affrontate in passato, possiamo
facilmente capire che gli attuali ceti dirigenti internazionali
risulteranno del tutto incapaci di affrontare i problemi
completamente nuovi legati alla distruzione ecologica in corso.
Il
complesso di questi argomenti ci porta a concludere che non possiamo
aspettarci dai ceti dominanti la radicale trasformazione economica e
sociale che appare necessaria per salvare la civiltà dal collasso
prossimo.
3.
Contrasti fra i dominanti.
L’argomentazione
svolta nella sezione precedente riguarda i rapporti fra dominanti e
subalterni, cioè i rapporti di classe (intendendo l’espressione in
senso lato) interni alle singole società. Vi è un altro ordine di
argomentazioni che portano a conclusioni simili, e riguardano invece
i rapporti fra i ceti dominanti dei vari paesi. In tutta la storia
umana, infatti, i conflitti si svolgono sia su un asse verticale
(classi dominanti contro classi subalterne) sia su un asse
orizzontale (diverse sezioni territoriali delle classi dominanti in
lotta fra loro). La realtà attuale è segnata, da questo punto di
vista, dal contrasto fra l’egemonia mondiale USA, probabilmente
declinante, e la crescita della potenza cinese, che inevitabilmente
appare come lo sfidante degli USA nella lotta per l’egemonia. È
all’interno di questa dinamica che si manifesteranno le diverse
crisi verso le quali ci sta portando l’attuale organizzazione
economica e sociale. Appare difficile pensare che lo scontro
egemonico possa essere messo da parte di fronte ai futuri
sconvolgimenti. Sembra più realistico pensare che tali
sconvolgimenti accentueranno la conflittualità geopolitica. Il punto
fondamentale è che il collasso generalizzato dell’attuale società
diventerà una prospettiva concreta per il concorrere di tipi diversi
di crisi: da una parte sconvolgimenti ecologici generalizzati (il
cambiamento climatico in corso è quello attualmente più evidente),
dall’altra difficoltà sempre maggiori a reperire risorse
economicamente convenienti (e questo non esaurisce la lista delle
criticità future). È facilmente prevedibile che la difficile
reperibilità delle risorse, o il loro costo elevato, porteranno a
tensioni e scontri per il loro controllo. Facciamo qui solo due
esempi, fra i molti possibili.
In
primo luogo, è prevedibile che il cambiamento climatico in corso
porterà ad uno sconvolgimento del ciclo planetario dell’acqua. La
media globale delle precipitazioni potrebbe aumentare (perché
l’aumento della temperatura fa aumentare l’evaporazione), ma le
situazioni locali saranno diversissime. In molte zone, per esempio
nell’area mediterranea, si prevede una tendenziale diminuzione
della disponibilità di acqua dolce. La fusione dei ghiacciai montani
diminuirà la possibilità di attingere acqua dai fiumi alimentati
dai ghiacciai stessi. In particolare la fusione dei ghiacciai
himalayani renderà problematico l’utilizzo dei grandi fiumi
asiatici, danneggiando l’agricoltura in una zona dove di
agricoltura vivono masse sterminate di esseri umani. A questo
proposito, in quella zona, vi sono già tensioni fra India e Cina
relativamente alla gestione della acque del fiume Brahmaputra. Si può
prevedere che le tensioni aumenteranno con l’accentuarsi
dell’emergenza climatica, e non è facile immaginare una soluzione
pacifica [10].
Il
secondo esempio è quello relativo ai metalli rari [11]. I metalli
rari sono metalli poco noti al pubblico, con nomi esotici come
gallio, selenio, tantalio, germanio (e altri); essi hanno un ruolo
cruciale nelle tecnologie che dovrebbero permettere la transizione ad
un modello produttivo non basato sul fossile: pale eoliche, pannelli
fotovoltaici, automobili elettriche, ma anche smartphone e computer,
hanno bisogno in modo essenziale della presenza di qualcuno almeno di
questi metalli. Non è però chiaro se sarà possibile portare la
produzione di questi elementi al livello quantitativo richiesto per
sostenere la transizione ecologica nel mondo intero. È in ogni caso
evidente che sulla distribuzione geografica della loro produzione si
giocheranno importanti partite geopolitiche. Nel momento attuale, per
molti di questi elementi, il mondo dipende largamente dalla
produzione cinese, mentre altri vengono estratti nel Congo o negli
altopiani sudamericani. È evidente che da tale situazione possono
nascere tensioni geopolitiche molto forti: il quasi-monopolio cinese
nella produzione di molti metalli rari fornisce alla Cina stessa
un’arma in più nella sua lotta per l’egemonia con gli USA, e
questi ultimi difficilmente lasceranno nelle mani dell’avversario
strategico un tale strumento di pressione senza prevedere
contromisure. D’altra parte, la presenza di importanti fonti di
metalli rari in paesi del Sud fa prevedere che le zone coinvolte
diventeranno terra di scontro fra interessi geopolitici contrapposti:
come è stato, nel dopoguerra, per il Medio Oriente in relazione al
petrolio.
Questi
dati produttivi potrebbero cambiare in futuro, perché anche i paesi
occidentali hanno la possibilità di produrre almeno alcuni di questi
elementi (e lo facevano in passato), ma si tratta di produzioni molto
inquinanti che potrebbero incontrare forti opposizioni.
Nel
complesso, si è portati a prevedere che lo sviluppo degli strumenti
tecnologici della transizione ecologica potrebbe portare ad acuire le
tensioni geopolitiche già ben presenti nella realtà attuale.
Possiamo
infine ricordare, fra gli altri elementi di crisi, il fatto che lo
sconvolgimento climatico ormai iniziato porterà prevedibilmente ad
un notevole aumento delle correnti di profughi, con effetti
destabilizzanti per tutti i paesi coinvolti. E di nuovo, non sembra
ragionevole pensare che una crisi migratoria generalizzata possa
portare a un miglioramento della collaborazione fra gli Stati. Basti
pensare agli attriti fra i paesi dell’Unione Europea in relazione
al tema dell’immigrazione [9].
Questi
esempi possono essere sufficienti a chiarire il punto che mi preme,
che è il seguente: le crisi future che porteranno l’attuale
organizzazione sociale sull’orlo del collasso avranno effetti
laceranti sui rapporti fra i vari Stati, cioè fra le diverse
frazioni dei ceti dominanti. Ciascuno cercherà di usare il proprio
potere per resistere al collasso, per sopravvivere come ceto
dominante, se necessario a scapito degli altri paesi. In questa
situazione, è ragionevole pensare ad uno sforzo internazionale per
la fuoriuscita concordata dall’economia del fossile? Mi sembra che
la risposta non possa che essere negativa. Il punto fondamentale è
che i combustibili fossili sono la base essenziale del funzionamento
delle nostre società, e in particolare sono la base delle forme
fondamentali del potere: il potere economico e ovviamente il potere
militare. Rinunciare ad essi significa accettare la diminuzione del
proprio potere. Può certo talvolta succedere nella storia che
sezioni contrapposte e concorrenziali dei ceti dominanti accettino
compromessi che implicano una diminuzione del proprio potere, in
situazioni in cui questo è necessario per prevenire sviluppi
pericolosi. Si potrebbe allora pensare che la situazione attuale sia
appunto di questo tipo, e che quindi i ceti dominanti siano spinti a
cercare compromessi che fermino il collasso ecologico e sociale
incipiente. Il problema è che l’accettazione di compromessi e di
limitazioni del proprio potere è possibile solo quando le
conseguenze di tali limitazioni siano prevedibili e non cambino le
gerarchie di potere: in [1] facevo l’esempio delle trattative fra
USA e URSS sulla limitazione delle armi nucleari, e di quelle
relative alla proibizione dei gas che danneggiano lo strato di ozono
che ci protegge dai raggi ultravioletti. In questi casi la
limitazione riguarda ambiti delimitati, ha conseguenze prevedibili,
non altera le gerarchie del potere mondiale.
La
rinuncia ai combustibili fossili è cosa ben diversa. L’uso dei
combustibili fossili è la base imprescindibile di ogni aspetto della
produzione industriale attuale, ma anche di agricoltura e servizi.
Inoltre, è ovviamente un elemento indispensabile del funzionamento
di quei complessi apparati tecnologici che sono gli eserciti
contemporanei. Rinunciare ad essi implica un rivoluzionamento totale
dell’economia, e anche, appunto, dell’organizzazione militare. Il
punto è nessuno può predire quali potrebbero essere le conseguenze
di un tale profondo rivolgimento, nei termini delle gerarchie del
potere mondiale. Si possono certamente fare molte ipotesi sui
possibili scenari, ma il punto che voglio sottolineare è che,
nell’estrema incertezza rispetto agli esiti, sembra altamente
improbabile che le potenze contrapposte possano arrivare a un
compromesso.
Si
può certo fare l’ipotesi che si arriverà a un compromesso quando
i colpi che subirà la società attuale renderanno evidente la
prossimità del collasso. Si può cioè pensare che, di fronte ai
primi autentici disastri su vasta scala, le potenze mondiali saranno
costrette a prendere atto che perseverare negli schemi economici e
produttivi attuali mette in pericolo il loro potere e financo la loro
esistenza, e capiranno che i rischi legati ai compromessi dagli esiti
non ben prevedibili sono comunque minori di quelli legati al
“business as usual”. Questo è quanto ritiene un valido studioso
come Andreas Malm, che fa un’ipotesi di questo tipo in un suo
recente libro [13]. Ritengo che tale opinione sia, purtroppo, ancora
troppo ottimistica. Infatti, quando cominceranno a prodursi ripetuti
disastri su vasta scala, si scatenerà la lotta di tutti contro
tutti: come abbiamo sopra osservato, ci saranno drammatici problemi
relativi all’acqua e ad altre risorse, ci saranno migrazioni di
massa, ci potranno essere nuove pandemie. In questa situazione, ogni
Stato farà il possibile per proteggere la propria esistenza. Ma
questo significa, ovviamente, che ciascuno Stato dovrà usare tutto
il suo potere per evitare di restare schiacciato dalle crisi. E
potere qui significa potere militare, in primo luogo, e naturalmente
potere economico e produttivo, che del primo è supporto
indispensabile. Mi sembra del tutto evidente che nessuno Stato potrà
tirarsi indietro dal consumo dei combustibili fossili, indispensabili
per mandare avanti la macchina militare. Per essere esplicito,
personalmente mi aspetto, nella situazione descritta, lo scatenarsi
di varie forme di conflitti (guerre vere e proprie fra Stati, guerre
asimmetriche, conflitti a bassa intensità, terrorismi e così via):
in questa situazione si sfrutterà il più possibile tutto il
petrolio su cui si potranno mettere le mani, per ovvi motivi. Ritengo
dunque che lo scenario più probabile sia quello di una crisi
generalizzata dell’attuale organizzazione economica e sociale, che
porterà al diffondersi di conflitti di vario tipo, durante i quali
ciascuno Stato penserà a salvarsi in qualsiasi modo, e nessuno
penserà alla riduzione dei gas serra. Questa situazione precipiterà
infine nel collasso generalizzato dell’attuale civiltà mondiale, e
solo dopo tale collasso i sopravvissuti penseranno seriamente a
ricostruire una società ecologicamente sostenibile, in riferimento
ovviamente alle condizioni ecologiche che si avranno in quel momento,
e che saranno presumibilmente assai diverse dalle attuali.
4.
I ceti subalterni
Abbiamo
fin qui sostenuto che non c’è da aspettarsi nulla dai ceti
dominanti: non possiamo ragionevolmente pensare che essi siano in
grado di operare i drastici mutamenti nell’organizzazione
economica e sociale del nostro mondo, necessari a prevenire il crollo
dell’attuale civiltà.
La
domanda da porsi è allora se sia possibile sperare in una azione
politica efficace, nel senso del mutamento necessario, da parte dei
ceti subalterni. Dopotutto, sono essi ad essere maggiormente
interessati, perché il crollo colpirà in primo luogo e soprattutto
le fasce sociali medie e basse, mentre i ceti dominanti avranno
maggiori possibilità di sottrarsi, almeno per qualche tempo, agli
effetti peggiori delle crisi.
Ritengo
questa speranza mal fondata, e cercherò di fornire qui ulteriori
argomenti, oltre a quelli già esposte in [1].
Abbiamo
già osservato che gli ultimi tre o quattro decenni, il periodo
storico del capitalismo neoliberista e globalizzato, hanno
rappresentato, per i ceti subalterni dei paesi occidentali, una fase
storica di continuo arretramento sul piano dei diritti e dei redditi
[14]. I ceti dominanti hanno attaccato tutte le conquiste che i ceti
subalterni avevano ottenuto nel “trentennio dorato” seguito alla
Seconda Guerra Mondiale: sono stati erosi i diritti dei lavoratori,
le pensioni, l’assistenza sanitaria, mentre la scuola pubblica è
stata svuotata di contenuto. Ora, colpisce il fatto che, se guardiamo
l’essenza di ciò che è avvenuto in questa fase, i ceti subalterni
non sono minimamente riusciti a difendersi. Dicendo questo non
intendo ovviamente negare che ci siano state lotte e resistenze. Ci
sono state, in molti luoghi e in molte situazioni, e d’altra parte
in altri luoghi e situazioni i ceti subalterni hanno assistito
passivamente ai fenomeni di cui erano le vittime. Ma se alziamo lo
sguardo dalle minute oscillazioni della storia, e guardiamo alla
tendenza di fondo, non si può che ribadire quanto detto sopra: i
ceti subalterni del capitalismo neoliberista e globalizzato hanno
perso la loro battaglia, non sono riusciti a difendere le loro
conquiste, i loro diritti, i loro redditi.
Queste
osservazioni ci portano alla seguente, poco ottimistica, conclusione:
se i ceti subalterni non sono riusciti, nei decenni passati, a
difendere i loro diritti e i loro redditi contro l’attacco portato
dalle classi dominanti, è difficile pensare che possano oggi
mobilitarsi per fermare la spirale autodistruttiva nella quale la
nostra civiltà si è avviata. Varie considerazioni fanno ritenere
molto più difficile una mobilitazione popolare per fermare il
collasso rispetto a quella per la difesa di diritti e redditi (e
quest’ultima, come si è detto, o non c’è stata o è stata
rapidamente sconfitta): in primo luogo, il collasso della nostra
civiltà non è ancora immediatamente percepibile a chi non abbia
fatto un opportuno percorso di letture e di riflessioni. Sicuramente
nei prossimi decenni i disastri causati dall’attuale sistema
economico diventeranno sempre più concreti e tragici, e si
diffonderà nelle masse la coscienza della necessità del
cambiamento: ma sarà allora probabilmente troppo tardi per fermare
il collasso. Fenomeni come il cambiamento climatico agiscono con
ritardo rispetto alle cause che li generano (l’accumulo di gas
serra nell’atmosfera), per cui quando gli effetti diventano
facilmente percepibili per tutti, significa che certe soglie di
pericolosità sono state superate e che, inoltre, possono essere
intervenuti meccanismi di retroazione positiva tali da rendere il
cambiamento climatico non più controllabile dall’azione umana e in
sostanza irreversibile [15].
In
secondo luogo, proprio i fenomeni di distruzione di diritti e
redditi, tipici della fase neoliberista, hanno reso più difficile la
mobilitazione popolare: oggi la vita è sempre più difficile, per i
ceti subalterni, costretti a una vita faticosa, fatta di lotte
quotidiane, piccole e grandi, per mantenere una vita dignitosa, e
magari far crescere dei figli. Pretendere che gli uomini e le donne
di queste fasce sociali aggiungano un altro impegno, un’altra
fatica, un’altra cura, alle tante di cui devono farsi carico, e
questo in nome di un problema che al momento non è ancora
chiaramente percepibile, è davvero chiedere troppo.
L’esempio
concreto di queste dinamiche lo si è visto con le proteste dei
“gilet gialli” francesi, che come è noto nascevano come rifiuto
di una forma di tassazione sui carburanti motivata con argomentazioni
ecologiche (la protesta si è poi allargata ad altre tematiche).
Spero che, da quanto fin qui detto, appaia evidente come le proteste
dei “gilet gialli” fossero pienamente motivate: la misura
proposta lasciava indisturbato il capitalismo, cioè l’organizzazione
economica che produce i disastri ecologici, e si limitava a far
pagare un prezzo ai ceti socialmente più deboli, cioè a quelli che
meno sono in grado di farlo. In questo modo il meccanismo
capitalistico di distruzione prosegue indisturbato ma si lacera
ulteriormente la coesione sociale, che è un valore fondamentale per
sperare di non venire travolti dalle crisi incipienti.
I
ceti subalterni potrebbero impegnarsi in una mobilitazione sulle
problematiche ecologiche se il problema fosse impostato non
esclusivamente come la richiesta di rinunce e sacrifici, ma come il
modo per ottenere una vita e una società più sensate: per esempio
abbattendo le mostruose disuguaglianze sociali che hanno
caratterizzato i decenni neoliberisti, e restituendo al lavoro quei
diritti e quella dignità che sono stati cancellati [16].
Ma
poiché, come è noto, nessun pasto è gratis, per migliorare la vita
dei ceti subalterni, almeno su alcuni piani, nel contesto di
cambiamenti economici e sociali drastici e inevitabili, sono
necessarie risorse che possono essere prese solo ai ceti dominanti: e
abbiamo già discusso come questi ultimi non accetteranno mai una
diminuzione significativa dei loro livelli di vita.
Il
ragionamento ci porta a concludere che una mobilitazione politica dei
ceti subalterni, che miri alla salvezza della civiltà dal collasso
incipiente, avrebbe senso solo in una prospettiva di radicale
cambiamento dell’attuale organizzazione sociale ed economica, e che
un tale radicale cambiamento dovrebbe necessariamente concretizzarsi
in una lotta contro gli attuali ceti dominanti, per ottenere una
redistribuzione del potere e della ricchezza altrettanto radicale, a
favore dei ceti subalterni. In parole povere, solo una rivoluzione ci
può salvare [17]. Ma la possibilità di una rivoluzione
anticapitalista dei ceti subalterni si scontra contro una triste
evidenza: i ceti subalterni non vogliono abbattere il capitalismo.
Oggi la vita di ciascuno di noi è completamente immersa nei
meccanismi economici di tipo capitalistico, da essi dipendiamo per il
cibo, l’acqua, il riscaldamento e qualsiasi altra necessità della
vita. Nessuno sa come potrebbe essere organizzata una società su
criteri economici diversi dagli attuali, e soprattutto nessuno sa se
una simile società saprebbe garantire un livello di vita accettabile
agli attuali ceti subalterni. Certo, di questi tempi le proposte di
mondi alternativi riempiono i libri degli intellettuali “critici”.
Ma si tratta di parole che restano nei libri e nelle riviste, perché,
come s’è detto, nessuno sa come metterle in pratica, e quali
esiti possano avere una volta messe in pratica [18]. È questo, a mio
parere, il motivo profondo che spiega anche il fatto che i ceti
subalterni non siano riusciti contrastare l’attacco alle loro
conquiste, che ha segnato il passaggio dal “compromesso
socialdemocratico” al capitalismo neoliberista e globalizzato. Alla
fine, l’attuale organizzazione sociale assicura ancora ai ceti
subalterni un livello di vita superiore a quello del passato, e a
quello di tante persone nel Sud del mondo. E nessuno, nel mondo dei
“critici del sistema”, ha la credibilità per poter garantire che
le proprie proposte “alternative” non portino a un drastico
peggioramento della vita dei ceti subalterni. È del tutto naturale
allora che tali ceti si tengano ben stretta questa vita e quindi
anche questo mondo, il mondo del capitale arrivato ad una fase
decadente e mortifera. È anche chiaro che tutto questo
necessariamente cambierà, quando il collasso dell’attuale società
arriverà al punto in cui sarà semplicemente impossibile continuare
una vita come l’attuale, per quanto impoverita. Allora certo si
produrrà qualche tipo di cambiamento. Ma in quel momento non si
potrà evitare il collasso, perché quello sarà appunto il momento
del collasso.
5.
Le ideologie
L’analisi
fin qui svolta ci porta a concludere che non esistono nella realtà
contemporanea le forze sociali e politiche in grado di indirizzare la
società nella direzione dei radicali cambiamenti necessari per
evitare il collasso prossimo venturo. Questa realtà di fatto si
esprime sul piano intellettuale nel dato di fatto che non esiste oggi
una elaborazione teorica adeguata alla drammatica realtà che ci
aspetta, e che possa fare da fondamento appunto teorico ad un’azione
politica rivolta al superamento della logica sociale capitalistica,
ormai folle e suicida.
Una
analisi seria della realtà culturale del nostro tempo è ovviamente
al di là delle intenzioni di questo articolo. Mi limito qui a
qualche rapida riflessione sulle culture che sembrano dominanti nella
sfera politica, almeno nei paesi occidentali. È abbastanza evidente
che le lotte politiche nel mondo attuale sono ancora interpretate con
le categorie tradizionali di destra e sinistra. La tesi che intendo
sostenere è che queste categorie sono del tutto inadatte a
comprendere la realtà attuale e a indirizzarla al cambiamento.
Ho
discusso a lungo di questi temi in passato, e mi limito quindi a
riassumere qui le tesi principali che si possono trovare esposte in
un testo scritto assieme al compianto Massimo Bontempelli [19]. Per
quanto riguarda la sinistra, il punto di partenza è la definizione
di sinistra come quella parte politica e culturale che nella
modernità ha lottato per l’emancipazione dei gruppi sociali
subalterni attraverso lo sviluppo e la modernizzazione. Il secondo
passaggio fondamentale sta nella tesi che le dinamiche sociali degli
ultimi decenni mostrano come modernizzazione e sviluppo siano
diventati fattori non di emancipazione ma di cancellazione di diritti
e redditi dei ceti subalterni, di erosione del legame sociale, di
distruzione dell’ambiente. Tutti elementi di quel crollo di civiltà
prossimo venturo del quale stiamo discutendo. Se si accettano queste
due premesse, la conclusione è inevitabile: la sinistra
semplicemente non può più esistere, perché non è più possibile
quella strategia di emancipazione attraverso modernizzazione e
sviluppo che ne è la definizione. Non essendo più possibile
conciliare emancipazione e sviluppo, la sinistra ha dovuto scegliere,
e nella sostanza ha scelto lo sviluppo contro l’emancipazione. Ha
scelto cioè il capitalismo, nella forma neoliberista degli ultimi
decenni, e ne ha accettato le conseguenze distruttive, nascondendo
tutto questo dietro i riti e i simboli di un passato irrecuperabile,
in cui la sinistra aveva avuto un ruolo realmente emancipativo. La
sinistra attuale appare quindi dominata da una stupefacente falsa
coscienza: si accetta in tutto e per tutto il meccanismo distruttivo
del capitale, lo si favorisce quando si è al governo, e poi ci si
stupisce che esso produca appunto distruzione, sia nella società sia
nella natura.
Il
lato opposto dello schieramento politico, la destra, non offre uno
spettacolo molto diverso: anch’essa da una parte pretende di
collegarsi ai valori del proprio passato (la nazione, le istituzioni
tradizionali e i doveri ad esse collegati), e dall’altra si fa
promotrice dell’estensione della logica sociale capitalistica, che
di tali valori rappresenta la distruzione. La destra attacca il
progressismo della sinistra, dei suoi intellettuali e della sua
cultura, e magari si spinge a criticare le “élite mondialiste”:
ma non capisce che le forze contro le quali protesta sono espressione
della fase attuale di quel capitalismo, che la destra stessa difende
e promuove.
Destra
e sinistra nel mondo contemporaneo sono quindi entrambe
manifestazioni di una falsa coscienza che evita di porre al centro
della discussione la dinamica distruttrice della logica
capitalistica. In questo modo entrambe svolgono la funzione loro
assegnata, quella di proteggere tale logica deviando la discussione
su falsi obiettivi, problemi inessenziali, scontri spettacolari e
futili.
Queste
considerazioni teoriche possono suonare un po’ astratte. Per
renderle più concrete, possiamo esaminare due eventi che hanno avuto
la strana sorte di accadere molto vicini l’uno all’altro, nel
tempo e nello spazio: entrambi a Washington D.C., entrambi nei primi
giorni di quest’anno.
Il
primo è il caso del reverendo Emanuel Cleaver. Pastore metodista e
membro della Camera dei Rappresentanti, uno dei due rami del
Parlamento USA, Cleaver ha il compito di enunciare una preghiera per
l’inizio dei lavori della Camera, il
3 gennaio. La
preghiera si concluderebbe con "Amen", ma evidentemente gli
è sembrata una conclusione sessista (gli anglofoni pronunciano
"Eimen", e alle loro orecchie può suonare come "Ehi,
uomo"), e così ha aggiunto un "Awoman". Si
noti che Cleaver non è uno sprovveduto o un fanatico. Eletto più
volte alla Camera, è quello che in Italia chiameremmo un “politico
di lungo corso”, evidentemente esperto nella lotta politica e nelle
astuzie e malizie che essa implica. Se un personaggio di questo tipo
decide di correre
il rischio esporsi
al ridicolo in
questo modo, è perché ritiene di poter comunque ottenere un
guadagno politico da quello stupefacente “Awoman”. E un tale
guadagno non lo ricaverà certamente dalle persone di destra (è
stato infatti subito attaccato da esponenti della destra americana),
quindi chiaramente ritiene di ricavarlo dalla sinistra. E questo ci
dice molto bene cosa è diventata la sinistra, negli USA e in tutto
il mondo occidentale.
Pochi
giorni dopo, il 6 gennaio, abbiamo invece un chiaro esempio di cosa
stia diventando la destra, negli USA e probabilmente, anche in questo
caso, in tutto il mondo occidentale. Mi riferisco naturalmente
all’assalto al Campidoglio USA da
parte di
qualche migliaio di manifestanti pro-Trump, che
protestavano per l’insediamento di Joe Biden come nuovo Presidente.
Il simbolo di questo evento è stata l’immagine di Jake Angeli, il
cosiddetto “sciamano”, col corpo dipinto e corna di bisonte. C’è
già una voce wikipedia su di lui [20],
che permette almeno di intravedere lo stranissimo miscuglio di
culture dalle quali può emergere un tale personaggio; mentre
un’analisi più approfondita la si può trovare in un post di
Miguel Martinez, che nel suo blog da molto tempo cerca di rendere
comprensibili
le stranezze USA ai suoi lettori italiani [21].
Come
mostra Martinez, la vicenda di questo personaggio mette in luce molti
aspetti interessanti dello “spirito del tempo”, ma adesso voglio
sottolineare soprattutto come
essa fornisca
un’immagine inquietante della cultura diffusa nelle masse del
nostro tempo, una cultura che consiste in sostanza in una babele
sconclusionata, incoerente e arbitraria di contenuti del tutto
eterogenei, mescolati fra loro senza nessuna preoccupazione di
organicità e coerenza.
Se
vogliamo passare da questi due episodi simbolici alla sostanza
politica e culturale della questione che stiamo discutendo, possiamo
concludere che destra e sinistra rappresentano oggi due modi diversi
di eludere i problemi
fondamentali
del nostro tempo, che consistono
nel carattere
ormai totalmente distruttivo assunto dall’attuale
organizzazione economica e sociale (il capitalismo), e nella
mancanza di forze capaci di opporsi efficacemente ad
essa.
Questa elusione ovviamente è uno dei modi in cui il capitalismo
anestetizza ogni possibile opposizione, e di conseguenza destra e
sinistra appaiono come strumenti ideologici per la conservazione del
potere degli attuali ceti dominanti. Destra e sinistra differiscono
solo per le modalità in cui pongono in essere tale elusione. La
sinistra, di fronte ai tanti segnali di crisi del sistema attuale, e
alle reazioni popolari che essi generano, evita di mettere in
questione la dinamica ormai folle del modo di produzione
capitalistico
e si concentra sulla
creazione di elaborati rituali linguistici e culturali che fra non
molti anni appariranno, io credo, totalmente assurdi, e analoghi a
quelli che dovevano essere i rituali nel Senato romano del 468 d.C.,
o quelli della
corte imperiale Qing nel 1908. Nei
settori della destra, spesso meno preparati sul piano intellettuale,
tendono invece a diffondersi strani
miscugli di elaborazioni culturali
bislacche e contraddittorie.
In ogni caso il capitalismo non è mai posto in questione, e ciascuna
delle due parti tende attribuisce all’altra la responsabilità del
continuo peggioramento delle condizioni sociali.
In
questo gioco delle parti succede come nelle sale da gioco: l’unico
ad essere sicuro di vincere è il banco, cioè il capitalismo e i
suoi attuali ceti dominanti. Ma questa vittoria è la vittoria di un
sistema sociale ormai votato all’autodistruzione.
(M.Badiale, Genova primavera-estate 2021)
Note
[1]
http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html
[2]
Ne è cosciente il Ministro della Transizione Ecologica, Roberto
Cingolani, che ha parlato esplicitamente di “bagno di sangue”:
https://www.huffingtonpost.it/entry/roberto-cingolani-la-transizione-ecologica-potrebbe-essere-un-bagno-di-sangue_it_60dd5be9e4b070f97b395e99
[3]
Alcuni testi della
produzione ecomarxista contemporanea sono
i
seguenti: I.Angus,
Anthropocene,
Asterios 2020; D.Tanuro. È
troppo tardi per essere pessimisti,
Alegre 2020; F.Magdoff,
J. Bellamy Foster, What
every environmentalist needs to know about capitalism, Monthly
Review Press 2011;
J.Bellamy
Foster, B.Clark, R.York, The
ecological rift, Monthly
Review Press 2010; F.Magdoff,
C.Williams, Creating
an ecological society,
Monthly
Review Press 2017.
Un
testo forse non strettamente “ecomarxista”, ma in sintonia con
l’impostazione del presente lavoro, è J.Hickel,
Siamo
ancora in tempo!,
Il Saggiatore 2021.
[4]
Una delle espressioni simboliche più significative dell’ideologia
neoliberista è la celebre affermazione di M.Thatcher
sul fatto che “la società non esiste”.
[5]
M.D’Eramo, Dominio, Feltrinelli 2020.
[6]
N.Oreskes, E.M.Conway, Mercanti di dubbi, Edizioni Ambiente
2019.
[7]
S.Levantesi, I bugiardi del clima, Laterza 2021.
[8]
N.Rich, Perdere la Terra, Mondadori 2019.
[9]
Varoufakis, Adulti nella stanza, La Nave di Teseo 2018.
[10]
Sui possibili conflitti legati all’acqua si veda E.Bompan,
M.Iannelli, Water
grabbing, EMI
2018.
Sul tema della gestione dell’acqua nella realtà contemporanea si
possono consultare
anche E.Borgomeo,
Oro
blu, Laterza
2020, e
C.Fishman, La
grande sete,
Egea 2015.
[11]
Faccio qui riferimento a G.Pitron,
La guerra dei metalli rari,
LUISS 2019. Si
veda anche la relativa voce di wikipedia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Terre_rare
e
l’articolo di
Davide Michielin:
https://www.iltascabile.com/scienze/metalli-rari/
[12]
Sul tema delle migrazioni legate al cambiamento climatico si può
vedere F.Santolini,
Profughi
del clima, Rubbettino
2019. Sulle
nuove forme di violenza tipiche del XXI secolo, e i loro legami coi
cambiamenti climatici, si veda H.Welzer, Guerre
climatiche,
Asterios 2011.
[13]
A.Malm, Clima corona capitalismo, Ponte alle Grazie 2021.
[14]
È sottinteso che chi scrive aderisce ad una visione critica
dell’attuale fase, neoliberista e globalizzata, del capitalismo.
Senza entrare in una discussione ormai sterminata, i punti
fondamentali di tale visione critica si possono trovare riassunti,
per esempio, nei seguenti testi: D.Harvey, Breve
storia del neoliberismo, Il
Saggiatore 2007; A.Glyn, Capitalismo
scatenato, Francesco
Brioschi Editore 2007;
S.Halimi, Il
grande balzo all'indietro, Fazi
2009; N.Klein, Shock
economy, Rizzoli
2009, oltre
al testo di D’Eramo citato in precedenza.
[15]
Nella discussione scientifica si parla a questo proposito di “tipping
points”, cioè punti di svolta o punti di non ritorno. Per avere
un’idea di questa nozione si veda il capitolo 8 di L.Marques,
Capitalism
and environmental collapse, Springer
2020.
I
due articoli seguenti possono dare un’idea di come tale nozione
venga usata nelle discussioni attuali:
(i)
S.G.
Stafford, D. M. Bartels, S. Begay-Campbell, J. L. Bubier, J. C.
Crittenden, S.
L. Cutter, J. R. Delaney, T. E. Jordan, A. C. Kay, G. D. Libecap, J.
C. Moore, N. N.Rabalais, D. Rejeski, O. E. Sala, J. Marshall
Shepherd, J. Travis
Now
is the Time for Action: Transitions and Tipping Points in Complex
Environmental Systems
Environment:
Science and Policy for Sustainable Development,
52:1, 38-45, (2010)
DOI:
10.1080/00139150903481882
(ii)
https://climateandcapitalism.com/2021/06/26/interacting-climate-tipping-points-may-fall-like-dominoes/
La
nozione di “tipping point” non è univocamente accettata dalla
comunità scientifica. Si può vedere una discussione in proposito
alle pagine 23-35 di M.Hulme (ed.), Contemporary
Climate Change Debates,
Routledge 2020.
[16]
Era questo il senso più autentico, a mio parere, della proposta
della decrescita “felice” o “serena”: una diminuzione di
certi aspetti della produzione materiale per ottenere una vita
migliore, per esempio attraverso la diminuzione dell’orario di
lavoro, dell’insicurezza, della disuguaglianza. Si tratta di idee
che nei decenni scorsi sono circolate in vari ambienti, senza
necessariamente assumere l’etichetta della decrescita.
Ritengo
che una proposta culturale e politica come la decrescita, se
adottata, avrebbe rappresentato l’ultima possibilità di evitare il
collasso dell’attuale civiltà. Mi sono però convinto che oggi,
2021, sia troppo tardi: nel collasso di civiltà ormai incipiente,
non vi potrà essere nessuna “serenità”.
Per
una prima introduzione alle tematiche della decrescita, si vedano:
M.Pallante, La
decrescita felice, Editori
Riuniti 2006; S.Latouche, La
scommessa della decrescita, Feltrinelli
2007; M.Badiale, M.Bontempelli, La
sfida politica della decrescita,
Aracne 2014.
[17]
“Una rivoluzione ci salverà” è il titolo italiano del
libro dedicato al problema del cambiamento climatico da parte della
famosa giornalista Naomi Klein (Rizzoli 2015). Si tratta di un testo
molto efficace nello spiegare l’insostenibilità ecologica del
capitalismo. Anche il titolo originale inglese “This changes
everything” è molto espressivo.
[18]
È questo il limite principale delle contemporanee teorizzazioni
ecosocialiste, che sono comunque molto utili come analisi critica
dell’esistente.
[19]
M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007.
[20]
https://en.wikipedia.org/wiki/Jake_Angeli
[21]
http://kelebeklerblog.com/2021/01/08/showman-shaman-yeoman/