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giovedì 18 marzo 2021

Fine partita

 

Fine partita. Ha vinto la barbarie

(lettere al futuro, 4)

Marino Badiale


1. Introduzione

Socialismo o barbarie” è un notissimo slogan dovuto a Rosa Luxemburg, contenuto in un testo scritto durante la Prima Guerra Mondiale [1]. È stato usato molte volte nel Novecento, a indicare il pericolo di una degenerazione regressiva e barbarica delle società occidentali (regressione la cui analisi specifica si differenziava fra i vari autori), e la necessità di una evoluzione socialista per prevenire tale degenerazione. Un critico potrebbe obbiettare che, nel Novecento, il socialismo non ha vinto ma la barbarie tanto temuta non è in definitiva arrivata: il nazifascismo è senz’altro l’evento storico più simile alla temuta regressione, ma esso è stato sconfitto da forze interne alle stesse società capitalistiche (assieme, ovviamente, all’URSS), che hanno così dimostrato di essere capaci di esprimere efficaci controtendenze rispetto agli elementi di barbarie sorti al proprio interno. Può dunque sembrare arrischiato riproporre oggi lo slogan “socialismo o barbarie”, perché si potrebbe venire smentiti, come è successo per tutto il Novecento. Sono però convinto, e l’ho argomentato in altri interventi [2], che il capitalismo abbia ormai esaurito la sua capacità di rappresentare una potenzialità contraddittoria di progresso, e sia entrato in una fase univocamente regressiva, che porterà in tempi non troppo lunghi ad una sua crisi irreversibile. Purtroppo tale crisi non sarà quella che speravano i movimenti comunisti e socialisti degli ultimi due secoli: non si tratterà di una fase turbolenta, magari drammatica, che porterà a sostituire il capitalismo morente con un socialismo ecologico, pacifico, in grado di conservare le conquiste spirituali della modernità e metterle al servizio del libero sviluppo di ogni individuo. Si tratterà invece di un devastante crollo di civiltà, analogo a quelli che si sono succeduti nella storia (l’esempio più ovvio per noi europei è la fine dell’Impero Romano d’Occidente), che porterà violenze e distruzioni, mentre è impossibile dire quali tipi di società riusciranno a costruire gli esseri umani sopravvissuti.

La nozione di “barbarie”, riferita all’attualità, mi sembra quindi abbastanza chiara. Lo è meno quella di “socialismo”, perché tale termine (come “comunismo”, del resto) ha assunto molti significati diversi. Per questo motivo, come ho spiegato in uno scritto precedente [3], preferisco non utilizzare i termini “comunismo” o “socialismo”. Nonostante questo, nel presente scritto parlo di “socialismo” perché faccio riferimento ad alcuni teorici “ecosocialisti” contemporanei [4], e a ciò che essi intendono con “ecosocialismo”, il che fornisce alla parola un contenuto determinato. Non intendo con questo dire che esso sia il significato “vero” o “autentico” di “socialismo”, ma solo che si tratta del significato a cui si fa riferimento in questo scritto. Alcuni caratteri generali di una organizzazione sociale ecosocialista posso essere delineati, in estrema sintesi, come segue: in primo luogo la produzione è sottoposta al controllo collettivo e indirizzata al soddisfacimento dei bisogni socialmente riconosciuti, e non più al profitto, e a questo scopo è necessaria una qualche forma di pianificazione; in secondo luogo, si riconosce che fra questi bisogni vi è quello di un ambiente naturale salubre; in terzo luogo, una tale società ha un’impronta fortemente egualitaria: le disuguaglianze sociali, per quanto non del tutto eliminabili, sono contenute e controllate, e naturalmente è osteggiata e combattuta ogni forma di discriminazione e di razzismo; in quarto luogo vi è un forte controllo democratico di ogni singola comunità sulle condizioni della propria esistenza, e quindi anche, in particolare, sulle condizioni del proprio ambiente naturale; infine, come principio generale, l’organizzazione sociale è finalizzata al pieno e libero dispiegamento delle potenzialità intellettuali e relazionali di ciascun individuo: per la qual cosa è necessaria una certa libertà dal bisogno (e quindi anche tempo libero dal lavoro) ma non l’accumulazione continua di oggetti alla quale la società dei consumi ci ha abituato.

I caratteri che abbiamo appena enunciato appaiono fondamentali perché una forma di socialismo sia alternativa alla barbarie: con ciò si intende dire che, all’interno della vasta area semantica coperta dalla parola “socialismo”, vi sono modelli di organizzazione sociale che potrebbero portare a forme di barbarie del tutto simili a quelle capitalistiche. Se il “socialismo” è inteso come direzione statale dell’economia diretta a uno sviluppo economico finalizzato a massimizzare la produzione e incurante dell’ambiente, è evidente che esso potrebbe portare a problemi del tutto simili a quelli che oggi ci fronteggiano. Basti pensare ai disastri ecologici nei paesi del “socialismo reale”.

Una volta riassunti in questi termini i due corni dell’alternativa “socialismo o barbarie”, posso enunciare le due tesi fondamentali di questo scritto: in primo luogo, ritengo che l’alternativa sia oggi del tutto valida nel senso che l’attuale organizzazione sociale capitalistica, lasciata alla sua dinamica interna, non può che portarci ad un rovinoso crollo di civiltà e alla barbarie, e, in linea di principio, una prospettiva ecosocialista, del tipo sopra abbozzato, sembra l’unica strada che possa evitare questo esito; in secondo luogo, ritengo che la storia abbia ormai fatto la sua scelta, e che non ci siano possibilità concrete di una tale evoluzione ecosocialista. Detto altrimenti, ha vinto la barbarie, e quello che ci aspetta è il crollo dell’attuale civiltà e un periodo di degradazione e devastazione, oltre il quale risorgerà una qualche forma di civiltà oggi non prevedibile. È quest’ultima la tesi fondamentale di questo intervento, e nelle pagine che seguono cercherò di argomentarla.

Un’ultima osservazione, prima di concludere questa introduzione: la tesi per la quale l’alternativa alla barbarie è il socialismo (o l’ecosocialismo) può ovviamente suscitare dissenso fra molti lettori. Ma, pur essendone personalmente convinto, non è questa la tesi che argomento in questo scritto. La tesi fondamentale è piuttosto quella del prossimo crollo della nostra civiltà. Ritengo quindi che il presente scritto possa risultare interessante anche per chi non condivida una prospettiva (eco)socialista.


2. Il collasso prossimo venturo

Lo studio del collasso delle società umane è ormai diventato un tema importante di ricerca scientifica e discussione pubblica, e ha prodotto una bibliografia ragguardevole. Si possono identificare due filoni principali: da una parte il tema del prossimo collasso della società attuale, dall’altra la ricerca sulle dinamiche e le cause del collasso di vari tipi di società premoderne, dall’Impero Romano d’Occidente all’isola di Pasqua. Si può osservare che anche le ricerche di questo secondo tipo, per quanto in genere abbiano un carattere più accademico rispetto alle prime, sono comunque motivate da preoccupazioni relative al futuro della società attuale, come ammette senza problemi lo storico e antropologo Joseph Tainter in uno dei testi fondamentali di questo filone [5]. Cerchiamo in questa introduzione di riprendere alcuni temi da entrambi i filoni così individuati.

Il primo tipo di studi, quelli relativi ai pericoli che sovrastano l’attuale organizzazione sociale, ormai estesa all’intero pianeta, è caratterizzato dal tentativo di mettere assieme una serie di risultati e idee che provengono da varie discipline, e che, considerati nel loro complesso, sembrano indicare l’insostenibilità di tale organizzazione. In Francia questo tipo di analisi ha conosciuto un inaspettato successo mediatico con la pubblicazione, nel 2015, di un testo di Servigne e Stevens [6]. Gli autori citati hanno introdotto, probabilmente con un po’ di ironia, il termine “collapsologie” per indicare le loro analisi. Nonostante tale termine sembri alludere ad una disciplina accademica istituzionalizzata, la “collapsologie” non è ovviamente una scienza di questo tipo, e il libro citato non è un testo scientifico in senso stretto, ma rappresenta piuttosto un’ottima sintesi divulgativa di una serie di risultati raggiunti negli ultimi tempi all’interno di varie discipline scientifiche. Come si diceva sopra, una volta messi assieme questi risultati, sembra possibile formulare un giudizio complessivo sulla direzione verso la quale è avviata la nostra attuale organizzazione economica e sociale. Il successo mediatico del libro citato ha portato alla pubblicazione di molti altri testi, alla creazione di una rivista e di un interessante sito web [7], cosicché probabilmente si può parlare per la Francia di un autentico “movimento collassologico”.

Cerchiamo allora di presentare, in estrema sintesi, alcuni dei dati che spingono molti (studiosi accademici, militanti, cittadini preoccupati) a ritenere che la nostra società abbia ormai imboccato una strada che porterà, in tempi non lunghissimi, ad un rovinoso crollo di civiltà.

In primo luogo vi è il tema della diminuzione progressiva di alcune delle risorse fondamentali sulle quali si basa la nostra civiltà: petrolio in primo luogo, ma anche le altre risorse minerarie fondamentali (i metalli, per esempio), oppure l’acqua. Il problema non è tanto l’indisponibilità a breve termine di tali risorse, quanto il fatto che, avendone sfruttato le fonti più facili ed economiche, ciò che rimane da sfruttare è sempre più difficile e costoso da ottenere. Si tratta della nota problematica dei “ritorni decrescenti” [8]. L’esempio più studiato si riferisce al petrolio. In questo caso è stato elaborato un indice, chiamato EROEI o EROI (Energy Return On Energy Invested) definito come il rapporto fra l’energia ottenuta dal petrolio estratto e l’energia impiegata per l’estrazione [9]. La nostra civiltà attuale è basata sul fatto che il petrolio ha finora goduto di un alto EROI: utilizzando una data quantità di energia, si poteva estrarre petrolio che ne forniva una quantità molto maggiore. La stima dell’EROI è piuttosto complessa e presenta un certo grado di arbitrarietà, ma gli studi sembrano indicare una sua costante diminuzione. È chiaro che, se e quando l’EROI del petrolio scenderà al valore 1, vi potrà essere ancora molto petrolio sottoterra, ma esso non rappresenterà più una fonte effettiva di energia. In realtà, per poter sostenere le nostre società di consumatori, abbiamo probabilmente bisogno di un EROI molto più grande di 1. Si può notare che la tendenza alla diminuzione dell’EROI non sembra essere finora influenzata dagli sviluppi tecnologici: questi ci hanno permesso di accedere a fonti di idrocarburi prima inutilizzate (si pensi allo “shale oil”) ma non hanno inciso sulla tendenza al declino dell’EROI.

Lo stesso discorso si può ripetere per tutte le altre risorse prima citate. Il punto, ribadiamolo, è che la sempre maggiore difficoltà di reperimento delle risorse fondamentali porterà, prevedibilmente, a difficoltà economiche sempre maggiori. Si può osservare che anche il gruppo di ricercatori del MIT che ha prodotto il famoso rapporto del Club di Roma sui “limiti alla crescita” ha sottolineato come, in alcuni degli scenari studiati, sia proprio il crescente costo di risorse sempre più scarse a determinare il collasso [10].

In secondo luogo, ci stiamo avviando verso la rottura, a livello planetario, di alcune dinamiche cicliche essenziali per mantenere il pianeta Terra in una situazione simile a quella nella quale si sono finora evolute le società umane. L’azione umana sta cioè portando il pianeta verso una situazione fondamentalmente nuova, che presenta rischi difficili da prevedere. I cicli in questione coinvolgono assieme aspetti geofisici, chimici, biologici. L’esempio più noto è quello relativo al ciclo del carbonio, la cui alterazione, con l’uso massiccio di combustibili fossili, sta inducendo un cambiamento climatico globale. Ma non si tratta solo di questo. In un articolo del 2009 [11] gli autori, studiosi della Terra intesa come sistema dinamico unitario, hanno identificato nove “limiti planetari” ai quali la società umana deve porre attenzione, perché superarli porta appunto, come si diceva, ad alterazioni profonde dell’intera ecologia planetaria. Si tratta della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, dei flussi geochimici di azoto e fosforo, dell’acidificazione degli oceani, dell’uso di acqua dolce, del cambiamento di uso del suolo (da terreno lasciato alla natura a terreno modificato per gli usi umani), dell’eccesso di aerosol atmosferici, dell’introduzione di nuove sostanze nell’ambiente, della perdita di biodiversità. Per sette di questi “limiti planetari” si sono introdotte, nell’articolo citato, precise definizioni quantitative, sostenendo che per tre di essi (concentrazione di anidride carbonica, perdita di biodiversità, ciclo dell’azoto) la società umana ha già superato i valori di sicurezza. In un articolo del 2015 [12] la discussione viene aggiornata e raffinata, concludendo che i limiti superati sono ormai quattro. Per limitarci ad un accenno al cambiamento climatico, sicuramente il più noto fra questi temi, dovrebbe essere ormai chiaro che esso porterà ad un profondo sconvolgimento dell’intera organizzazione sociale, con conseguenze drammatiche che difficilmente le attuali strutture politiche saranno di grado di gestire. Nonostante il tema sia ormai arrivato nei mezzi di comunicazione di massa, e nonostante la mobilitazione internazionale su di esso, non sembra di scorgere da parte dei ceti dirigenti misure adeguate alla gravità e all’urgenza del problema: da una parte gli studi indicano che, se si vogliono evitare le conseguenze peggiori di un cambiamento climatico ormai avviato, occorre agire con estrema rapidità verso un drastico taglio delle emissioni di CO2; dall’altra, non sembra per il momento possibile scorgere passi decisivi in questa direzione.

Un terzo tema è quello della debolezza dell’economia mondiale. La crisi finanziaria del 2007/08, e il fatto che molte economie sviluppate non riescono a tornare ad un percorso di crescita economica stabile, ha portato alcuni autori a parlare di “stagnazione secolare” [13]. Si teme cioè che le economie avanzate siano entrate in una fase di stagnazione ravvivata solo dal sorgere di bolle speculative, il cui inevitabile crollo porta a ulteriori perdite di ricchezza. Detto altrimenti, la debolezza dell’economia reale implica che i capitali in cerca di alti profitti vengono investiti nella finanza, ma una accentuata finanziarizzazione dell’economia, quando non è sostenuta da una crescita sostenuta dell’economia reale, non può che portare a bolle speculative a cui seguono crisi di vari tipo. D’altra parte, l’attuale economia globalizzata ha bisogno della finanza per poter funzionare, perché la gestione di reti estese e complesse come quelle necessarie a rifornire i diversi paesi delle merci necessarie, implica inevitabilmente una sfera finanziaria attiva e in salute. E infatti abbiamo visto come l’ultima crisi finanziaria si sia poi estesa all’economia reale. Poiché questi fattori di debolezza non sono stati eliminati, non sembra azzardato pensare che nel futuro prossimo sia possibile un’altra crisi finanziaria come quella del 2007/08, che colpirebbe però economie già indebolite.

Un ultimo elemento di questa lista, largamente incompleta [14], è il fatto che l’accumularsi di crisi del tipo descritto nelle righe precedenti metterà sotto stress, in tutto il pianeta, le attuali strutture statali. Sono condizioni nelle quali è assai facile che le tensioni finiscano per scaricarsi come guerre, portando ulteriori distruzioni e favorendo il collasso delle organizzazioni sociali dei vari paesi.

Per concludere queste osservazioni, aggiungo due considerazioni che mi sembrano importanti: in primo luogo, un aspetto decisivo del futuro che ci aspetta è il fatto che tutti i fattori di crisi sopra elencati finiranno per interagire fra di loro, e solo a questo punto si avrà un pericolo concreto di collasso statale e sociale. In secondo luogo, la complessità dell’attuale società globalizzata e le sue innumerevoli interazioni con il mondo non umano rendono in sostanza impossibile prevedere quale forma specifica assumeranno le minacce future. Mi limito a fare un solo esempio, in riferimento alla crisi pandemica ancora in corso. Qualche mese fa si è saputo della soppressione di centinaia di migliaia di visoni in vari allevamenti sparsi per il mondo, motivata dal fatto che il virus si era trasmesso ai visoni e si temeva che potesse ritornare all’uomo in forma mutata. Perché questo passaggio è avvenuto proprio con i visoni e non con qualcuna delle altre specie animali che l’uomo alleva? Si tratta evidentemente di dinamiche imprevedibili a priori, e che siamo costretti ad affrontare volta per volta. La tesi che sostengo è che l’attuale linea di evoluzione della nostra società ci sta portando verso situazioni nelle quali si produrranno sempre nuove crisi, sempre imprevedibili nelle loro forme specifiche, che si accumuleranno fino a superare la capacità della società di farvi fronte, portando quindi al collasso della struttura sociale.

Prendiamo adesso in esame alcune suggestioni che si possono ricavare dal secondo filone di studi, quello dedicato alla ricerca sul collasso di società del passato. Come abbiamo detto sopra, uno dei testi fondamentali in questo campo è quello di J.Tainter citato nella nota [5]. Il testo di Tainter propone una teoria del collasso sociale inteso come perdita netta e percepibile di complessità nell’organizzazione sociale stessa. La spiegazione che propone Tainter si basa sull’idea dei “ritorni decrescenti” della complessità stessa. L’autore intende dire che le società umane elaborano strutture sempre più complesse in risposta a vari tipi di pericoli e sfide provenienti dal loro ambiente (umano e naturale). Questo aumento di complessità può rappresentare un fattore positivo, che rende la società più forte. Ma può succedere, sostiene Tainter, che in certe situazioni questa crescita di complessità comporti costi sempre maggiori rispetto ai vantaggi. Essa può quindi indebolire la società, invece di rafforzarla, e questo indebolimento può portare appunto al collasso. Si tratta di una tesi interessante, che è presa in considerazione da molti degli autori successivi. Nell’ambito di questo filone di studi, in Italia è particolarmente noto il lavoro di J.Diamond [15], che sottolinea le problematiche ecologiche ed ambientali in vari esempi di collasso sociale. Il recente libro di G.D.Middleton [16] riesamina molti dei casi storici finora studiati in relazione a questo tema. Middleton tende a sfumare le tesi di coloro che additano una causa unica o principale per ciascun esempio di collasso sociale. Egli non propone una nuova teoria generale ma suggerisce che in un collasso vi sia sempre una concorrenza di cause diverse, e in particolare che le problematiche ecologiche e ambientali possano forzare fenomeni di collasso solo se assieme ad esse si verifica una crisi sociale e politica che impedisce una risposta adeguata.

Facendo tesoro delle osservazioni di Middleton, e senza proporre una nuova teoria generale del collasso sociale, credo si possa ipotizzare un esito di quel tipo per la società contemporanea nei termini seguenti: da una parte, le problematiche che abbiamo riassunto seguendo il primo filone sembrano indicare l’impossibilità di proseguire con l’attuale forma di organizzazione della società, basata sulla crescita economica senza fine e senza fini o, per dirla in breve, sul capitalismo. Dall’altra, sembra che a questi pericoli incombenti l’umanità non sia capace di rispondere impostando un cambiamento radicale nell’organizzazione sociale ed economica, superando il capitalismo e andando nella direzione di una società capace di un rapporto equilibrato con il proprio ambiente, oltre che di maggiore giustizia sociale e maggiore solidarietà. Sembra cioè che ci troviamo in una situazione in cui la nostra società mostra di aver bisogno, per evitare una crisi a più livelli ormai incipiente, di cambiamenti radicali nella propria organizzazione economica e sociale, e contemporaneamente non sembra possibile scorgere segnali che indichino che il mondo contemporaneo si stia avviando nella direzione dei cambiamenti necessari. Detto in maniera più esplicita, il cambiamento radicale necessario per evitare alla nostra civiltà un crollo rovinoso non avverrà, almeno non in tempo utile per evitare il crollo, e non avverrà perché mancano nella nostra società le forze che potrebbero promuoverlo.

Nel resto del presente intervento cercherò di argomentare quest’ultima tesi. Esaminerò l’atteggiamento dei ceti dominati e quello dei ceti subalterni, spiegando perché ritengo che non ci possiamo aspettare una spinta decisiva al cambiamento da nessuna delle due categorie. Cercherò inoltre di spiegare perché ritengo inadeguato ai problemi attuali il pensiero critico contemporaneo. Infine tenterò di dare un’indicazione rispetto al problema del “che fare?”.

È del tutto ovvio che un’analisi del mondo contemporaneo non può essere svolta in maniera soddisfacente nel breve spazio di questo intervento. Il mio intento non è quello di rendere adeguatamente la complessità della società attuale, ma di indicare quelli che ritengo essere dei nodi problematici fondamentali.


3. I tacchini non organizzano il Natale.

È ovvio che, in qualsiasi periodo storico, la classe dominante è quella meno indicata per operare un cambiamento radicale che possa mettere in questione, assieme all’assetto complessivo della società, le stesse basi del suo potere e dei suoi privilegi. Così, per tornare ai problemi attuali, sembra assai fantasioso poter ipotizzare che le attuali classi dominanti possano progettare un superamento della forma capitalistica dell’attuale organizzazione sociale, visto che in essa hanno, come si diceva, le basi del proprio potere e dei propri privilegi, e visto che, inoltre, esse sono ideologicamente imbevute dell’idea che tale forma organizzativa rappresenti il punto più alto della civiltà umana.

È vero che vi sono stati nel corso della storia alcuni esempi che sembrano in contraddizione con quanto appena detto. Cercherò ora di prenderne in esame alcuni, per mostrare come essi siano dovuti a circostanze particolari che non sono presenti nella situazione attuale.

Un esempio impressionante è quello del Giappone dell’epoca Meiji. Come è noto, il Giappone fino a metà dell’Ottocento è chiuso agli stranieri e protegge gelosamente la propria natura sociale feudale. Questo isolamento viene rotto dall’intervento di una flotta militare statunitense che forza l’apertura del paese al commercio con i paesi occidentali. Di fronte a una sfida che poneva in questione la sopravvivenza del paese come entità indipendente, il ceto dirigente giapponese, o almeno una sua parte consistente, mette in atto una strategia, stupefacente per lucidità e decisione, di rapido superamento delle strutture feudali e di ingresso del paese nel mondo capitalistico. In pochi decenni, programmando e attuando una imitazione selettiva e ragionata dei paesi occidentali, il Giappone diventa a tutti gli effetti un paese avanzato, in grado di sconfiggere militarmente una potenza temuta come la Russia.

Questo importante esempio storico ci mostra che un ceto dirigente, quando vede messi in pericolo i fondamenti stessi della propria società, può prendere decisioni coraggiose e lungimiranti. Sembra dunque che non sia assurdo sperare una analoga capacità da parte degli attuali ceti dirigenti. Purtroppo vi sono differenze profonde fra quella situazione e l’attuale, e tali differenze fanno sì che non sia possibile coltivare una simile speranza. Sono due le differenze principali: in primo luogo, i ceti dirigenti del Giappone Meiji avevano chiaro davanti agli occhi quello che dovevano fare: avevano l’esempio delle società occidentali, che funzionavano secondo i principi capitalistici generando ricchezza e potere. Ovviamente i dirigenti giapponesi avevano il problema di trovare il modo migliore di adattare il capitalismo occidentale alla loro società, ma il punto di partenza e il modello di ispirazione, appunto il capitalismo occidentale, era chiaro, definito ed efficace. Oggi al contrario nessuno, all’interno dei ceti dominanti, sa in quale direzione si dovrebbe indirizzare il cambiamento, e nessuno sa per certo quali proposte possano essere efficaci e quali no. In secondo luogo, e questo forse è il punto più importante, i ceti dirigenti giapponesi hanno rivoluzionato la loro società con uno scopo preciso, quello di acquisire maggiore potere, soprattutto nei confronti delle potenze occidentali. Oggi, il superamento dell’organizzazione capitalistica comporterebbe una trasformazione imprevedibile degli assetti di potere, sia interni ai diversi paesi sia nei rapporti fra paesi. Il rischio concreto è quello di una diminuzione del potere dei ceti dirigenti, nei confronti dei propri ceti subalterni oppure (o anche) nei confronti di altri paesi. E il punto decisivo è che nessun ceto dirigente si imbarcherà mai nella difficile impresa di rivoluzionare dalle fondamenta la propria società nella prospettiva di perdere il proprio potere.

Quando un ceto dirigente accetta una limitazione del proprio potere economico, politico o militare, è sempre in ambiti ristretti, rigorosamente delimitati: si pensi alle trattative fra USA e URSS sulla limitazione della corsa agli armamenti, o al bando dei gas che danneggiavano lo strato dell’ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette. In entrambi i casi si è accettata una certa diminuzione, grande o piccola, di potere (militare od economico), ma appunto in maniera controllata, in ambiti ristretti, stando ben attenti a non mettere in questione le gerarchie del potere mondiale. Uno sforzo internazionale per la fuoriuscita dal “capitalismo fossile” sarebbe qualcosa di completamente diverso, perché la dipendenza dai combustibili fossili tocca tutte le dimensioni del potere attuale: tutta l’economia (ovviamente l’industria, ma anche l’agricoltura e i servizi) dipende dal fossile, così come il potere militare. Un’uscita dal fossile sarebbe quindi, dal punto di vista dei ceti dominanti, un salto nel buio: nessuno può dire se le attuali gerarchie del potere mondiale ne uscirebbero confermate o stravolte, e in questo secondo caso nessuno può dire chi sarebbero i vincitori e i perdenti.

In base a questo argomenti, ritengo si possa concludere che gli attuali ceti dirigenti non potranno mai progettare seriamente l’uscita delle nostre società dalla dinamica che sta portando al crollo di civiltà. È difficile pensare che siano i tacchini a organizzare il pranzo di Natale.


4. Capitalisti su Marte

Continuiamo la discussione sugli attuali ceti dominanti globalizzati, mostrando qualche esempio per rendere più concreta l’argomentazione teorica sviluppata sopra. Cerchiamo cioè di mostrare con esempi come tali ceti dominanti, al di là di alcune prese di posizione verbali, siano in realtà indirizzati verso la continuazione dell’attuale organizzazione economica e sociale.

Il primo esempio si può trarre dalle vicende della zona artica [17]. È noto infatti che il cambiamento climatico, molto più accentuato in quella zona che nel resto del pianeta, ne sta cambiando in maniera radicale le condizioni, fra le altre cose offrendo opportunità di sfruttamento economico prima inesistenti. Facciamo riferimento in particolare alla disponibilità di giacimenti di petrolio e gas naturale, fino ad ora inattingibili per le condizioni climatiche avverse, e al fatto che la fortissima diminuzione dei ghiacci polari rende praticabile la via artica per le navi commerciali, con notevoli vantaggi economici. È evidente che entrambe queste prospettive vanno nella direzione contraria a quella che sarebbe necessario percorrere: se si volesse evitare la crisi climatica, i combustibili fossili andrebbero lasciati dove sono, e gli scambi commerciali su lunghe distanze diminuiti, non aumentati. Al contrario, non solo i vari paesi del grande Nord si stanno attrezzando per lo sfruttamento di queste risorse, ma sta anzi nascendo una certa competizione fra di essi, che potrebbe portare a momenti di tensione e forse a scontri militari [18].

Un altro esempio di iniziative economiche che vanno nella direzione distruttiva di un sempre maggiore aumento degli scambi mercantili è quello del grande progetto di costruzione di infrastrutture impostato dalla Cina, che va sotto il nome di “Road and Belt Initiative”[19].

L’esempio migliore dell’impossibilità, per gli attuali ceti dominanti, di impostare realmente il radicale cambiamento che sarebbe necessario per impedire un rovinoso crollo di civiltà, è probabilmente rappresentato dall’attuale tendenza a progettare la vita di colonie umane nello spazio, e in particolare sul pianeta Marte. Si tratta di un tema che sembra colpire l’immaginazione collettiva. Ciò è legato naturalmente al fatto che il nostro immaginario è stato a lungo nutrito dalle narrazioni fantascientifiche. Queste suggestioni sembrano seriamente perseguite sia da enti pubblici sia da imprese private. Vale quindi la pena di discutere brevemente la prospettiva della creazione di colonie umane su Marte. La mia personale opinione è che si tratti di una impresa assurda, nelle condizioni attuali. Per esprimermi in maniera netta, mi sembra una follia. Marte presenta un ambiente totalmente inadatto alla vita umana: c’è una atmosfera estremamente rarefatta, con pochissimo ossigeno, le temperature sono gelide (la temperatura media varia fra -120 e -14 gradi centigradi). Eventuali esseri umani ivi presenti dovrebbero vivere costantemente all’interno di strutture protette, e dipenderebbero completamente, almeno all’inizio, dai rifornimenti in arrivo dalla Terra. Il punto fondamentale è la situazione sul nostro pianeta, la Terra. Se è vero che presto l’umanità dovrà fronteggiare crisi gravissime, è chiaro che tutte le risorse, sempre più scarse, dovranno essere utilizzate per fronteggiare queste crisi, e appaiono allora completamente assurdi gli enormi investimenti che sarebbero necessari per concretizzare il progetto di colonie umane su Marte. L’obiezione a questo argomento si basa sul fatto che la ricerca spaziale ha avuto in passato ricadute tecnologiche di vario tipo, utili alla società. Tale argomento ha una base oggettiva, ma non mi sembra sufficiente a rendere ragionevole la prospettiva delle colonie umane nello spazio o su Marte. La base oggettiva dell’argomento sta nel fatto che, come si è detto, nel passato si sono avute simili ricadute tecnologiche. Ma c’è molto di più, non si tratta solo di un dato di fatto empirico: esso deriva da una caratteristica profonda e importante della ricerca scientifica e tecnologica, cioè dalla sua imprevedibilità. La ricerca scientifica è un’attività creativa, e nessuno può sapere, all’inizio di una ricerca, cosa si otterrà alla fine. Da questo però discendono due conseguenze: in primo luogo, l’imprevedibilità dei risultati della ricerca implica che la ricerca spaziale può avere ricadute esterne, ma può anche non averne; in secondo luogo, l’imprevedibilità vale sempre, in particolare vale anche per una ricerca scientifica specificamente indirizzata ad affrontare i problemi ecologici attuali e futuri della Terra. Con questo si vuol dire che è anche possibile che una ricerca del tipo appena indicato abbia ricadute esterne, per esempio per la ricerca spaziale. Quindi la scelta è fra una ricerca scientifica e tecnologica indirizzata allo spazio, che potrebbe avere ricadute utili per la Terra ma potrebbe anche non averne, e una ricerca indirizzata a risolvere i problemi della Terra, che potrebbe avere ricadute utili per la ricerca spaziale, o forse in altre direzioni ancora, o potrebbe non averne. Data la drammaticità della situazione attuale, e le cupe prospettive che attendono l’umanità, in una situazione di emergenze crescenti cui far fronte con risorse calanti, non dovrebbero esserci dubbi su quale sia la scelta più razionale. Quanto fin qui detto può sembrare astratto, ma gli argomenti che sto criticando vengono effettivamente usati per giustificare i progetti “spaziali”. Ad esempio, in una intervista ad una ricercatrice italiana impegnata alla NASA su tali progetti [20], si legge che “le ricerche che sto portando avanti sono tutte applicabili al contesto terrestre e possono fornire soluzioni per arginare il cambiamento climatico: per vivere su Marte, infatti, dobbiamo minimizzare lo spreco di risorse, mentre qui sulla Terra si fa l'opposto”. Riprendendo le osservazioni fatte sopra, si può obbiettare, in primo luogo, che soluzioni tecniche valide su Marte potrebbero non essere valide sulla Terra, data l’enorme diversità delle condizioni ambientali; in secondo luogo, visto che l’umanità ha bisogno delle soluzioni terrestri e non di quelle marziane, non sarebbe più logico investire risorse per cercare le prime invece che le seconde? Il ragionamento della ricercatrice è che le soluzioni marziane saranno valide anche sulla Terra. Ma se questo è vero, vale anche il viceversa: le soluzioni terrestri saranno valide su Marte, e allora è meglio cercare direttamente quelle terrestri, visto che è di queste che abbiamo bisogno.

Dopo aver mostrato la debolezza di queste argomentazioni a favore dei progetti di colonie umane su Marte, possiamo portare alcune argomentazioni contrarie a tale idea. Il punto è semplice e può essere spiegato brevemente: la crisi che la nostra civiltà dovrà fronteggiare a breve ha profonde radici nella natura stessa della nostra organizzazione sociale, nel capitalismo. Se questo è chiaro, appare del tutto assurda l’idea di poter risolvere i nostri problemi trasportando su Marte quegli stessi rapporti sociali che sono alla radice dei problemi sulla Terra. I capitalisti su Marte non potranno che ricreare ivi il capitalismo, riproducendo quindi le stesse dinamiche autodistruttive che stanno portando al collasso la nostra attuale civiltà.

Questo esempio conclusivo ci mostra perché non c’è speranza che siano gli attuali ceti dirigenti globalizzati a dirigere il superamento del capitalismo che appare oggi necessario. Lungi dal voler superare il capitalismo sulla Terra, stanno cercando di portare il capitalismo su Marte.


5. Non c’è mai stata nessuna rivoluzione

Visto che i ceti dominanti sembrano decisi, al di là di qualche concessione verbale, a proseguire sulla strada del “business as usual”, ci si può chiedere se la speranza di un cambiamento radicale possa basarsi sui ceti dominati, che dopotutto pagheranno per primi e in maniera più pesante il prezzo delle crisi future. Ci chiediamo cioè se è pensabile oggi una rivoluzione anticapitalistica dei ceti subalterni.

È inevitabile, per una simile discussione, confrontarsi col significato che “rivoluzione degli sfruttati” ha nella tradizione marxista. Mi sembra che questo significato possa riassumersi nel seguente schema di eventi: i ceti subalterni, in particolare i lavoratori vittima di sfruttamento, esprimono una forza politica che riesce a prendere il potere e avvia una profonda trasformazione della struttura economica della società, che si configura come un cambiamento del “modo di produzione”, impostando e gestendo il superamento del modo di produzione capitalistico e l’instaurazione di una società socialista, cioè basata sulle fondamenta di un modo di produzione appunto socialistico (qualsiasi cosa ciò voglia dire). Questo sarebbe lo schema generale di una “rivoluzione” da parte dei ceti subalterni.

Nella situazione attuale, di fronte all’emergenza delle crisi planetarie ormai incombenti, il “socialismo” di cui si parla dovrebbe essere una forma di “ecosocialismo” del tipo cui si è accennato all’inizio, cioè dovrebbe avere come fine fondamentale una organizzazione della vita sociale tale da fermare il processo di autodistruzione della società umana, che è inevitabile all’interno dei rapporti sociali attuali. Un tale socialismo non potrà quindi perseguire la crescita economica e l’aumento dei consumi come fini in sé ma dovrà sforzarsi di assicurare un livello decente di vita per tutti gli individui, senza spingere lo sfruttamento delle risorse oltre i valori necessari ad ottenere ciò.

La domanda da porsi è allora quanto sia realistica una simile prospettiva. Per quanto riguarda tutto il periodo precedente al Novecento, mi sembra si possa affermare che la sequenza di eventi sopra delineata non si è mai vista, e in questo senso di può affermare che “non c’è mai stata nessuna Rivoluzione” (almeno fino al Novecento). Quest’ultima affermazione ha senso, naturalmente, solo se intendiamo “rivoluzione” nel senso sopra indicato. È ovvio che la parola Rivoluzione è molto usata per descrivere una grande congerie di fatti storici, anche molto diversi fra loro. Quello che intendo dire è che in nessun caso si è data, prima del Novecento, una successione di fatti paragonabile a quella sopra delineata. Voglio dire che non s’è mai vista nella storia una presa del potere da parte dei ceti subalterni, o di loro rappresentanti politici, seguita dall’uso del potere così conquistato per avviare un effettivo cambiamento del modo di produzione, cioè della fondamentale struttura della società.

Se pensiamo ai principali casi storici di mutamento del modo di produzione (per esempio il passaggio dal mondo antico al mondo feudale), tali profondi cambiamenti strutturali non sono il risultato intenzionale di progetti politici e azioni politiche, ma nascono da complesse dinamiche storiche largamente sottratte ad una intenzionalità complessiva. In altri casi (tipico quello della Rivoluzione francese) una tale intenzionalità esiste ed effettivamente agisce e produce risultati storici, ma non è espressione degli sfruttati (che nell’Ancién Regime sono i contadini) ma della borghesia, che rappresenta un ceto in un certo senso “interstiziale” rispetto alla struttura feudale. In altri casi ancora (di nuovo si può prendere come esempio il Giappone della fase Meiji) il mutamento è opera dei ceti dirigenti (o di una loro parte). Per quanto riguarda il periodo storico precedente il Novecento mi sembra che in effetti si possa concludere che “non c’è mai stata nessuna rivoluzione”.

La questione diventa più complessa e sfumata se esaminiamo la storia del Novecento. Mi sembra che gli unici casi storicamente rilevanti da esaminare siano quelli della rivoluzione russa e della rivoluzione cinese. Gli altri esempi di rivoluzioni socialiste del Novecento non hanno avuto un impatto storicamente rilevante al di fuori dei propri confini, e in molti casi appaiono dipendenti dalle due grandi rivoluzioni sopra indicate: questo è il caso, per esempio, dei regimi socialisti dell’Europa dell’Est, impiantati nei vari paesi dalla forza militare sovietica e crollati subito dopo l’URSS.

Ora, per quanto riguarda la Rivoluzione d’Ottobre, il discorso da fare è molto semplice: essa non ha avviato un simile cambiamento, e la fine ingloriosa del “socialismo reale” ne è la certificazione. Preciso che non intendo qui discutere il tema, affascinante e complicato, della “natura sociale dell’URSS” (e in generale, del “socialismo reale”). Intendo semplicemente dire che si è trattato di un esperimento sociale che non ha saputo radicarsi nella storia e non ha quindi indotto una trasformazione complessiva e storicamente rilevante dei fondamenti della società.

Per quanto riguarda la Cina, al momento attuale essa appare l’evento storico del Novecento più simile ad una rivoluzione, nel senso in cui l’abbiamo sopra definita: abbiamo cioè un ceto dirigente che esprime certamente le istanze di larghe fasce popolari, conquista il potere politico abbattendo i precedenti ceti dominanti e avvia una trasformazione dei fondamenti economici della società: un autentico cambiamento del modo di produzione. Il punto è se questa trasformazione vada nella direzione di un “ecosocialismo” che, come abbiamo detto all’inizio, rallenti e inverta il procedere dell’umanità verso la distruzione della natura e il collasso sociale. Ebbene, sembra abbastanza chiaro che la società cinese, qualunque sia la sua natura, non sta andando nella direzione auspicabile, ma sta semplicemente inseguendo le società occidentali sul terreno di uno sviluppo economico distruttivo [21]. Data la forza dell’economia cinese, e la sua potenza demografica, la società cinese si avvia ad essere uno dei principali fattori della crisi ecologica ormai avviata.

I critici marxisti dell’esperienza cinese, e in generale del “socialismo reale”, potrebbero obbiettare che in questo caso non si tratta di “vero socialismo”. Ma la risposta allora è molto semplice: o i regimi del “socialismo reale” sono (o erano) effettiva espressione dei ceti subalterni, e allora non c’è da sperare che da tali ceti arrivi il cambiamento in senso ecologico della società; oppure non lo sono (non lo erano), ma allora questo vuol dire che i ceti subalterni non si sono mai dimostrati capaci di avviare una trasformazione profonda come quella oggi necessaria, e la tesi che “non c’è mai stata nessuna rivoluzione” in questo caso sarebbe valida anche per il Novecento.

Le considerazioni fin qui svolte di per sé non annullano la possibilità di una futura rivoluzione ecosocialista. Il fatto che finora una tale eventualità non si sia data, non sembrerebbe proibire in assoluto che essa possa darsi in futuro. Credo invece che questa eventualità si possa escludere, e questo, mi sembra, emerge con chiarezza se riflettiamo sul perché in passato non c’è mai stata nessuna rivoluzione. È chiaro a tutti, infatti, che i ceti subalterni, i lavoratori ai livelli inferiori della società, sono stati sempre in grado di ribellarsi e di lottare per la difesa dei propri diritti. In ogni società data il ruolo del lavoratore produttivo fornisce un ruolo e un riconoscimento sociale, un senso della propria dignità e dei propri diritti (per quanto ristretti e limitati dalle tradizioni), una rete di relazioni, una potenziale capacità di solidarietà interna al proprio ceto. Tutti questi elementi rendono possibile la lotta di gruppi sociali ampi e solidali, quando le vicende storiche mettono in questione quelli che i ceti subalterni considerano diritti irrinunciabili. Di qui le rivolte, le sollevazioni, gli scioperi, che hanno punteggiato l’intera storia umana, almeno da quando esistono classi sociali differenziate per potere e status sociale. Il punto cruciale è però il seguente: gli elementi che abbiamo sopra elencato, e che rappresentano le condizioni di possibilità di rivolte e ribellioni da parte dei lavoratori sfruttati, sono esattamente ciò che spiega perché sia impossibile una autentica rivoluzione da parte di questi ultimi. Infatti essi sono elementi di forza, di solidarietà, di senso, che possono esistere solo all’interno dei rapporti di produzione dati; distruggere i rapporti di produzione dati significa quindi cancellare tutti quegli elementi che rendono possibili le rivolte dei ceti subalterni. Pensare che una rivolta possa crescere fino ad arrivare ad un punto di svolta che neghi le proprie stesse condizioni di possibilità mi sembra contraddittorio. E se questo è vero per le lotte dei lavoratori sfruttati in tutta la storia, è ancora più vero nelle società capitalistiche, specie nella contemporaneità. La classe operaia, la classe produttiva e sfruttata nel modo di produzione capitalistico, ha ancora meno capacità rivoluzionarie (nel senso sopra indicato) delle altre classi sfruttate della storia, perché è minore la sua capacità di controllo del processo produttivo. I contadini medievali controllano l’intero processo produttivo, e il dominio che si esercita su di essi è esterno alla sfera produttiva vera e proprio. Gli operai nel capitalismo sono continuamente espropriati delle loro competenze e ruoli produttivi da un processo di innovazione tecnologica e produttiva sempre più veloce, che impedisce la sedimentazione di conoscenze, di potenzialità di controllo da parte dei lavoratori [22]. Certo, ad ogni nuova fase tecnologico-produttiva del capitale la lotta operaia risorge in nuove forme, ma tali lotte manifestano sempre la stessa incapacità storica di crescere in moti rivoluzionari (a costo di generare noia nel lettore, ribadisco ancora una volta che parlando di “rivoluzione” mi riferisco al senso specifico sopra indicato). Così, negli ultimi decenni si è teorizzato il “capitalismo cognitivo” e si è pensato che il corrispondente nuovo “proletariato cognitivo” fosse finalmente il soggetto sociale capace di gestione complessiva della società. Ovviamente non è andata così [23]: al contrario, tutto il sapere della nostra epoca, compreso quello del “proletariato cognitivo”, è specialistico, frammentato e in via di sempre ulteriore frammentazione, incapace di una visione complessiva, e il “proletariato cognitivo” ricalca l’individualismo e l’accettazione dell’esistente, tipico delle ideologie oggi dominanti. Il dominio del capitale e l’incapacità dei ceti subalterni di opporsi ad esso è legato al fatto che la sussunzione di ambiti sociali sempre più ampi alla logica del capitale genera un processo di trasformazione continua delle relazioni fra le persone, di “distruzione creativa” del legame sociale. Di conseguenza, non riescono a sedimentarsi quei legami di solidarietà che in passato hanno rappresentato la base antropologica delle lotte degli sfruttati. Invece di essere unificati dalla condizione di lavoratori produttivi, gli sfruttati si appiattiscono sui modelli antropologici funzionali all’attuale strutture sociale. In altri termini, se in passato “non c’è mai stata nessuna rivoluzione”, è ancora più improbabile che essa si dia oggi.


6. Sussunzione al capitale e distruzione del legame sociale

Le argomentazioni svolte nelle righe che precedono rimandano all’idea che il capitalismo attuale sia spinto da una dinamica che lo porta ad estendere la propria logica all’intero complesso della società, e che questa “sussunzione” porti alla dissoluzione del legame sociale. Si tratta di una tematica ampia e complessa, che non possiamo approfondire in questa sede. Rimando per approfondimenti ai testi di Massimo Bontempelli [24]. Mi limito qui a riprendere alcune osservazioni di W.Streeck [25], che nota come, nel secondo dopoguerra, la società del benessere diffuso abbia avuto come modello antropologico fondamentale quello del consumatore, e come entro tale modello l’interazione dialogica, che è fondamento della socialità umana, diventi secondaria: “questo perché in una società affluente avanzata, comprare qualcosa non implica nient’altro che prendere ciò che ti piace di più (e che ti puoi permettere) da ciò che, in linea di principio, è un menù infinito di alternative che attendono la tua decisione, senza nessun bisogno di negoziare o cercare compromessi, come si doveva fare all’interno delle relazioni sociali tradizionali. (…) La socializzazione tramite il consumo, di conseguenza, è monologica piuttosto che dialogica (p.110)” [26].

Se accettiamo queste analisi, siamo fortemente indotti a pensare che il dominio tendenzialmente totalitario della logica capitalistica debba portare alla distruzione del legame sociale, ad una atomizzazione degli individui sempre più approfondita. È facile allora concludere che la nostra società di individui isolati, incapaci di relazioni comunitarie, il cui modello fondamentale di relazione col mondo è quello del consumatore, può esistere solo grazie al rifornimento costante di merci. Cosa possa succedere se questo flusso dovesse interrompersi, lo ha ben descritto D.Orlov [27], articolando con molta chiarezza il susseguirsi di vari stadi di crisi fino alla dissoluzione finale della società così come oggi la conosciamo. Se guardiamo ai recenti avvenimenti che hanno sconvolto gli USA, con l’invasione di Capitol Hill da parte di manifestanti pro-Trump, la disgregazione del legame sociale appare con molta evidenza. Ovviamente tali avvenimenti sono solo la punta dell’iceberg di una frattura sociale estremamente profonda e, così sembra, ormai radicata in profondità nella società americana. Non possiamo prevedere il futuro, naturalmente, ma gli USA sembrano rappresentare l’avanguardia di una disgregazione che arriverà a toccare l’intero Occidente, che non sembra possedere anticorpi contro tale processo degenerativo.

Da questo punto di vista sembrerebbe che società meno individualiste della nostra, come quelle orientali, possano resistere meglio. Il punto è che anche tali società hanno accettato l’aspetto fondamentale del nostro mondo, cioè il fatto di basare la propria legittimazione sulla crescita del PIL e dei consumi, e di fronte all’impossibilità di proseguire su questa strada si troveranno di fronte a problemi non troppo diversi da quelli che oggi affliggono gli USA.

L’intero nostro mondo globalizzato dovrà affrontare un percorso come quello descritto da Orlov nel libro citato. Solo alla fine di questo percorso distruttivo, solo quando diventeranno adulte generazioni che avranno sperimentato sulla propria pelle l’insostenibilità ecologica e antropologica della società attuale, solo allora si potrà ripartire dalle macerie e iniziare a ricostruire forme di convivenza.


7. Impotenza ed illusioni della critica

La nozione, introdotta nella sezione precedente, di una diffusione molecolare della logica capitalistica in ogni ambito della società, e nella stessa costituzione della personalità umana, mi sembra in grado di fornire uno schema generale di comprensione della realtà attuale. In particolare essa ci illumina sull’impotenza e le illusioni del pensiero critico. Il punto decisivo è che le tante correnti attuali del pensiero critico appaiono, da molti punti di vista, subalterne rispetto alle categorie del dominio totalitario del capitale nella realtà contemporanea. Sembra valida qui l’osservazione di Hegel secondo il quale “un partito si rivela dunque come vincitore solo perché si scinde a sua volta in due partiti; così, infatti, esso mostra di possedere in se stesso il principio che prima combatteva”[28].

Parlando di “impotenza” non intendo dire che queste teorizzazioni siano del tutto inutili o sbagliate. L’ambito del “pensiero critico” nel mondo contemporaneo è amplissimo e include le idee e teorizzazioni più diverse. Vi si può trovare un po’ di tutto, e certamente vi sono anche elaborazioni importanti e approfondite, dalle quali fra l’altro chi scrive ha imparato molte cose. Intendo piuttosto dire che il pensiero critico è largamente incapace di focalizzare i punti fondamentali del dominio tendenzialmente totalitario del capitale, e non appare quindi in grado di elaborare una strategia politica incisiva [29]. A questa impotenza esso risponde coltivando illusioni sulla capacità dei ceti subalterni di combattere la distruttività del capitale, e abbiamo già discusso questa illusione. Proviamo adesso a illustrare queste tesi esaminando alcuni aspetti del pensiero critico attuale. Una sua analisi accurata richiederebbe ovviamente un lavoro a sé, per cui ci limitiamo a qualche esempio.

È noto che una delle tesi fondamentali del marxismo, inteso come teoria della rivoluzione, è quella secondo cui il capitalismo genera al proprio interno la classe sociale destinata ad abbatterlo e a costruire al suo posto la superiore società socialista. Questo assunto fondamentale porta a conseguenze complesse. Esso implica una visione articolata dello sviluppo capitalistico: da una parte quest’ultimo è chiaramente sfruttamento e alienazione (e distruzione dell’ambiente, possiamo aggiungere oggi), ma dall’altra porta con sé un elemento di progresso perché è da esso che nasce e si sviluppa la classe autenticamente rivoluzionaria. Non è questo luogo per ricostruire la storia, complessa e affascinante, dei dibattiti che attorno a questi temi si sono svolti, all’interno del marxismo. Il punto cruciale sta in questo: mi sembra possibile oggi argomentare, come si è fatto sopra, che la creazione della classe rivoluzionaria all’interno dello sviluppo capitalistico è un mito consolatorio con il quale generazioni di benintenzionati militanti si sono consolati delle proprie sconfitte. Ma se si toglie questo elemento, cosa resta della raffinata dialettica cui si è accennato? Cosa diventa il particolare “appoggio critico allo sviluppo capitalistico” che generazioni di marxisti hanno scelto come strategia, sperando di affrettare così il passaggio rivoluzionario? La risposta è abbastanza ovvia: resta semplicemente l’appoggio allo sviluppo capitalistico, spogliato di orpelli ideologici. Il fatto che si tratti di una conseguenza logica stringente lo si evince facilmente notando come tale deriva riguardi tutte le varie anime della sinistra, sia quella “moderata” sia quella “radicale”: nella prima l’adesione allo sviluppo capitalistico, con le sue conseguenze distruttive dei legami sociali e della natura, è piena e convinta, mentre l’idea di un superamento del capitalismo stesso è ormai rimossa; nella sinistra radicale permane il “wishful thinking” tipico del marxismo, per cui, quando si cercano vie effettive per l’azione politica, si finisce sempre per appoggiare le politiche filocapitalistiche della sinistra liberale, e ci si nasconde questo appoggio sostanziale con l’elaborazione ideologica che lo sviluppo capitalistico favorirà il sorgere di soggettività antagonistiche [30].

Questo tipo di evoluzione ideologica si è estesa a ogni ambito di quello che oggi si pretende “pensiero critico”, anche quando non abbia rapporti diretti con la tradizione marxista. Per esempio, essa è chiaramente percepibile in quelle correnti che oggi vengono raggruppate sotto l’etichetta di “accelerazionismo” [31]. Tali correnti mostrano con chiarezza il limite del pensiero critico contemporaneo: esso crede di essere alternativo al capitalismo ma in realtà ne è egemonizzato, perché non fa altro che esprimere, in maniera diversa rispetto al pensiero mainstream, la stessa esigenza di fondo, cioè quella di continuare sulla strada dello sviluppo capitalistico. Si capisce allora quale sia la funzione di tale pensiero, e perché ad esso si lasci largo spazio nell’industria culturale contemporanea: la sua funzione è appunto quella di occupare, all’interno del mondo contemporaneo, lo spazio dell’opposizione e della critica al pensiero dominante, in maniera da rendere questo spazio innocuo e da impedire la possibilità di elaborazione di un pensiero veramente critico. È questo l’aspetto fondamentale di tutte le correnti del pensiero contemporaneo che si possono classificare sotto la generica etichetta di “postmodernismo”: esso non fanno che riscrivere sul piano teorico quello che il capitalismo fa sul piano pratico (per esempio la dissoluzione della soggettività, lo svuotamento della dimensione politica), suggellando quindi la dimensione attuale del potere con i caratteri dell’intrascendibilità. In questo modo, come si diceva, lo spazio di un possibile pensiero critico viene occupato da innocue affabulazioni.

Un altro aspetto di illusione e impotenza del pensiero critico contemporaneo sta nella speranza che la crisi incipiente dell’attuale civiltà possa portare al superamento dell’individualismo estremo che la caratterizza e alla nascita di un mondo basato su comunità solidali. Si tratta di un’idea generale che si può ritrovare anche nelle teorizzazioni ecosocialiste citate all’inizio. Ora, non si può escludere a priori una evoluzione in questo senso, almeno in qualche situazione, ed è molto probabile in effetti che il collasso futuro porterà al superamento dell’attuale individualismo e all’instaurarsi di organizzazioni sociali fondate su cellule di tipo comunitario. Il problema è che, purtroppo, niente assicura che questo avverrà nel rispetto della vita e dei diritti delle persone. Se è vero infatti che la dimensione comunitaria ha un carattere fondativo dell’umanità dell’essere umano, questo non implica che ogni comunità sia un ambiente benevolo per la vita umana. Anche la relazione sessuale è una dimensione fondativa della nostra umanità, ma questo non toglie che vi possano essere relazioni distruttive e malate (“tossiche”, come si dice adesso). Allo stesso modo vi possono essere comunità “tossiche”, malate, distruttive. E niente ci garantisce che questo tipo di comunità sia escluso come possibile esito della futura crisi di civiltà. Specialmente tenendo in considerazione le condizioni drammatiche in cui avverrà tale crisi e il passaggio a nuove forme di organizzazione sociale. Il collasso sociale generalizzato, con il suo portato di penuria e violenza, non è l’ambiente migliore per la costruzione di relazioni umane serene, rispettose e costruttive.

Vi sarebbero ovviamente da esaminare molti altri aspetti del pensiero critico contemporaneo, per esempio la questione del “politicamente corretto”: per alcune analisi su questo tema rimando a miei precedenti interventi [32], ripromettendomi di tornare su di esso in futuro.


8. Niente, oppure tutto.

Siamo giunti alla fine di questa esposizione degli argomenti che mi portano ad affermare che “ha vinto la barbarie” e che lo sviluppo più probabile della nostra realtà sociale sia quello che la porterà, nei prossimi decenni, ad un collasso generalizzato. È inevitabile che chi sviluppa queste argomentazioni si senta obiettare che esse sembrano invitare alla rassegnazione e alla smobilitazione: se non è più possibile evitare il collasso, a che servono proteste e manifestazioni? È questo il tema al quale nella tradizione marxista si allude con l’espressione “Che fare?”, titolo di un romanzo dello scrittore russo Cernisevskij, poi ripreso da Lenin per un suo celebre testo. Cosa c’è da fare, qui ed ora? La risposta è semplice ma duplice: niente, oppure tutto. Dipende naturalmente da quali fini ci si propone. Se si pensa di evitare il crollo rovinoso dell’attuale civiltà, allora non c’è davvero niente da fare, per i motivi sui quali ci siamo fin qui dilungati. Ma se si prende atto di questa inevitabilità, allora si capisce che in realtà c’è tutto da fare. Si tratta di salvare quanto più possibile, fra ciò che riteniamo degno di essere salvato, e di portarlo all’imprevedibile futuro. Non possiamo sapere quale sarà la forma di relazioni umane che si instaureranno dopo il collasso, ma in qualche modo esse dovranno costruirsi, come è sempre stato in questi casi, a partire dai materiali disponibili della civiltà precedente. E sta a noi cercare di consegnare al futuro quanto più possiamo della nostra civiltà. Pensieri, diritti, opere d’arte, opere letterarie, musica, scienza, le Costituzioni democratiche, lingue, forme di socializzazione, cibi, i tesori delle civiltà del passato, e così via. C’è davvero un enorme lavoro da fare. Dobbiamo portare al futuro i mattoni con cui i nostri discendenti possano costruire un mondo più sensato.



Note


[1] “La società borghese si trova davanti a un dilemma, o progresso verso il socialismo o regresso nella barbarie”. Si tratta di un passo da “La crisi della socialdemocrazia”, testo scritto in carcere nel 1915, che cito da R.Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti 1974, p.447. Luxemburg attribuisce lo slogan a Friedrich Engels, ma sembra si tratti di un errore di memoria, dovuto al fatto che in carcere non poteva controllare i testi. La formula risale invece a Karl Kautsky, ma è solo grazie alla vigorosa formulazione di Rosa Luxemburg che essa è diventata famosa. La vicenda di questo “riferimento sbagliato” è analizzata nel seguente articolo di Ian Angus:

https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/02/22/le-origini-dello-slogan-socialismo-o-barbarie-di-rosa-luxemburg/

Ian Angus è lo stesso teorico ecosocialista autore del testo citato alla nota [4].


[2] In particolare: http://www.badiale-tringali.it/2016/01/la-grande-estinzione-delle-speranze-i.html,

http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html,

http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html


[3] http://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html#comment-form, in particolare la sezione III.


[4] I.Angus, Anthropocene, Asterios 2020; D.Tanuro. È troppo tardi per essere pessimisti, Alegre 2020; F.Magdoff, J. Bellamy Foster, What every environmentalist needs to know about capitalism, Monthly Review Press 2011; J.Bellamy Foster, B.Clark, R.York, The ecological rift, Monthly Review Press 2010; F.Magdoff, C.Williams, Creating an ecological society, Monthly Review Press 2017.


[5] J.Tainter, The collapse of complex societies, Cambridge University Press 1988. Il collegamento con le preoccupazioni attuali sulla sorte della nostra civiltà è indicato già nelle prime pagine dell’introduzione.


[6] P.Servigne, R.Stevens, Comment tout peut s’effondrer, Seuil 2015.


[7] Il sito è https://collapsologie.fr/fr/ Vi si può trovare una bibliografia aggiornata sia di libri sia di articoli scientifici. La rivista ha come titolo “Yggdrasil” (nelle mitologie nordiche, è il nome dell’albero cosmico), si può consultarne il sito: https://yggdrasil-mag.com/. Fra i molti libri francesi sull’argomento si possono leggere, oltre al testo fondamentale di Servigne-Stevens citato alla nota precedente, i testi seguenti: J.M.Gancille, Ne plus se mentir, Rue de l’échiquier 2019; P.Servigne, R.Stevens, G.Chapelle, Une autre fin du monde est possible, Seuil 2018 (tr.it. Un’altra fine del mondo è possibile, Treccani 2020); Y.Cochet, Devant l’effondrement. Les liens qui libèrent 2019; R.Duterme, De quoi l’effondrement est-il le nom? Les Éditions Utopia 2018.


[8] Sul tema dei rendimenti decrescenti si può vedere M.Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri 2013, in particolare il capitolo 3.


[9] Per una discussione approfondita della nozione di EROEI si veda C.A.S.Hall, K.Klitgaard, Energy and the wealth of nations, Springer 2018, in particolare la sezione V.


[10] Il rapporto del Club di Roma risale al 1972. In Italia venne tradotto col titolo “I limiti dello sviluppo”. Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione italiana, con un titolo più aderente all’originale: D.H.Meadows, D.L.Meadows, J.Randers, W.W.Behrens III, I limiti alla crescita, Lu::Ce Edizioni 2018.

Nel testo faccio però riferimento alla versione rivista e aggiornata, uscita a trent’anni di distanza dal primo volume. L’edizione italiana è la seguente: Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori 2006. Si veda in particolare il capitolo 6, nel quale si ipotizzano futuri miglioramenti tecnologici che permettono di procrastinare un poco il collasso dell’attuale organizzazione sociale.


[11] Rockström, J., W. Steffen, K. Noone, Å. Persson, F. S. Chapin, III, E. Lambin, T. M. Lenton, M. Scheffer, C. Folke, H. Schellnhuber, B. Nykvist, C. A. De Wit, T. Hughes, S. van der Leeuw, H. Rodhe, S. Sörlin, P. K. Snyder, R. Costanza, U. Svedin, M. Falkenmark, L. Karlberg, R. W. Corell, V. J. Fabry, J. Hansen, B.Walker, D. Liverman, K. Richardson, P. Crutzen, J. Foley

Planetary boundaries:exploring the safe operating space for humanity.

Ecology and Society 2009, 14(2): 32.

URL: http://www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32/


Gli stessi autori hanno anche pubblicato su Nature una versione più breve:

A safe operating space for humanity

Nature, 461, 24 September 2009, p.472-475.


[12] W. Steffen et al., Science 347, 1259855 (2015). DOI: 10.1126/science.1259855;

Si veda anche J.Rockström, “Bounding the Planetary Future: Why We Need a Great Transition,” Great Transition Initiative (April 2015).


[13] Alcuni interventi relativi alle discussioni sulla “stagnazione secolare” sono raccolti in F.Menghini (cura di), La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto (goWare 2018). Si veda anche S.Das, The Age of Stagnation (Prometheus Books 2016).


[14] Non abbiamo per esempio citato il pericolo di nuove epidemie globali, dopo quella generata dal virus SARS-CoV-2 che sta tuttora colpendo in tutto il mondo. Ricordo solo, in maniera telegrafica, che, qualunque sia l’origine dell’attuale pandemia, la probabilità del diffondersi di questo tipi di flagelli è collegata a specifici aspetti della nostra organizzazione economica e sociale, in particolare l’invasione di sempre nuove aree di foresta tropicale e la diffusione dei viaggi intercontinentali. Sul tema si veda il seguente testo, che in seguito all’epidemia ha conosciuto un meritato successo : D.Quammen, Spillover, Adelphi 2014.


[15] J.Diamond. Collasso, Einaudi 2014. Si veda anche: Id., Crisi, Einaudi 2019.


[16] G.D.Middleton, Understanding collapse, Cambridge University Press, 2017.


[17] P.Wadhams, Addio ai ghiacci, Bollari Boringhieri 2017;


[18] Si vedano J.M.Valantin, Géopolitique d’une planète déréglée, Seuil 2017, cap.3; M.T.Klare, All hell breaking loose, Henry Holt and Company 2019, cap.5.


[19] Sulla “Belt and Road Intiative” (nota in italiano come “Nuova Via della Seta”) si veda la voce di wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Belt_and_Road_Initiative, ed anche il cap.4 del testo di J.M. Valantin citato alla nota precedente. Recentemente si è avanzato il sospetto che il governo cinese stia ridimensionando l’iniziativa: https://www.linkiesta.it/2020/12/cina-nuova-via-seta-financial-times-prestiti-banca/


[20] https://www.huffingtonpost.it/2018/01/31/valentina-sumini-sono-un-cervello-in-fuga-e-al-mit-progetto-un-citta-su-marte-spero-di-tornare-ma-allitalia-mancano-i-mezzi_a_23345307/


Altre interviste e articoli su questi temi:


https://www.primonumero.it/2021/01/una-citta-su-marte-la-nasa-sceglie-il-progetto-dellarchitetto-campobassano-calabrese/1530647364/


https://www.corriere.it/cronache/20_ottobre_08/candidata-italiana-guida-dell-esa-dallo-spazio-soluzioni-un-futuro-sostenibile-terra-8aca3880-09a1-11eb-86e2-3854c59f54db.shtml


J.Proschold, Due architetti sulla Luna, Internazionale 1372, 21 agosto 2020, p.54.


[21] Si veda R.Smith, China’s engine of environmental collapse, Pluto Press 2020, per una rassegna approfondita dei disastri ecologici derivati dal poderoso sviluppo economico cinese.


[22] Le analisi e le discussioni dei marxisti su questi temi riempiono intere biblioteche. Poiché non mi interessa addentrarmi in queste discussioni, ma solo rimarcare il concetto di base che ho espresso, mi limito a rimandare a un testo riconosciuto come un “classico” della riflessione marxista: H.Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi 1978.


[23] Per una approfondita critica alle tesi ottimistiche sul “proletariato cognitivo” si vedano i testi di Carlo Formenti: C.Formenti, Utopie letali, Jaca Book 2013; Id. Felici e sfruttati, Egea 2011; Id., Cybersoviet, Cortina 2008.


[24] Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”:

https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1503-massimo-bontempelli-capitalismo-sussunzione-nuove-forme-della-personalita.html

e inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità antropologiche”, pagg.49-62.


[25] W.Streeck, How will capitalism end? Verso 2016.


[26] Mia la traduzione. (M.B.)


[27] D.Orlov, The five stages of collapse, New Society Publishers 2013


[28] G.W.F Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi 1995, pag.773. Hegel sta parlando qui dell’Illuminismo.


[29] Questo, per fare un esempio, è uno dei limiti evidenti dei testi ecosocialisti citati nella nota [4]: essi contengono analisi incisive della società contemporanea e interessanti abbozzi di una possibile società ecosocialista, ma mancano completamente di una strategia politica effettiva. Spero che quanto argomento nel testo chiarisca che considero questo fatto non una mancanza degli autori ma una conseguenza inevitabile della realtà data.


[30] Per ulteriori osservazioni su questi punti rimando al mio intervento citato nella nota [3].


[31] A.Williams, N.Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza 2018.


[32] http://www.badiale-tringali.it/2020/03/la-commissione-dellamore-e-la-fine-del.html,

http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html,

http://www.badiale-tringali.it/2020/06/la-millenaria-oppressione-delle-donne.html,

http://www.badiale-tringali.it/2020/08/femminismo-anticapitalista.html


Alcuni testi recenti di critica del politicamente corretto sono i seguenti: A.Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020 (soprattutto la parte finale); J.Friedman, Politicamente corretto, Meltemi 2018; F.Marchi, Contromano, Zambon, 2018; R.Della Vecchia, Questa metà della terra (reperibile gratuitamente in rete:https://altrosenso.wordpress.com/qs-meta-della-terra/). Agli anni Novanta risale invece l’edizione originale dell’interessante testo di R.Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi 2003.







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