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venerdì 25 dicembre 2020

Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, parte 1 (P.Di Remigio)

 (Iniziamo oggi la pubblicazione di un lungo contributo dell'amico Di Remigio, che sarà diviso in più parti. A proposito, Buon Natale. M.B.)

(Qui trovate la seconda parte)


Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 1

Paolo Di Remigio


     Quella che per abitudine si chiama scuola pubblica non è più pubblica, neanche nel nome, e non è più scuola, nel senso di istituzione diretta a educare i giovani alla conoscenza. L’estinzione della scuola pubblica è momento della decadenza dello stato occidentale. Nel corso della lotta per escluderlo dall’economia, alcuni lo hanno considerato un importuno che mette le mani nelle tasche dei cittadini e ne cede la ricchezza alla politica clientelare; altri vi hanno rinvenuto l’origine di ogni male. Si è così perduta l’intuizione della sua essenza e del suo fine: riesce incomprensibile che lo stato sia la forma libera della comunità, garante del libero volere di ognuno, che il suo primo fine sia rendere sacra la persona e intangibile la sua esistenza. Il rifiuto dello stato nasce dal disconoscere la nozione di libertà e il suo nesso con quella di legge. Da queste nozioni dipende però anche la disposizione al conoscere; l’incomprensione dello stato si associa dunque al disprezzo della conoscenza. Ne è vittima la scuola che, abbandonata a interessi estranei, è soffocata dall’attivismo ignorante e si estingue.

 

I.       Distinzioni filosofiche

 

a) Libertà e stato

     Di solito la libertà è intesa come sinonimo di arbitrio, come possibilità di scelta; se fosse così, lo stato, che limita l’arbitrio imponendo le leggi, sarebbe negazione della libertà[1]. Chi non facesse differenza tra impulso, arbitrio e libertà non potrebbe che concordare con la conclusione di questo sillogismo. La differenza è però un’opposizione e non può essere trascurata. L’impulso è la sfera dei desideri consapevoli od oscuri che originano dal corpo vivente e cercano soddisfazione; loro scopo ultimo è difendere la vita dalla morte sia conservando l’individuo sia riproducendolo. L’arbitrio sostituisce nell’uomo l’istinto animale: è la scelta tra i desideri a cui dare soddisfazione o a cui negarla, anche la scelta dei mezzi per raggiungerla. Già come arbitrio la volontà è in qualche misura capace di controllare l’impulso, dunque di staccarsene: al fine di soddisfare un altro desiderio, l’arbitrio può rinunciare a soddisfarne un primo; in vista di un piacere, l’arbitrio può ricorrere a un mezzo che l’impulso eviterebbe. L’arbitrio è dunque negazione relativa degli impulsi: ne nega uno, ma solo per passare all’altro. Per questa sua relatività gli manca uno scopo assoluto: l’arbitrio valuta secondo l’utile e in vista della felicità, ma la felicità è solo una composizione variabile di piaceri. – La libertà nasce dalla negazione assoluta degli impulsi. Vale a dire, poiché alla vita può preferire l’annullamento della vita, poiché può scegliere la morte[2], l’uomo, solo l’uomo, trascende la nuda vitalità ed è possibilità di dominare ogni impulso. In questa possibilità raggiunge l’idea della propria libertà assoluta. Da questa idea nasce il rispetto di sé, per cui l’uomo prova vergogna della vita innocente e senso di colpa quando le si arrende[3].  La libertà è rappresentata di solito come anima immortale, come una cosa immateriale indipendente dal corpo. Trattarla come un risibile residuo metafisico porta spesso a trascurarne il contenuto logico: essa può anche ridursi a una rassicurazione illusoria contro la paura della morte, in ogni caso esprime una segreta alleanza con la propria morte[4] per non lasciarsi dominare dall’impulso corporeo, una volontà che non si realizza soltanto nelle sfide eroiche, ma è già presente in ogni semplice atto di cortesia. Così, pur avendo avuto dalla natura questi desideri, dalla società queste abitudini, pur scegliendo come arbitrio questo o quello, l’uomo vuole anzitutto conservare il fondamento indeterminato del suo scegliere; la sua volontà vuole anzitutto sé stessa e concepire con distacco, come semplici possibilità, le alternative finite offerte all’arbitrio, anche dopo averne scelta una. Che alla volontà ripugni ridursi per sempre a semplice natura, che per evitarlo essa possa volere la rinuncia a ogni soddisfazione limitata, questa astrazione assoluta dal determinato è il significato della libertà. ‒ Il nome proprio ne è la manifestazione linguistica. A differenza delle altre parole, esso indica senza significare, o almeno non lo si dà perché significhi. Ma il significato di una parola è la determinatezza per cui essa si lega secondo necessità alle altre parole; non significandolo, il nome proprio indica l’individuo come un indeterminato, come slegato da ogni vincolo e signore della sua esistenza.

     L’indeterminatezza della libertà non è però solo il vuoto, ha anche un senso positivo: è relazione a un determinato privo di essere perché privo di libera volontà. Questa relazione è assoggettamento, la cosa appartiene alla persona. Nel suo senso positivo, la libertà è la persona che esercita la signoria sul mondo delle cose determinate, cioè sul suo corpo vivente, sugli animali e sulle cose. In quanto esercita signoria sul determinato, la persona ha esistenza positiva, e questa sua esistenza è la proprietà[5].

     Persona e proprietà privata sono le determinazioni elementari della libertà umana – per questo l’etimologia di persona è modesta e Hegel nella Fenomenologia osserva che «indicare un individuo come una persona è espressione di disprezzo»[6]; la sfera morale, che è quella della solidarietà privata, e la sfera politica, quella della solidarietà pubblica, sono superiori al diritto privato. Chi nel rapporto con l’altro o con la comunità si fermi alla semplice proprietà e al do ut des è un individuo arido, povero di umanità. Non per questo persona e proprietà privata sono però valori che si possano ignorare o disprezzare, non per questo il diritto privato può essere respinto come indegno dell’uomo: soltanto il limitarsi a esso è miserevole[7]. Persona e proprietà privata sono dunque l’inizio dell’etica; respingerle equivale a negare l’intangibilità dell'individuo e della sua signoria sulle cose; ma un individuo a cui non si riconosca un dominio su una sfera di esistenza cessa di esistere come valore infinito e si confonde con la cosa, si riduce allo schiavo, e questa è l’ingiustizia più grave[8].

     Mentre la libertà è illimitata perché è volontà di sé, l’arbitrio, essendo volontà di oggetti determinati, è limitato in sé stesso; che la libertà lo limiti ulteriormente o addirittura l’annulli, non ne viola dunque la natura. Per questa relazione negativa tra libertà e arbitrio è almeno possibile che i limiti imposti dalla società all’arbitrio degli individui possano rispettare la loro libertà; possono infatti essere identici ai limiti che il singolo impone al suo arbitrio in vista della sua libertà. L’arbitrio stesso è però proprietà della persona. Nel limitarlo la società non la viola solo se il divieto non è arbitrario, cioè non nasce da un impulso particolare, se è universale; dunque se limita ogni arbitrio, se ha forma di legge.

     Le leggi sono divieti per tutti – tanto per i governati che per i governanti – dunque di tutti: limiti che difendono non un interesse particolare da altri interessi particolari, ma la libertà universale dagli interessi particolari dell’arbitrio. La loro universalità è il segno della loro identità con l’indeterminatezza della libertà. In quanto ha forma di legge, il limite posto dalla società all’arbitrio è identico al limite che la libertà della persona pone al suo arbitrio[9].

     Poiché l’uomo non è un semplice animale assoggettato agli istinti, ma può allearsi alla morte e così trascendere ogni impulso, il rapporto tra gli uomini può non ridursi a una frustrante rinuncia alla soddisfazione degli impulsi in vista della sicurezza, ma realizzare la loro essenza ‒ la libertà. Se il rapporto tra gli uomini è regolato dalla legge, quindi dal dominio generale sull’impulso, l’individuo vi sente reale il suo dominio su di esso, vi vede riconosciuta la sua libertà. In quanto si esercita contro l’arbitrio in generale, dunque nella forma della legge, la forza collettiva è libera, è autorità statale, non esterna e in contrasto con l’individuo, ma coincidente con la sua essenza. Viceversa, il collettivo in preda agli impulsi particolari viola la libertà della persona, umilia gli individui. – Questo è il significato della dottrina hegeliana dello stato: lo stato è etico non perché i governanti abbiano sempre ragione e amino il popolo, ma perché nelle sue leggi si prolungano i limiti all’arbitrio con cui ognuno, governante o governato, già domina sé stesso e si libera.

     La confusione della libertà con l’arbitrio, che ha conseguenze fatali sull’intelligenza dello stato, nasce dalla grave ambiguità del concetto di natura umana. Esso contiene significati opposti: in senso proprio, la natura dell’uomo è l’astratta indeterminatezza della volontà, il potere di sottrarsi a tutto, perfino al proprio impulso di vita. In questo senso, poiché la libertà personale deriva da questa indeterminatezza essenziale della volontà, il diritto della persona si chiama diritto naturale. Ma nella vita dell’individuo l’indeterminatezza della volontà non è il dato iniziale: l’uomo inizia dall’onnipotenza di ciò che Freud ha indicato come «principio del piacere». Poiché la nozione di natura indica non solo l’essenza ultima, ma anche il dato iniziale, la vita innocente dominata dagli impulsi, l’impulso stesso è denotato come natura. E poiché l’impulso esercita una costrizione sull’io e l’io se ne libera appagandolo, il piacere che accompagna l’appagamento sembra identico alla libertà. Esiste così una seconda nozione di libertà, affatto opposta alla prima, quella per cui essa è il desiderio innocente che va al piacere: la libertà come spontaneità.

     Spontaneità sembra così sinonimo di libertà. Mentre però la libertà come volontà di sé, volontà astratta, è davvero indipendente, la spontaneità è indipendenza apparente: nell’appagamento dell’impulso cessa bensì il limite; ma l’impulso si appaga in un oggetto non in suo potere, dipendente anzi dalle circostanze; inoltre l’appagamento è momentaneo e il limite rinasce sempre e con esso la dipendenza dall’esterno. Così, mentre la libertà è la negazione della natura in generale e come tale è autonoma, l’impulso e il suo appagamento sono un momento particolare della necessità naturale. Ne segue che la spontaneità è necessità, l’esatto contrario della libertà.

     Eppure la loro identità è uno dei pregiudizi più diffusi, non solo nella vita comune, ma anche nelle scienze umane e perfino in quelle filosofie che vedono la liquidazione del soggetto come un’importante conquista del pensiero. Nonostante nel Gorgia [10] Socrate abbia spiegato a Callicle come stessero le cose su questo punto, già Rousseau preferì ignorare la lezione di Platone e identificare la spontaneità prima con la libertà e poi, addirittura, con la sfera della socievolezza umana; è stato Nietzsche che, pur seguendo Rousseau nella prima delle sue false identità, ha riconosciuto la sostanza soprattutto crudele della spontaneità e il suo radicarsi nella necessità, ponendola come tale alla base del suo immoralismo. Attraverso Freud la falsa identificazione di libertà e spontaneità si è trasmessa alle avanguardie novecentesche e da qui, con la lettura di quanto di più facile la scuola di Francoforte offriva, al libertarismo sessantottesco. Tanto consenso va spiegato con l’inestinguibilità di un retaggio infantile: al bambino basta piangere, un’azione sempre in suo potere, per liberarsi da qualunque disagio e giungere al piacere. Dal punto di vista infantile l’onnipotenza dell’impulso è onnipotenza dell’io; dal punto di vista adulto, consapevole della mediazione del lavoro tra bisogno e appagamento, l’onnipotenza dell’io può essere invece ottenuta soltanto contro l’impulso; non riconoscerlo, restare incantati dal modello magico, è infantilismo ‒ un difetto che la facilità dell’appagamento nella società dei consumi corrobora.

     L’opposizione tra libertà e spontaneità contiene importanti conseguenze per l’educazione. Se fossero identiche, il bambino sarebbe l’individuo più libero e ogni divieto imposto dal mondo degli adulti sarebbe propriamente un reato ‒ un’insensatezza che certa psicologia attuale, in concorrenza con l’istituzione familiare per il controllo dei figli, non rigetterebbe. La tendenza all’indulgenza, la raccomandazione di eliminare i divieti o almeno di sostituirli con l’astuzia, si radicano non in un impossibile del progresso scienze umane, ma nel rifiuto infantilistico del mondo adulto e della libertà. Non è un caso che le filosofie che con più consapevolezza l’hanno eletta a loro principio, le filosofie idealistiche, siano tutte filosofie della severità: la natura profonda dell’uomo, l’indeterminatezza della sua volontà, implica lo sforzo di liberarsi dall’onnipotenza dell’impulso naturale; uno sforzo che dapprima, quando l’individuo è nell’età innocente, ricade sui genitori. Così l’educazione non è solo un offrire mezzi per realizzare le attitudini del bambino; contiene anche divieti, per rendere il dominio di sé un valore. L’educazione è anche repressione della spontaneità. È sciocco però dedurne che la severità reprima la libertà del bambino: solo se sottomette la sua originaria sottomissione alla necessità naturale il bambino diventa adulto, emerge in lui la natura nel senso di libertà.

 

b) La libertà è il principio della conoscenza

     L’equivoco tra libertà e spontaneità non ha effetti soltanto sulla sfera pratica soggettiva; poiché, come soggetto, l’io è in riferimento conoscitivo all’oggetto, l’equivoco ha effetti sulla stessa realtà. La spontaneità si limita a intuire e a immaginare. L’intuizione non va però al di là dell’inseguimento del divenire, l’immaginazione si perde nel suo associare; solo il contegno teoretico raggiunge la realtà. La teoresi richiede però la fatica di abbandonare il proprio punto di vista per aprirsi all’oggetto come è in sé. La spontaneità rifiuta questo come ogni altro lavoro, e nell’agire si attiene alla convinzione dogmatica fino alla distruzione di sé e della cosa, nel conoscere diventa scettica.

     Lo scetticismo consiste nel mostrare la relatività di ciò che è assoluto; le cose sono però suscettibili di una relatività naturale costituita dal cambiamento; infatti, nel cambiare, la cosa smentisce la sua assolutezza. Esiste così uno scetticismo primitivo che contesta all’ingrosso l’applicabilità delle categorie limitandosi a constatare il cambiamento delle cose che dovrebbero riceverle ‒ come se il cambiamento non fosse conoscibile quanto l’essere. La tesi scettica più comune riprende invece il primo dei tropi dello scetticismo antico, secondo cui la pluralità delle prospettive sulla cosa ne renderebbe impossibile la scienza. Ne segue che è inutile lo sforzo di liberarsi della propria prospettiva, che la si può conservare con agio, ma non la si può imporre agli altri. L’esito è la convivenza di soggetti paghi della propria spontaneità, senza attrito, forse senza contatto: la tolleranza di un mondo inclusivo ‒ abolita però di tanto in tanto da un’emergenza, che impone il dogma, taccia i dissenzienti di negazionismo e li esclude dalla sfera dell’umanità.

     A questo scetticismo sfugge che la pluralità delle prospettive è fondata nella complessità dell’oggetto ed è conciliata nel suo concetto. La stessa definizione di verità, adaequatio rei et intellectus, esprime infatti non l’univocità, ma un comporsi degli opposti. Proprio a questa composizione mira il metodo dialettico-speculativo della filosofia: senza attendere le altrui smentite, esso mostra subito che ogni formula univoca si falsifica così da approdare nell’opposta, che questa subisce una vicenda analoga e che proprio in questo duplice moto si dissolve l’esclusività che impediva l’accordo della verità. Nella vita della scienza ciò si mostra come dibattito tra le diverse prospettive in vista della loro unità in un concetto più profondo dell’oggetto.

     Gli ostacoli che sbarrano la via verso la verità non sono dunque né tecnici né ontologici, come se essa fosse qualcosa di troppo sublime per la nostra povera ragione, ma nel non volersi separare dalla propria particolarità. Per conoscere non basta aprire gli occhi per intuire il mutevole e chiuderli per associare le immagini, occorre affrontare già armati delle conoscenze disponibili l’esperienza, che non è un baloccarsi ma un rischiare; occorre integrare la propria esperienza con le altrui esperienze, ossia il dibattito. Per questo occorre un tragitto severo che porti dalla spontaneità alla libertà: se dal punto di vista pratico antepone l’universalità dell’io alla particolarità dell’impulso, dal punto di vista teoretico la severità genera il rispetto tanto dell’oggetto com’è in sé quanto dei punti di vista altrui nei quali si riflette la pluralità degli aspetti dell’oggetto. Solo il soggetto libero può accettare l’in sé della cosa come coordinamento di determinatezze opposte. Solo la libertà può comporre il discorde



[1] Qualcosa di simile è affermato in un vecchio manuale di diritto privato (Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano 1985): a differenza della norma morale che sarebbe assoluta e autonoma, la norma giuridica sarebbe «‘eteronoma’, cioè imposta da altri, dall’ordinamento nel suo complesso» (pp. 7-8). L’ordinamento nel suo complesso non è però equivalente ad «altri» perché le sue deliberazioni sono universali, valgono per tutti, non sono volontà particolare di alcuni; ma solo in questo caso c’è eteronomia. Peraltro, nelle due pagine successive gli autori dicono il contrario: osservano che il diritto naturale acquista rilievo quando «il diritto positivo viene ad essere subito come una imposizione… senza una intima giustificazione»; ciò implica che il diritto positivo sia non sempre eteronomo, che sia tale solo quando gli manchi l’intima giustificazione, cioè quando non sia diritto.

[2] Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 5.

[3] Nel mito biblico (Genesi, 3, 1-19), Adamo ed Eva mangiano i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, ossia diventano padroni di ogni differenza, raggiungono l’idea di indeterminatezza propria della condizione divina. La Bibbia considera però colpevole l’essere sicut Deus, cioè l’essere liberi; così la libertà vi è rappresentata come cacciata dal paradiso e non può legarsi al rispetto di sé; mentre poter preferire la morte è fondamento della libertà, qui la morte ne diventa una conseguenza, ed è equiparata alla vergogna e al senso di colpa. In definitiva, il racconto dell’Antico Testamento considera l’innocenza nell’Eden una condizione superiore all’essere liberi nella terra che l’uomo ha reso maledetta, cioè oggetto, con il suo strappo. Questa prospettiva, come si vedrà più sotto, è il principio del messianismo.

[4] La morte è propriamente ‘sorella’ per Francesco d’Assisi: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale…», recita il suo Cantico delle creature.

[5] Nello stato moderno, che riconosce a ognuno l’intangibilità della persona e della proprietà, il titolo di signore è dovuto a ogni individuo.

[6] Hegel, Phänomenologie des Geistes, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, p. 357.

[7] Nella solidarietà privata e pubblica, nella morale e nella politica, nel provvedere al bene dell’individuo e del collettivo, occorre comunque rispettare la persona. Canta Floria Tosca: «… con man furtiva quante miserie conobbi aiutai»: l'aiuto è morale, la mano furtiva è il rispetto della persona, il dovere di non far sentire inferiore (cosa determinata) il bisognoso, dovere che nell'aiuto occorre non dimenticare. In generale, fare il bene implica il rispetto del diritto: non si ruba ai ricchi per dare ai poveri, ai poveri si dà del proprio; salvare vite in mare come fanno le ONG avviene in oggettiva complicità con i criminali: può essere ammesso come eccezione, perché perduta la vita è perduto anche ogni suo diritto, ma la complicità con i criminali non può diventare norma, perché così sono violate la persona e la libertà di tutti; la risposta normale presuppone la repressione della criminalità e il ripristino della legge.

[8] Matteo, 8, 20: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo», – ha però il capo, è libero.

[9] Questo nesso tra legge, libertà e arbitrio è implicito in quanto scrive Montesquieu: «La libertà non consiste nel fare ciò che piace. Chi è che stabilisce quello che si deve fare? Le leggi. La libertà allora è il potere delle leggi, non già quello del popolo. La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono! Infatti, se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere». Qui il peso è posto sulla reciprocità; ma se si riflette che le leggi hanno il carattere dell’universalità e che l’universalità non è altro che l’indeterminatezza dell’io, si può interpretare l’esclamazione di Montesquieu nel senso che la libertà presuppone quella superiorità dell’io su «ciò che piace», cioè sull’impulso e sulla sua soddisfazione, che la legge, in virtù soltanto della sua universalità, formula come comportamento della collettività. – Marx ha disprezzato la libertà come astrazione assoluta, tanto più in quanto è connessa con la proprietà privata; egli vede bene che si tratta di astrazione, quello che non vede è il valore ineludibile dell’astrazione.

[10] Gorgia, 491d-e.





(continua...)

    

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