(Seconda parte del saggio di Di Remigio. La prima parte la trovate qui. La terza parte la trovate qui. M.B.)
Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale, 2
Paolo Di Remigio
II La lezione della storia
a)
Il mondo greco
Quanto
accade allo stato e alla conoscenza sotto i nostri occhi increduli
non accade per la prima volta; anzi la maggior parte della storia è
segnata dall’esistenza di stati imperfetti, offensivi della
persona, e dalla difficoltà degli uomini ad assumere il contegno
della libera teoresi. Interi mondi non sono andati al di là del mito
e del timore. Il distacco decisivo dal pensiero desiderante e
l’inizio della considerazione oggettiva risalgono alla cultura
ellenica. Per quanto ci appaiano ingenue, le prime filosofie della
natura sono i primi tentativi di spiegare il mondo senza mito. Il
contegno teoretico come forma di vita inizia però con Socrate
– che fu sentito come novità assoluta dai suoi stessi
contemporanei[11]. Tre sono i
caratteri di Socrate che determinano l’essenza della teoresi:
innanzitutto, il compiuto dominio
degli impulsi, tale da consentirgli non solo di rifiutare con garbo
le avances
del bellissimo Alcibiade ma anche di preferire la morte alla fuga, –
in altri termini l’essere libero dalla limitatezza delle passioni;
poi, il dialogo
in cui gli interlocutori esercitano la critica reciproca delle loro
opinioni; infine, il risultato
negativo,
ossia il rifiuto del cosiddetto pensiero
di gruppo: per
Socrate è essenziale che gli interlocutori non si accordino tra loro
a
danno della cosa,
è essenziale che, se è fallito il tentativo di armonizzare le
diverse determinazioni della cosa di cui ognuno si faceva portavoce,
gli interlocutori riconoscano con serenità il fallimento. Da Socrate
in poi conoscere non è ridurre l’oggetto al progetto soggettivo,
ma è trovare la verità, cioè l’accordo del soggetto con
l’oggetto, un abbraccio corrisposto che non può essere sostituito
dall’accordo dei pensanti contro
l’oggetto. Mentre il gruppo che si coordina per agire
deve comunque raggiungere un accordo su come farlo, altrimenti vi
rinuncerebbe, e questo, se ci fosse necessità di agire, sarebbe il
peggio, il gruppo che si confronta per conoscere
non ha bisogno di raggiungere una conclusione positiva entro un tempo
dato, può sempre apprezzare la constatazione che manca ancora il
concetto in cui si compongono le differenze emerse, e ripromettersi
ulteriori sforzi per raggiungerlo. Un tratto essenziale del contegno
teoretico inaugurato da Socrate è l’operosità, esplicitamente
richiamata nel Menone[12].
Alla
sobria eroicità della teoresi Platone
sacrifica la sua produzione poetica, riconoscendo così la forma
logica superiore alla forma dell’immaginazione. La sua teoria delle
idee è il risvolto positivo dell’atteggiamento socratico: l’idea
è l’universale in senso dialettico, la figura in cui si compongono
i contrasti nella cosa e la pluralità dei punti di vista che ne
derivano e su cui i sofisti avevano soltanto giocato[13].
Del primato del contegno teoretico il Simposio
offre il documento definitivo. Il suo tema è il desiderio erotico.
Mentre gli elogi a Eros dei commensali riflettono sugli effetti e
sulle cause delle diverse forme di piacere erotico, Socrate fa suo un
punto di vista femminile, raccontando i discorsi ascoltati da una
donna di Mantinea, Diotima: la bellezza, il piacere sono soltanto un
allettamento
a riprodursi; il sesso ne ha bisogno perché il suo fine è
l’immortalità
e i viventi possono raggiungerla solo attraverso i dolori del parto e
le fatiche e i pericoli dell’allevamento della prole. Negli umani
la fatica del produrre l’immortalità non si limita tuttavia alla
generazione di figli di nuovo mortali; negli umani Eros si rivolge a
bellezze sempre più astratte, universali, così da generare verità
immortali[14]. Per chi cerca
di determinare la forma logica dell’accordo con l’oggetto,
l’oggetto è bello e la verità generata è universale; si può e
si deve dunque vivere per la conoscenza – è questa la conclusione
del Simposio
platonico.
Il
primato del contegno teoretico si conserva in Aristotele. Se il
piacere è l’accordo tra la nostra particolarità e la
particolarità dell’oggetto, allora l’esercizio del pensiero in
vista della conoscenza disinteressata, essendo accordo tra l’io
universale e la cosa universale, è il bene supremo, la stessa
felicità di cui Dio gode eternamente[15].
L’agire è invece servizio (λειτουργία),
che permette agli altri la σχολή
giacché gli altri la permettono a noi.
In
definitiva, per il pensiero greco del V e del IV secolo il contegno
teoretico non è solo indispensabile come presupposto della tecnica,
ma è ciò che la vita umana ha di divino. La grande fioritura
scientifica di epoca ellenistica sarebbe impensabile senza i
risultati filosofici di Socrate, Platone e Aristotele.
È
qui la spiegazione del nesso evidenziato dal prof. Galli Della
Loggia[16] tra cultura
classica ed educazione delle classi dirigenti finché in Europa c’è
stata una scuola pubblica. È la cultura ellenica che per prima si è
resa conto della confusione tra desiderio e pensiero nel mito[17] e ha declassato quest’ultimo a semplice similitudine, che può
anticipare il percorso logico, ma non sostituirlo. Il mondo ellenico,
unico,
ha fissato il nesso tra libertà e verità e ne ha dedotto la
superiorità della σχολή
sull’ἀσχολία.
Inoltre, per Platone solo chi è abbastanza libero da conoscere l’in
sé delle cose nella sua complessità, solo chi è amante del sapere,
filosofo, può essere un buon governante; secondo Aristotele sa
dirigere solo chi è in grado di prevedere, dunque di conoscere i
nessi necessari dell’oggetto, senza lasciarsi sedurre dal
desiderio; non solo, dunque, la teoresi è vita libera, la stessa
etica dell’agire è fondata sulla conoscenza e sulla disciplina che
essa richiede. La scelta della scuola europea di immergere la futura
classe dirigente nel mondo classico è quindi guidata non solo da una
predilezione letteraria, non tanto da passioni imperialiste, ma da
istinto scientifico,
è scelta del paradigma che privilegia la teoresi come vita libera e
felice e come condizione dell’agire. La capacità di astrarre
dall’utilità immediata per dedicarsi all’oggetto in tutta la sua
complessità, da una parte, realizza l’essenza umana, perché la
verità è la forma logica, dunque libera e universale, della
corrispondenza tra soggetto e oggetto, di cui il piacere è la forma
soltanto particolare; dall’altra, si rivela della massima utilità,
perché sul piano individuale assicura la saggezza necessaria a
determinare la giusta misura in cui consistono le virtù etiche, e
sul piano collettivo prepara a fronteggiare la contraddittorietà
dell’oggetto politico.
b)
Il mondo cristiano
Il
pratico afferma la superiorità sul teoretico per effetto
dell’affermarsi del cristianesimo in quanto è erede del
messianismo ebraico. Mentre per la visione ellenica il mondo è tutto
e contiene anche i suoi dei, per la visione ebraica il mondo è il
nulla[18] e Dio lo ha
abbandonato al male finché non decide di redimerlo, cioè di
ripristinare l’innocenza paradisiaca, per mezzo di figure ispirate,
gli unti del Signore, i messia. Poiché è al di là del mondo e si
manifesta non tanto nella sua forma quanto infrangendola con il
miracolo, Dio è imperscrutabile, cioè si sottrae alla conoscenza.
Impotente, la conoscenza diventa una volontà
di conoscere che non può essere appagata nel presente, diventa fede.
Messianismo è dunque il rifiuto del mondo presente e l’urgenza del
ritorno all’innocenza; messianismo è il congedo dalla conoscenza e
il privilegio accordato alla fede «che smuove le montagne».
Messianismo è ciò che dal XIX secolo in poi si chiama spirito
sovversivo.
Filosofi come Hegel, come Comte, lo videro all’opera
nell’incapacità della Rivoluzione francese di appagarsi di ogni
ordine comunque costituito e ne conclusero che la sovversione
rivoluzionaria esiste solo come distruzione dell’esistente.
L’esigenza
di negare l’impulso determinato è, come si è visto, la radice
della libertà dell’io. In quanto vuole anche
altro da sé, l’io puro entra nell’esistenza, si determina; nel
determinarsi può restare fedele a sé stesso – ad è propriamente
questa la libertà e, rispetto agli altri, la giustizia – o può
contrastarsi – eteronomia e ingiustizia. Ma può anche rifiutare di
determinarsi e restare nella propria astrazione. Mentre l’io che si
realizza nell’esistenza vuole che le sue scelte conservino il modo
della possibilità, l’io che vuole restare nell’astrazione
apprezza soltanto la propria uguaglianza pura, senza contenuto, e
respinge la differenza in generale. Riferendosi al mondo e alle sue
differenze, l’indeterminatezza soggettiva assume quindi l’aspetto
di aspirazione all’uguaglianza[19].
Che
il messianismo ignori il diritto della differenza non autorizza a
ignorare il diritto dell’uguaglianza. Dal semplice punto di vista
logico identità e differenza sono un’unica riflessione: l’identità
è solo tra i differenti e i differenti devono essere identici in
qualcosa. Respingere l’uguaglianza non è dunque meno vano che
respingere la differenza. In particolare, l’aspirazione del
cristianesimo all’uguaglianza si rivelò infinitamente feconda, in
quanto pose il problema dello schiavismo, che il mondo classico non
aveva percepito in tutta la sua abissalità: ammettere la figura
dello schiavo nel diritto riduce l’universalità della persona a un
privilegio casuale che si può acquisire o perdere; il quid iuris
è ridotto a un semplice quid facti, la sostanza a un
accidente. Il superamento di questa contraddizione promosso dal
cristianesimo è il diritto moderno. Nondimeno l’uguaglianza è
l’astratto, la differenza è il concreto, è l’esistenza; la
stessa uguaglianza degli individui come persone, nel
realizzarsi, si cala nelle differenze delle loro esistenze. Nel
volere l’uguaglianza dell’esistenza stessa, l’io puro
rifiuta di fatto l’esistenza; dunque si degrada in fanatismo
che inseguendo l’ideale disdegna la conoscenza del reale e lo
condanna all’indegnità. Con questa svolta la fede cieca diventa
l’ultima parola, e la nozione stessa di verità sembra ora indicare
non più la sobria concordanza di soggetto e oggetto, ma una
trascendenza sublime che è lo stesso io puro tradotto in forma
oggettiva.
Il
cristianesimo ai suoi inizi concepisce come inferno la realtà del
mondo classico; alla sua sapienza antepone l’assurdo della
rivelazione. Gli inizi messianici si conservano fin nel cuore
dell’elaborazione teologica, in quanto essa immagina che il mondo
sia destinato a essere abbandonato da ogni vita; e sono avvertibili
perfino nelle prove dell’esistenza di Dio: la prova cosmologica
giunge all’essere divino dall’insufficienza del mondo, dalla sua
nullità costitutiva; la prova ontologica attribuisce l’esistenza
alla nozione di Dio, cioè all’atto con cui il soggetto lo
intenziona; vale a dire la nullità del mondo si associa al ritrarsi
dell’essenza nel soggetto. A differenza però del messianismo
moderno, a differenza della sovversione rivoluzionaria fiduciosa
nell’invincibilità dell’alleanza tra storia e coscienza di
classe, l’Epistola
ai Romani concepisce
la volontà umana come schiava della carne
e la sua liberazione come un atto trascendente legato alla fede nel
Cristo. Il primato della pratica stabilito dal cristianesimo contro
il mondo classico non va dunque inteso come potenza della volontà
umana,
ma come primato dell’iniziativa della volontà divina.
Né la fede nell’iniziativa divina si riduce a semplice attesa del
miracolo. A differenza dello gnosticismo che si spezza tra gli
estremi di un ascetismo esasperato fino alla morte di inedia e
l’eccesso orgiastico, ben presto il cristianesimo recupera l’ideale
di libertà come dominio degli impulsi, per quanto con la riserva Deo
adiuvante.
Così, pur assoggettandola alla teologia, la Chiesa non elimina la
filosofia; né getta nell’abisso del male la fecondità sessuale,
anzi le riconosce natura sacramentale, pur stabilendone l’inferiorità
messianica rispetto alla verginità. In definitiva il cristianesimo
assoggetta la teoresi alla fede; quando con Agostino esprime
l’invito: «Noli
foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas»[20],
trascura che la verità abbraccia gli estremi opposti, res
e intellectus,
non è un contenuto della mera interiorità; ma non si inganna sulla
finitezza della ragione pratica; di qui la sua capacità di temperare
il messianismo delle origini con l’idea ellenica e di conservare la
virtù della saggezza.
c)
Il mondo moderno: la doppia secolarizzazione del cristianesimo
• La
nascita dello stato moderno
Dal
XV secolo i rapporti di dipendenza personale tipici del paternalismo
feudale fanno lentamente posto alla sfera pubblica, allo stato e alle
sue leggi, mentre dalla riscoperta degli antichi rinasce, dapprima in
Italia, il sentimento del primato della teoresi. La costituzione
dello stato moderno è però risultato delle guerre di religione del
XVI e del XVII secolo. Lutero, Calvino hanno scorto nella Chiesa non
più l’argine al peccato ma la sentina della peggiore corruzione, e
nel papa l’Anticristo che annuncia la fine dei tempi; la loro
esigenza messianica di purezza è intollerante: le altre confessioni
sono opera del demonio; poiché le radici stesse del mondo sono
inquinate dalla presenza satanica, esso deve essere purificato con
ogni mezzo. È, questa, l’epoca terrificante della caccia alle
streghe, che colpisce la donna, depositaria della conservazione della
vita, dunque dell’essere del mondo. Dilaniata in sette che cercano
la reciproca distruzione, la religione dell’amore e della pace è
ora causa delle guerre più atroci. Lo stato ne è trasformato;
considerato prima uno strumento imperfetto dell’apparato
ecclesiastico, acquista ora indipendenza dalla religione, diventa
cioè laico, e il suo primo scopo rispetto agli individui
diventa per la prima volta chiaro: garantire l’integrità della
loro persona e della loro proprietà.
Ancora
nel Settecento, tuttavia, lo stato è una commistione tra elemento
borghese ed elemento aristocratico, tra il principio
dell’intangibilità della persona e il principio paternalista della
dipendenza personale. La confusione induce una rinascita dello
spirito messianico su una nuova base, non più religiosa ma mondana.
Rassicurato dagli stupendi progressi che il rinato spirito teoretico
ha impresso alla conoscenza della natura, l’illuminismo ha certezza
che la volontà umana, guidata dall’intelligenza dei fatti, possa
fare della terra il paradiso. La fiducia che il perseguimento
individuale della felicità contemperi i diversi interessi e procuri
il progresso generale, pone l’illuminismo in contrasto inesorabile
con il principio cristiano del peccato originale, per il quale la
volontà non fortificata dalla grazia è preda del peccato e
fomentatrice di discordia. La religione gli appare dunque come
superstizione delle masse semplici tratte in inganno da preti astuti
al servizio di tiranni viziosi: un passato da cui liberarsi. Aperta
dall’illuminismo la strada al rifiuto del peccato originale,
l’ideale della purezza della volontà umana si manifesta in tutta
la sua aporia in Rousseau.
• Secolarizzazione
del messianismo nell’idea di rivoluzione
La
polemica illuminista contro il cristianesimo può essere da una parte
intesa come la giusta affermazione dell’innocenza della natura:
nessuno degli impulsi naturali è in sé colpevole; colpevole è solo
la volontà se nel dare loro soddisfazione offende la libertà della
persona. Ma negli sviluppi che Rousseau dà al tema dell’innocenza
naturale emerge un più radicale messianismo, un disperato gesto di
rifiuto, che non aspira al progresso, come l’illuminismo, o
all’aldilà, come la religione, ma a un passato perduto per sempre
e recuperabile solo in parte. L’innocenza, la semplicità
attribuite ai primordi non sono per Rousseau al di qua del
bene e del male, non sono moralmente neutre, sono esse stesse virtù,
sono il bene; il separarsi dall’innocenza, l’artificio, la
scienza in generale sono allora il male, il vizio. Con la sua
promessa di sgravare l’uomo dalla fatica del pensiero,
l’identificazione paradossale dell’innocenza con la bontà e del
male con la scienza non abbandonerà più l’occidente, da quel
momento di nuovo nostalgico dell’immagine paradisiaca di una
socievolezza semplice entro una natura amica.
Mentre
nella natura hobbesiana domina la violenza, nella condizione di
natura di Rousseau simpatia e semplicità realizzano l’ideale
messianico dell’uguaglianza; viceversa, l’artificialità
della cultura esaspera la differenza, genera la bramosia per cui i
ricchi sfruttano i poveri e la prepotenza per cui i forti umiliano i
deboli. L’accento sull’uguaglianza mostra come nella stessa
borghesia si sia determinata una frattura: la proprietà privata
si accumula nelle mani di pochi e l’accumulazione porta con sé
l’espropriazione dei molti. Mentre per l’illuminismo la proprietà
privata, come emanazione della persona sulle cose, è il presidio
della libertà, Rousseau vi scopre la causa di una nuova forma di
asservimento, non più il paternalismo del signore sul vassallo, ma
la differenza di classe. Questo doppio conflitto, illuministico tra
borghesia e feudalesimo, rousseauiano tra grandi e piccoli, definisce
la Rivoluzione francese.
L’avere
affidato il principio dell’uguaglianza alla natura, che è sempre
differenza, e l’avere attribuito la differenza alla cultura, che
invece, come dispiegamento della ragione, è la capacità di comporre
la differenza, comporta un drastico rovesciamento delle parti, un
gigantesco equivoco dagli effetti paradossali sulla politica e sulla
pedagogia. ‒ Poiché ha identificato la libertà personale alla
spontaneità naturale, Rousseau non sa collocare la costituzione
dello stato all’interno
dell’individuo, nella sua essenza; perciò si riduce a inventare un
mito[21]: all’inizio gli
uomini vivevano liberi e sereni nella condizione di natura, poi vi
incontrarono sempre maggiori difficoltà, tanto da essere esposti al
pericolo di estinguersi, e ne dovettero uscire; da allora formano
comunità, che sono legittime se stringono un patto sociale: ognuno
aliena
tutto sé stesso alla comunità, così sparisce la pluralità
discorde delle libere volontà di ciascuno, si forma un’unica
volontà, la volonté
générale,
materializzata nell’assemblea a cui ogni associato partecipa.
Poiché ognuno vi è legislatore, obbedendo alle sue decisioni ognuno
obbedisce a sé stesso e resta libero.
Come
si vede, Rousseau crede che si diano una libertà naturale,
quella del singolo, e una libertà convenzionale, quella nella
comunità, che il loro rapporto sia negativo, ossia che la
libertà naturale debba essere annullata perché si generi la libertà
convenzionale, la volontà generale. Sono solo circostanze esterne
che costringono gli uomini ad alienare la loro libertà naturale, e
d’altra parte il corpo dello stato può sempre essere dissolto e
ciascuno riprende allora sé stesso. Poiché considera la volontà
generale negazione della volontà singola, Rousseau vede per
un verso un’opposizione insuperabile tra il singolo e il generale,
dunque una necessità ineludibile del singolo di sottomettersi
allo stato; per altro verso egli lenisce questa opposizione
identificando lo stato con l’assemblea in cui il singolo, pur
suddito, è anche legislatore.
Che
il singolo sia legislatore è però una magra consolazione; egli
infatti partecipa all’assemblea in quanto ha alienato la sua
libertà naturale, vi legifera dunque non come singolo, ma come
singolo generalizzato, come semplice organo dell’universale. Il
singolo sembra essere non soltanto suddito, ma anche legislatore,
perché obbedisce a sé; in effetti, però, obbedisce a sé come ad
associato, e poiché l’associazione è un’alienazione
della libertà, obbedisce a un sé alienato, dunque ad altro;
in questo senso il singolo resta soltanto suddito. Poiché si
produce dalla negazione della libertà naturale, la libertà
convenzionale resta comunque un danno; Rousseau può solo
tentare di limitarlo permettendo al singolo di stare non solo dalla
parte di chi lo subisce, ma anche dalla parte di chi lo infligge.
L’aver falsamente identificato libertà e spontaneità naturale non
gli consente di uscire dal rapporto di opposizione tra singolo e
universale, di giungere all’identità tra persona e stato di
diritto.
La
contraddizione è nel doppio significato di natura nella
nozione di libertà naturale. Per Rousseau la libertà naturale non
ha il senso del diritto naturale, non è affatto l’io puro che nega
l’impulso animale presente nell’individuo così che egli è
libero, ma è la spontaneità degli impulsi. La quale non può però
in alcun modo essere qualificata come libertà, ma è bisogno,
limite. Ciò che Rousseau considera libertà naturale e a cui non sa
rinunciare, è di fatto necessità naturale; dunque quella
negazione, che a lui appare una rinuncia dolorosa ma inevitabile per
godere i vantaggi della comunità, non è affatto rinuncia alla
libertà; al contrario, è liberazione, è propriamente l’educazione
con cui il singolo supera la sua innocenza e giunge alla libertà.
Lungi dall’essere rinuncia, l’educazione è il primo interesse,
la prima aspirazione del singolo: il bambino ha urgenza di
crescere, e non perché voglia abbandonarsi ai suoi piaceri e ai suoi
terrori, ma perché vuole governarsi come fanno gli adulti. Platone
ha compreso tutto ciò. La struttura gerarchica del suo stato, il
dominio dell’universale sul particolare, ripete, non nega,
la struttura intima del singolo, le è identica; già nel
singolo, infatti, la mente domina il desiderio. Poiché è un piccolo
stato, nello stato in grande il singolo è a casa sua; l’universalità
che guida lo stato è identica all’universalità dell’io con cui
il singolo guida sé stesso. Vale a dire, come obbedisce alla propria
universalità, al proprio io puro, così il singolo obbedisce
all’autorità pubblica in quanto è universale, cioè in quanto si
esprime in leggi, senza che la sua libertà sia soffocata.
Poiché il singolo compie l’alienazione totale dei suoi impulsi
naturali, non, come vuole Rousseau, della sua libertà
naturale, poiché la sua intima natura è assoggettare la sua
animalità alla convenzione, la libertà convenzionale, sua come
della città, è anche l’unica vera.
Il
disprezzo della convenzione per l’essenza dell’uomo è alla base
della pedagogia di Rousseau. Il riconoscere dignità morale alla
spontaneità innocente comporta però già a priori
l’impossibilità della pedagogia: se il bambino fosse libero perché
spontaneo, e l’adulto fosse in catene perché convenzionale e
differenziato, allora dovrebbe essere il bambino a dirigere l’adulto
– un paradosso che non solo ispira molti insegnanti quando
pretendono di aver imparato dagli alunni più di quanto gli alunni
abbiano imparato da loro, ma è lo specchio su cui tenta di
arrampicarsi ogni pedagogia attiva. Inaugurata da Rousseau, essa
offre un anestetico alla sofferenza di chi non si rassegna a essere
cresciuto, adora la spontaneità infantile e non vorrebbe superarla.
Il precettore di Rousseau si preclude l’intervento diretto,
traveste da natura il suo educare perché l’allievo passi
dalla libertà naturale a quella convenzionale senza accorgersene,
senza subire offesa alla sua spontaneità. La salvezza della
spontaneità è però offesa alla libertà: non solo il precettore di
Rousseau disattende l’urgenza infantile di diventare adulto, ma
avendo sostituito l’intervento diretto con la predisposizione
segreta dell’ambiente educativo, da un lato impone un controllo
totale sull’allievo, e ciò viola il germe della sua
personalità, dall’altro fa apparire all’allievo la libertà
convenzionale, ossia il diritto, come legge naturale. Una conseguenza
molto grave; infatti gli uomini sono tali precisamente perché non
solo si assoggettano alle leggi naturali come fanno gli
animali, ma ne creano di loro, le conoscono come tali e
nella loro universalità convenzionale riconoscono il proprio
io. L’attivismo di Rousseau degrada l’educazione dell’uomo in
ammaestramento dell’animale; l’abitudine che il precettore
insinua approfittando dell’ingenuità dell’allievo sostituisce il
controllo consapevole di sé in cui consiste l’io libero.
Che
la pedagogia rovesciata di Rousseau abbia avuto effetti moralizzanti
nel contrastare l’odiosa brutalità degli insegnanti («… memini
quae plagosum mihi parvo / Orbilium dictare…») nulla toglie alla
sua assurdità interna che si trasmette a tutte le didattiche attive.
Esse ostentano orrore per la passività dell’allievo; di fatto
provano orrore per l’attività che è propria della conoscenza.
Questa non è attiva nel senso della manipolazione dilettantesca
dell’oggetto – come vorrebbe l’attivismo didattico, ma lo è
comunque, in un suo senso determinato: dovendo dare spazio alla
complessità dell’oggetto e alla molteplicità delle prospettive
che lo studiano, la conoscenza è attiva sul soggetto, è
superamento del suo impulso particolare. Non è possibile conoscenza
senza attenzione, senza che il soggetto astragga dalle sue
infinite intuizioni e immagini estranee all’oggetto, dalla noia,
dalla stanchezza, dai propri rancori, timori, predilezioni.
L’attività propria della conoscenza, che l’attivismo non vede,
consiste nel dimenticare il particolare e tenersi fermi all’ascolto
delle determinazioni della cosa. Nell’acquisizione della
conoscenza, quanto più essa è astratta, tanto più l’alunno
impara il valore dell’attenzione. Che l’insegnante offra
un contenuto che ne sia degno è un’esigenza ineludibile, ma non
identica alla richiesta che l’alunno resti entro la sua esperienza
e impari divertendosi: divertire significa infatti allontanare
dal pensiero e dall’oggettivo. L’alunno non deve essere sempre
allettato con immagini e giochi, è essenziale che gli si chieda lo
sforzo di liberarsi dalle immagini e di librarsi nel grigio
delle astrazioni, perché l’astrazione è l’elemento
dell’universalità, e il nucleo della realtà, le sue leggi, sono
esprimibili solo in termini universali.
Il
messianismo alla rovescia di Rousseau, diretto a un passato che è
una sentenza di condanna del presente, nel comunismo resta immanente,
ma si volge al futuro. Scandalizzato dal destino di miseria dei
lavoratori in un’economia capace di produrre il benessere generale,
anche il comunismo, analogamente a Rousseau, ha visto nella proprietà
privata l’origine della contraddizione. Mentre però Rousseau
sopprime la singolarità per salvare la proprietà di ognuno, il
comunismo sopprime la proprietà quasi a voler salvare la
persona. Dal momento che la proprietà è alienabile, mentre la
persona non lo è, sembra che tra le due determinazioni ci sia una
radicale diversità, per cui sia possibile volere la persona senza
volere la proprietà. Così non è: poiché la forma di contratto,
con cui la proprietà è alienabile, implica che chi lo stipula resti
persona, ci sono non solo proprietà alienabili, ma anche proprietà
inalienabili dalla persona stessa che ne è proprietaria, –
tanto è vero che si può violare il proprio diritto non meno di
quello delle altre persone. La proprietà, inalienabile e alienabile,
copre dunque tutta la sfera di esistenza della persona, non solo le
sue cose, ma il suo corpo, il suo tempo, le sue abilità. Con ciò è
posto un legame indissolubile tra proprietà e persona. Il comunismo
che lo ha reciso non solo in teoria, ma anche con la pratica,
nell’abolire la proprietà privata ha abolito anche le persone.
Come rivoluzione permanente, il comunismo è guerra civile
inestinguibile tra il proletariato industriale (o la cricca che se ne
proclama avanguardia) e le altre classi (non solo la borghesia, ma
anche i contadini), combattuta secondo la tecnica dell’assalto
frontale, nella prassi leninista e nella sua esasperazione
staliniana, secondo la tecnica della guerra di posizione, secondo
l’idea di Gramsci.
Nell’irreggimentare
la società per la guerra civile, il comunismo non consente la
persona. Ne segue che il pedagogista sovietico più noto, Makarenko,
ispira la sua comunità educativa all’Armata Rossa e mantiene
all’educazione il carattere manipolativo già previsto da Rousseau,
limitandosi a dargli forma sociale: «Che vuol dire ‘azione
pedagogica parallela’? Noi abbiamo a che fare soltanto con il
reparto, non con i singoli che lo compongono. Questa è la
definizione ufficiale. In realtà, si tratta di un modo per influire
proprio sull’individuo. Tuttavia, la definizione si accorda in un
certo modo con la sostanza. Sebbene si affermi che non abbiamo a che
fare con le persone, in realtà ci occupiamo proprio di loro»[22].
Il potere pedagogico non agisce attraverso leggi universali, omogenee
all’universalità della volontà pura e fatte valere direttamente
come limiti dell’arbitrio, ma si nasconde dietro al collettivo,
esercitandovi condizionamenti che si risolvono in pressioni occulte
sul singolo. Il fatto poi che Makarenko consideri i suoi alunni la
prima incarnazione dell’uomo nuovo sovietico non lascia dubbi sulla
volontà del potere sovietico di assorbire senza residui l’individuo
nel suo apparato burocratico.
A
differenza di Rousseau o Feuerbach, Marx non si è fatto illusioni
naturalistiche: il comunismo non è ritorno alla sobrietà
ugualitaria, ma, ereditando dal capitalismo la scoperta della potenza
del lavoro umano, è ugualitarismo dell’abbondanza, mediato dalla
fase socialista della presa dittatoriale del potere e dello
scatenamento tecnico. Il comunismo apprezza la tecnica; quindi, come
già Bacone, non può rifiutare la scienza. Ma il rifiuto della
persona non è impune, comporta il disprezzo dell’astrazione.
Questo disprezzo emerge in Gramsci, che prende le distanze dallo
spirito astratto,
sente la filosofia inutile per la sua natura francamente teoretica,
la sostituisce con lo storicismo e la propaganda permanente: «Il
tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal
letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che
ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di
essere i ‘veri’ intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione
tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più
primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di
intellettuale… Il modo di essere del nuovo intellettuale non può
più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea
degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla
vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore
permanentemente’ perché non puro oratore – e tuttavia superiore
allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla
tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale
si rimane ‘specialista’ e non si diventa ‘dirigente’
(specialista + politico)» [23].
Pur
credendo di aver rovesciato Hegel, Marx pensa che la rottura della
dialettica materialistica con la dialettica idealista contenga anche
una continuità, che la dialettica materialista sia la dialettica
idealista rimessa sui piedi. Così non è; la differenza tra i due
filosofi è più profonda: a dispetto del suo nome, il socialismo
scientifico è stato la più potente eruzione messianica del mondo
moderno; invece Hegel è il filosofo della verità. Il suo motto:
«Ciò che è effettivo è razionale, ciò che è razionale è
effettivo» non fa altro che esplicitare nella sua completezza la
definizione tomista di verità come adaequatio
rei et intellectus.
Sotto il profilo politico, Hegel individua nel concetto di persona e
di proprietà quale si configura nel diritto un culmine, non
dell’etica, certo, ma della storia del mondo. La persona esiste
come proprietaria del suo corpo e delle cose. Nella protezione della
proprietà da parte dello stato, Hegel constata la raggiunta
sacralità del libero volere, la conciliazione tra l’esigenza
singolare e quella universale. Hegel sa bene che la proprietà può
celare ottuso egoismo, avarizia, avidità; ne segue che la sua
quantità
è tutt’altro che sacra, ma è limitata dallo stato; mai però può
essere abolita sulla base di principi morali, perché, ricorda il
filosofo, la moralità stessa non è infrangere il diritto, ma agire
rettamente solo per amore del diritto. Compito dello stato è dunque
che tutti siano in qualche misura proprietari, non l’espropriazione
generale. Così il confronto tra Marx e Hegel non è quello tra
materialismo e idealismo – materialismo è peraltro un termine
privo di significato filosofico – ma tra riconoscimento, per quanto
difficile, della verità del presente e tensione messianica al
futuro: al motto di Hegel che tiene ferma l’esigenza della verità,
l’effettività del razionale, Marx risponde con un diverso motto:
«Apparirà chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una
cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla
realmente». Vale a dire: il termine di idealismo, qualora esso
indicasse il primato del dover-essere e l’onnipotenza della
coscienza, potrebbe essere applicato con migliore approssimazione a
Marx anziché a Hegel. Come nota Benjamin nella sua prima tesi di
filosofia della storia, nell’automa del materialismo storico è
nascosto il nano della teologia[24].
[11]Cfr.
Simposio,
221 c-d.
[14] Simposio,
201 d - 213 c.
[15] Cfr. Etica
nicomachea,
1097 b 22 ‒ 1098 a 20.
[16] Cfr. E. Galli della Loggia, L’aula
vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola,
Marsilio, Venezia 2019, p. 85.
[17] Senofane intuì che gli Elleni si servivano degli dèi per evitare
il senso di colpa. La tragedia greca, in cui l’eroe rivendica ogni
responsabilità, di quanto sapeva e di quanto non
sapeva, purifica il mito e i suoi dei e li rende disponibili alla
filosofia.
[18] Non solo in quanto creato dal nulla; in Genesi,
3, 17 è la libertà dell’uomo che rende maledetta la terra; la
sua indifferenza al desiderio umano inaugura il lavoro.
[19] Isaia,
11, 6-9: «Il lupo abiterà con l’agnello ecc.». Lettera
ai
Galati,
3, 28: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né
libero; non c'è più uomo né donna ecc.»
[20] Agostino,
De
vera religione, XXXIX,
72.
[21]Cfr. il capitolo VI del primo libro del «Contratto sociale». Il
ricorso a un mito nel quale le cose andavano dapprima così poi
successe qualcosa e da allora le cose vanno altrimenti, è sempre
sintomo dell’incapacità di tenere insieme i pensieri discordi.
[22] A. Makarenko, Pedagogia
scolastica sovietica,
Armando, Roma 1960, p. 68. Traduzione modificata.
[23] A. Gramsci,
Quaderni del carcere,
Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1551.
[24] In Angelus
Novus,
Einaudi, Torino 1962, p. 72.