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mercoledì 16 settembre 2020

Il banco innovativo (P.Di Remigio)

(Riceviamo dall'amico Di Remigio, e volentieri pubblichiamo. M.B.) 




IL BANCO INNOVATIVO

Paolo Di Remigio

 

L’acquisto dei banchi da fornire alle scuole pubbliche prima dell’inizio dell’anno scolastico si è svolto in modi così poco trasparenti da dare origine a un’interrogazione parlamentare a proposito di uno dei contratti di acquisto, stipulato con una ditta priva dei requisiti per onorarlo. Come se ciò non bastasse, nella vicenda si è manifestata la solita ossessione a innovare che i giornali attribuiscono al ministro della pubblica istruzione, il ministro attribuisce invece ai dirigenti scolastici. Incombe così sulla scuola italiana una fornitura di 450.000 costosi banchi monoposto a rotelle, destinati a rivoluzionare la didattica in perfetta sintonia con lo spirito avventuroso della legge 107 di Renzi e Giannini[1].

Già qualcuno ha notato che l’innovazione è in contrasto con le precauzioni igieniche: se una delle più importanti misure di prevenzione del contagio è il distanziamento, allora occorrono banchi e sedie inchiodati al pavimento e forniti di cinture come i sedili delle auto; e che infilare gli alunni negli innovativi banchi a rotelle significa piuttosto invitarli ad avvicinarsi, se non addirittura a fare dell’aula scolastica un autoscontro.

Qualcun altro ha notato che il nuovo strumento, essendo di fatto una sedia, è in contrasto con le misure di sicurezza antisismica, che prescrivono di trovare protezione sotto il banco per tutta la durata della scossa, prima di evacuare l’edificio. Chi in occasione dell’epidemia ha voluto i banchi innovativi sembra aver dimenticato che la nostra adorata Italia, mentre ospita una popolazione suscettibile di contrarre malattie contagiose, continua a essere sismicamente attiva quasi ovunque. Da chi si è proposto come guida della collettività ci si aspetterebbe la capacità di saper fronteggiare più di un pericolo nello stesso tempo.

A mio parere tocca però il punto cruciale della questione chi si è reso conto che l’innovatività del banco a rotelle non è né nel suo ridursi a una sedia né nelle rotelle, ma nello striminzito piano di lavoro, che esclude per sempre dalle scuole che lo accettano l’uso di libri e quaderni di carta, la penna per scrivere, la matita per sottolineare, la gomma per cancellare e le relative abilità. Senza una discussione nella società civile, nel governo, in parlamento, approfittando di un’emergenza, ignorando l’art. 33 della costituzione antifascista che sancisce la libertà di insegnamento, con la semplice introduzione di un articolo d’arredo scolastico si è voluto imporre a quasi mezzo milione di alunni un modello di scuola innovata in cui non si legge sui libri, né si scrive sui quaderni, né si disegna sugli album – una scuola in cui l’unica manualità fine consiste nel carezzare e pigiare lo schermo del tablet. Ammettiamo che le neuroscienze[2] non abbiano dimostrato che la didattica digitalizzata sia a volte inutile, quasi sempre dannosa allo sviluppo non solo cognitivo dei ragazzi; poniamo che abbiano documentato che pigiare tasti offra soltanto vantaggi; resta comunque un mistero come qualcuno, che pure continua ancora a spostarsi con i suoi tradizionali piedi dopo più di un secolo dall’introduzione delle automobili, non riesca a pensare onestamente un altro rapporto tra vecchio e nuovo che non sia la sostituzione.

Cosa stia accadendo è spiegato con franchezza in un interessante filmato di una ditta produttrice di banchi innovativi, C2 GROUP[3]. Il suo responsabile delle strategie educative dichiara che l’attività dell’azienda consiste nel «seguire le scuole italiane, portando innovazione all’interno e cercando comunque di spingere il paradigma del cambiamento per formare i ragazzi del futuro». Il tono è quello iperbolico delle pubblicità. Chi potrebbe infatti affermare di conoscere così in particolare il futuro da poter decidere che il cambiamento sia il paradigma giusto per affrontarlo? Nessuno, ovviamente. Proprio per questo educazione e istruzione rinunciano da sempre a spacciarsi per indovine e si attengono alle conoscenze universali, cioè sempre valide e principi delle altre conoscenze (le regole del linguaggio, gli elementi delle scienze), quelle che si insegnano, tra l’altro, con le lezioni frontali.

«Siamo riusciti», continua il responsabile, «grazie alla collaborazione con i maggiori produttori di piattaforme, quindi Google e Microsoft, a formare più di 150.000 insegnanti d’Italia, fornendo gratuitamente formazione…». Qui scopriamo anzitutto che la pressione sulla scuola italiana affinché accolga il paradigma del cambiamento è così irresistibile perché è esercitata dai giganti dell’informatica; poi comprendiamo che quanto il responsabile chiama enfaticamente ‘formazione degli insegnanti d’Italia’ è soprattutto pubblicità, cioè induzione di un bisogno inesistente, e che proprio per questo è gratuita.

Si viene quindi a parlare della didattica a distanza «che non va abbandonata», sostiene la voce fuori campo, «perché», continua il responsabile, «è un potenziamento, è un avvicinamento anche verso il mondo del lavoro dei ragazzi. Stiamo fornendo delle competenze veramente importanti, richieste anche un domani dal mondo del lavoro». Torna qui la ὕβρις della conoscenza del domani con cui per un verso si giustifica l’istituzionalizzazione di un esperimento fallito, quello della didattica a distanza, per l’altro si vuole «agevolare, magari, l’abbandono della didattica frontale», cioè di un momento essenziale della conoscenza universale, l’unica che resti valida in ogni tempo.

«La scuola ha bisogno, come dicevo, di una pianificazione, ha bisogno di accettarlo, il prodotto. Non devono ordinarlo con un clic e trovarselo arrivando a scuola, perché, secondo me, molti insegnanti sarebbero spaventati». A parte l’oscurità dei soggetti (chi ha ordinato con un clic? Evidentemente non chi si spaventa davanti al prodotto. Chi allora?) e l’aroma di stalinismo che emana dal termine pianificazione, il responsabile non si chiede perché mai gli insegnanti si spaventino; la risposta è infatti tanto facile quanto scomoda: perché si trovano davanti a strumenti dall’aria inutile o dannosa, che però devono essere utilizzati, che li costringono quindi ad abbandonare i loro metodi, in cui magari credono e che magari danno risultati eccellenti, per ridursi a dilettanti di pratiche estranee alla loro professione.

Lo spavento degli insegnanti deve essere superato e può esserlo con uno spavento più forte; continua infatti il responsabile: «L’idea è: gestire un prodotto, un’emergenza, affinché poi possa portare un beneficio anche per il futuro». Non è precisato chi goda del beneficio futuro, ma non è difficile individuarlo. «Questi strumenti esistono ormai da 8-9 anni» – e forse non è azzardato ipotizzare che in pochi li abbiano acquistati. «Abbiamo visto, testandoli e parlando con tutti gli insegnanti e con i ragazzi che li stanno utilizzando, che nel momento in cui sono inseriti all’interno di una scuola l’insegnante ha voglia di sperimentare nuove metodologie didattiche». ‘Cosa fatta, capo ha’: l’oggetto imposto con un clic esercita con la sua presenza un incanto irresistibile e ingenera in professionisti laureati, vincitori di concorso e forse esperti la voglia, sì proprio la voglia, di aprirsi a nuove tecnologie didattiche; nel contempo la scuola cessa di essere il luogo in cui si insegna e si apprende, e diventa il laboratorio in cui si fanno esperimenti. Che in questi esperimenti sempre falliti gli alunni fungano da cavie, si preferisce ignorarlo. Che debbano fallire sempre è lo stesso responsabile a confermarlo un attimo dopo: «… quindi diventa uno strumento non che risolve il problema», in effetti ne crea soltanto, «ma un incentivatore [sic] della voglia di cambiare, e questo è veramente positivo» – alimenta infatti la corsa agli acquisti.

Che un’azienda assuma toni iperbolici per sollecitare le voglie del cliente, che mostri impazienza o disprezzo per gli strumenti che questi già usa, tutto ciò è nell’ordine delle cose. Molto meno ovvio, anzi direi proprio abissale, che il MIUR si riduca a servitore di interessi particolari al punto da violare la didattica e umiliare chi la esercita. Questo stravolgimento non passi inosservato.

 

 



[1] Cfr. le dichiarazioni contenute nell’articolo al seguente indirizzo https://www.ilpost.it/2020/08/21/azzolina-banchi-rotelle-non-ndispensabili/

[2] Quanto all’impotenza del materiale digitale a migliorare la didattica è interessante la seguente ammissione leggibile in un documento dall’intento apologetico dell’Unicef (https://www.unicef.it/Allegati/SOWC_2017.pdf): «Il paradosso legato alla rivoluzione digitale nel campo dell’istruzione è stato evidenziato da Steve Jobs, fondatore e AD di Apple. Secondo Jobs, sebbene lui "sia stato il primo a donare alle scuole apparecchiature informatiche, più di chiunque altro sul pianeta", ha però aggiunto che "le lacune dell'istruzione non possono essere risolte con la tecnologia" [sic]».

Quanto al danno della strumentazione digitale sullo sviluppo e sulla didattica, cfr. per esempio Demenza digitale di Manfred Spitzer tradotto da Garzanti nel 2013.

[3] Il filmato che ho parzialmente trascritto è reperibile al seguente indirizzo: https://www.facebook.com/cremona1tv/videos/i-banchi-con-le-ruote-del-ministro-azzolina/3007010659411795/

1 commento:

  1. Grazie da parte di molti insegnanti stufi di farsi spaventare dal "nuovo che avanza inesorabile" e pronti a rispondergli con argomenti "vecchi" e sempre attuali.

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