(Riceviamo dall'amico Di Remigio, e volentieri pubblichiamo. M.B.)
IL BANCO INNOVATIVO
Paolo Di Remigio
L’acquisto dei banchi da fornire alle scuole pubbliche prima
dell’inizio dell’anno scolastico si è svolto in modi così poco trasparenti da
dare origine a un’interrogazione parlamentare a proposito di uno dei contratti
di acquisto, stipulato con una ditta priva dei requisiti per onorarlo. Come se
ciò non bastasse, nella vicenda si è manifestata la solita ossessione a
innovare che i giornali attribuiscono al ministro della pubblica istruzione, il
ministro attribuisce invece ai dirigenti scolastici. Incombe così sulla scuola
italiana una fornitura di 450.000 costosi banchi monoposto a rotelle, destinati
a rivoluzionare la didattica in perfetta sintonia con lo spirito avventuroso
della legge 107 di Renzi e Giannini[1].
Già qualcuno ha notato che l’innovazione è in contrasto con
le precauzioni igieniche: se una delle più importanti misure di prevenzione del
contagio è il distanziamento, allora occorrono banchi e sedie inchiodati
al pavimento e forniti di cinture come i sedili delle auto; e che
infilare gli alunni negli innovativi banchi a rotelle significa piuttosto invitarli
ad avvicinarsi, se non addirittura a fare dell’aula scolastica un autoscontro.
Qualcun altro ha notato che il nuovo strumento, essendo di
fatto una sedia, è in contrasto con le misure di sicurezza antisismica, che
prescrivono di trovare protezione sotto il banco per tutta la durata della
scossa, prima di evacuare l’edificio. Chi in occasione dell’epidemia ha voluto
i banchi innovativi sembra aver dimenticato che la nostra adorata Italia,
mentre ospita una popolazione suscettibile di contrarre malattie contagiose,
continua a essere sismicamente attiva quasi ovunque. Da chi si è proposto come
guida della collettività ci si aspetterebbe la capacità di saper fronteggiare più
di un pericolo nello stesso tempo.
A mio parere tocca però il punto cruciale della questione
chi si è reso conto che l’innovatività del banco a rotelle non è né nel suo
ridursi a una sedia né nelle rotelle, ma nello striminzito piano di lavoro, che
esclude per sempre dalle scuole che lo accettano l’uso di libri e
quaderni di carta, la penna per scrivere, la matita per sottolineare, la gomma
per cancellare e le relative abilità. Senza una discussione nella società
civile, nel governo, in parlamento, approfittando di un’emergenza, ignorando
l’art. 33 della costituzione antifascista che sancisce la libertà di
insegnamento, con la semplice introduzione di un articolo d’arredo scolastico si
è voluto imporre a quasi mezzo milione di alunni un modello di scuola innovata
in cui non si legge sui libri, né si scrive sui quaderni, né si disegna sugli
album – una scuola in cui l’unica manualità fine consiste nel carezzare e
pigiare lo schermo del tablet. Ammettiamo che le neuroscienze[2]
non abbiano dimostrato che la didattica digitalizzata sia a volte inutile,
quasi sempre dannosa allo sviluppo non solo cognitivo dei ragazzi;
poniamo che abbiano documentato che pigiare tasti offra soltanto vantaggi;
resta comunque un mistero come qualcuno, che pure continua ancora a spostarsi
con i suoi tradizionali piedi dopo più di un secolo dall’introduzione delle
automobili, non riesca a pensare onestamente un altro rapporto tra vecchio e
nuovo che non sia la sostituzione.
Cosa stia accadendo è spiegato con franchezza in un interessante
filmato di una ditta produttrice di banchi innovativi, C2 GROUP[3].
Il suo responsabile delle strategie educative dichiara che l’attività
dell’azienda consiste nel «seguire le scuole italiane, portando innovazione
all’interno e cercando comunque di spingere il paradigma del cambiamento per
formare i ragazzi del futuro». Il tono è quello iperbolico delle pubblicità. Chi
potrebbe infatti affermare di conoscere così in particolare il futuro da poter
decidere che il cambiamento sia il paradigma giusto per affrontarlo? Nessuno,
ovviamente. Proprio per questo educazione e istruzione rinunciano da sempre a
spacciarsi per indovine e si attengono alle conoscenze universali, cioè sempre
valide e principi delle altre conoscenze (le regole del linguaggio, gli
elementi delle scienze), quelle che si insegnano, tra l’altro, con le lezioni
frontali.
«Siamo riusciti», continua il responsabile, «grazie alla
collaborazione con i maggiori produttori di piattaforme, quindi Google e
Microsoft, a formare più di 150.000 insegnanti d’Italia, fornendo
gratuitamente formazione…». Qui scopriamo anzitutto che la pressione sulla
scuola italiana affinché accolga il paradigma del cambiamento è così irresistibile
perché è esercitata dai giganti dell’informatica; poi comprendiamo che quanto
il responsabile chiama enfaticamente ‘formazione degli insegnanti d’Italia’ è
soprattutto pubblicità, cioè induzione di un bisogno inesistente, e che proprio
per questo è gratuita.
Si viene quindi a parlare della didattica a distanza
«che non va abbandonata», sostiene la voce fuori campo, «perché», continua il
responsabile, «è un potenziamento, è un avvicinamento anche verso il mondo del
lavoro dei ragazzi. Stiamo fornendo delle competenze veramente importanti,
richieste anche un domani dal mondo del lavoro». Torna qui la ὕβρις
della conoscenza del domani con cui per un verso si giustifica
l’istituzionalizzazione di un esperimento fallito, quello della didattica a
distanza, per l’altro si vuole «agevolare, magari, l’abbandono della didattica
frontale», cioè di un momento essenziale della conoscenza universale, l’unica
che resti valida in ogni tempo.
«La scuola ha bisogno, come dicevo, di una pianificazione,
ha bisogno di accettarlo, il prodotto. Non devono ordinarlo con un clic e
trovarselo arrivando a scuola, perché, secondo me, molti insegnanti sarebbero
spaventati». A parte l’oscurità dei soggetti (chi ha ordinato con un clic?
Evidentemente non chi si spaventa davanti al prodotto. Chi allora?) e l’aroma
di stalinismo che emana dal termine pianificazione, il responsabile non
si chiede perché mai gli insegnanti si spaventino; la risposta è infatti tanto
facile quanto scomoda: perché si trovano davanti a strumenti dall’aria inutile
o dannosa, che però devono essere utilizzati, che li costringono quindi ad
abbandonare i loro metodi, in cui magari credono e che magari danno risultati
eccellenti, per ridursi a dilettanti di pratiche estranee alla loro professione.
Lo spavento degli insegnanti deve essere superato e può
esserlo con uno spavento più forte; continua infatti il responsabile:
«L’idea è: gestire un prodotto, un’emergenza, affinché poi possa portare
un beneficio anche per il futuro». Non è precisato chi goda del beneficio
futuro, ma non è difficile individuarlo. «Questi strumenti esistono ormai da
8-9 anni» – e forse non è azzardato ipotizzare che in pochi li abbiano acquistati.
«Abbiamo visto, testandoli e parlando con tutti gli insegnanti e con i ragazzi
che li stanno utilizzando, che nel momento in cui sono inseriti all’interno di
una scuola l’insegnante ha voglia di sperimentare nuove metodologie didattiche».
‘Cosa fatta, capo ha’: l’oggetto imposto con un clic esercita con la sua
presenza un incanto irresistibile e ingenera in professionisti laureati,
vincitori di concorso e forse esperti la voglia, sì proprio la voglia,
di aprirsi a nuove tecnologie didattiche; nel contempo la scuola cessa di
essere il luogo in cui si insegna e si apprende, e diventa il laboratorio in
cui si fanno esperimenti. Che in questi esperimenti sempre falliti gli alunni fungano
da cavie, si preferisce ignorarlo. Che debbano fallire sempre è lo stesso
responsabile a confermarlo un attimo dopo: «… quindi diventa uno strumento non
che risolve il problema», in effetti ne crea soltanto, «ma un incentivatore
[sic] della voglia di cambiare, e questo è veramente positivo» –
alimenta infatti la corsa agli acquisti.
Che un’azienda assuma toni iperbolici per sollecitare le
voglie del cliente, che mostri impazienza o disprezzo per gli strumenti che
questi già usa, tutto ciò è nell’ordine delle cose. Molto meno ovvio, anzi
direi proprio abissale, che il MIUR si riduca a servitore di interessi
particolari al punto da violare la didattica e umiliare chi la esercita. Questo
stravolgimento non passi inosservato.
[1] Cfr.
le dichiarazioni contenute nell’articolo al seguente indirizzo https://www.ilpost.it/2020/08/21/azzolina-banchi-rotelle-non-ndispensabili/
[2] Quanto
all’impotenza del materiale digitale a migliorare la didattica è interessante
la seguente ammissione leggibile in un documento dall’intento apologetico
dell’Unicef (https://www.unicef.it/Allegati/SOWC_2017.pdf): «Il paradosso
legato alla rivoluzione digitale nel campo dell’istruzione è stato evidenziato
da Steve Jobs, fondatore e AD di Apple. Secondo Jobs, sebbene lui "sia
stato il primo a donare alle scuole apparecchiature informatiche, più di
chiunque altro sul pianeta", ha però aggiunto che "le lacune
dell'istruzione non possono essere risolte con la tecnologia" [sic]».
Quanto al danno della strumentazione digitale sullo sviluppo
e sulla didattica, cfr. per esempio Demenza digitale di Manfred Spitzer
tradotto da Garzanti nel 2013.
[3] Il
filmato che ho parzialmente trascritto è reperibile al seguente indirizzo: https://www.facebook.com/cremona1tv/videos/i-banchi-con-le-ruote-del-ministro-azzolina/3007010659411795/
Grazie da parte di molti insegnanti stufi di farsi spaventare dal "nuovo che avanza inesorabile" e pronti a rispondergli con argomenti "vecchi" e sempre attuali.
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