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domenica 16 agosto 2020

Femminismo anticapitalista?

Femminismo anticapitalista?

(elementi di una critica del femminismo, 2)

Marino Badiale






I. Introduzione

Questo scritto parte dalla convinzione della fine relativamente vicina dell’attuale organizzazione economica e sociale, che a partire dal 1989 si è estesa al mondo intero [1]. Il collasso di questa forma sociale, il capitalismo, dipende dal fatto che essa è entrata in una fase di totale distruttività: sta ormai divorando natura e società, distruggendo in tal modo i fondamenti stessi della propria esistenza.

Se questo dato di fatto è già piuttosto preoccupante, ciò che veramente spaventa è rendersi conto della sostanziale assenza di ogni forma di opposizione o di resistenza al suicidio collettivo verso il quale il capitalismo sta portando l’umanità. Ciò dipende sicuramente da molti fattori, ma credo che uno di questi sia il fatto che chi arriva oggi a sviluppare, in un modo o nell’altro, una coscienza critica anticapitalistica, lo fa attraverso una serie di mediazioni culturali che sono in realtà completamente inadatte a costruire una resistenza effettiva. Anche qui, il discorso per essere completo dovrebbe toccare molti temi (di alcuni ho discusso recentemente [2]). Uno di questi è sicuramente la predominanza, all’interno delle minoranze anticapitalistiche, delle tesi del “politicamente corretto”. Nel breve spazio di questo scritto mi concentrerò su un punto specifico, quello del femminismo, e discuterò l’idea, molto radicata nelle piccole cerchie anticapitalistiche, che il femminismo debba essere parte essenziale di ogni progetto di superamento del capitalismo. Intendo quindi discutere le relazioni fra femminismo e anticapitalismo, e intendo criticare la tesi appena esposta. Porterò cioè argomenti a favore delle due tesi seguenti: (a) femminismo e anticapitalismo non hanno nulla di essenziale in comune; (b) il femminismo è diventato, negli ultimi decenni, uno dei pilastri ideologici di sostegno delle società capitalistiche.


II. Modo di produzione capitalistico e oppressione femminile

Se ci poniamo sul piano astratto della struttura logica del modo di produzione capitalistico, è chiaro che non c’è nessuna relazione fra tale struttura e la nozione di oppressione di un genere sull’altro. La struttura logica del modo di produzione capitalistico, nella sua essenza astratta, ha a che fare con due classi sociali (i proprietari dei mezzi di produzione e i produttori privi degli stessi mezzi) che interagiscono tramite l’acquisto, da parte dei primi, della forza lavoro dei secondi. In tutta la complessa analisi svolta da Marx di questa struttura astratta non entra in nessun modo la questione dell’oppressione di un genere, e in realtà neppure quella dell’oppressione razziale, appunto perché si tratta di una struttura astratta che esamina un tipo di relazione sociale nella sua essenzialità logica [3].

Naturalmente l’analisi storica delle concrete società capitalistiche non può fermarsi alla struttura astratta del modo di produzione, ma deve appunto “concretizzare” questa astrazione mostrando come la sua logica agisca e produca effetti storici nella realtà. Detto altrimenti, il modo di produzione capitalistico è descritto da una logica astratta che deve innervarsi nelle complesse articolazioni di una società concreta, per caratterizzare tale società come “capitalistica” e produrre effetti storici reali. Ciò significa che nelle diverse situazione l’interazione fra modo di produzione e realtà sociale può concretizzarsi in modi diversi, e questo vuol dire semplicemente che le società capitalistiche possono essere diverse fra di loro sotto svariati punti di vista, pur restando sempre società capitalistiche. È a questo livello, il livello delle interazioni fra logica del modo di produzione e concrete realtà sociali, che un’analisi di tipo marxista può articolare il tema dei rapporti fra i sessi, degli eventuali elementi di oppressione presenti in tali rapporti, e della relazione fra questo tipo di oppressione e l’organizzazione capitalistica della società, e può quindi eventualmente portare argomenti a proposito del carattere anticapitalistico della lotta di liberazione da una oppressione legata alla differenza sessuale. Ora, il punto fondamentale è che tutta questa articolazione di analisi dipende appunto dalla situazione concreta dei rapporti fra i sessi in una particolare situazione storica. Il fatto che la struttura del modo di produzione capitalistico non ha nulla a che fare col rapporto fra i sessi, implica che di per sé il capitalismo non è né maschilista né femminista: in astratto, è perfettamente pensabile una società capitalistica totalmente priva di qualsiasi forma di oppressione su base sessuale. Del resto, l’indipendenza logica fra capitalismo e oppressione di genere è implicita nella tesi femminista che l’oppressione delle donne sia un dato costante in quasi ogni società umana conosciuta, almeno da svariati millenni in qua: infatti, se è così, è evidente che l’oppressione femminile esiste da molto prima che si possa sensatamente parlare di “società capitalistica”.

Sulla base di questo argomenti, possiamo allora concludere che il modo di produzione capitalistico ha un legame solo contingente e non necessario con l’oppressione femminile, e di converso che il carattere anticapitalistico del femminismo è una contingenza storica, che in quanto tale può darsi oppure no.



III. L’oppressione femminile nella modernità

Proviamo allora ad esporre alcune brevi riflessioni sul modo in cui si sono evoluti i rapporti fra i sessi negli ultimi secoli, cioè nella fase storica in cui il modo di produzione capitalistico si è sviluppato fino a diventare la struttura sociale dominante nell’intero globo [4]. Non c’è dubbio che, in tutta la prima fase dello sviluppo delle società capitalistiche, i rapporti fra i sessi sono impostati secondo uno schema di divisione dei ruoli e dei compiti che relega la donna nella sfera famigliare e la rende, in modo formale o informale, sostanzialmente subalterna all’uomo. Osserviamo per prima cosa che tutto ciò non ha in sé nulla di “capitalistico”, e anzi deriva piuttosto da uno schema di relazioni sociali e di regole culturali tipiche dei periodi storici precedenti la modernità. In sostanza, il rapporto sociale capitalistico, nel momento in cui inizia la sua storia di sviluppo, trova nella società questo tipo di organizzazione dei rapporti fra i sessi, e la adatta alla propria logica. Si può anzi parlare, a mio avviso, di un reciproco adattamento: la famiglia tradizionale, premoderna, comincia a funzionare in un mondo sempre più plasmato dal rapporto sociale capitalistico, e quest’ultimo si adatta ad una società basata sulla famiglia tradizionale e sui suoi valori. Il meccanismo funziona perché le due sfere ricavano vantaggi reciproci: da una parte la famiglia tradizionale rappresenta un elemento di stabilità antropologica e sociale in un mondo in rapido mutamento, dall’altra lo sviluppo capitalistico offre nuove possibilità economiche ai padri di famiglia, che possono approfittarne perché liberati dai vincoli di dipendenza delle comunità premoderne e dal lavoro di cura famigliare, tradizionalmente delegato alle donne.

Questo adattamento reciproco funziona nella prima fase della modernità fino a tutto l’Ottocento, ma viene via via eroso, nel corso del Novecento, dallo stesso sviluppo capitalistico, che rende sempre più obsoleti e insostenibili i valori tradizionali, e in particolare la subalternità politica ed economica della donne. Questi sviluppi si radicano in ultima analisi nel passaggio dal capitalismo tradizionale, basato su risparmio e repressione del desiderio, al capitalismo attuale basato su consumismo ed esaltazione del desiderio [5]. Come è ben noto, a partire soprattutto dalla seconda metà del Novecento, si fanno sempre più forti ed estese le istanze di superamento dei valori tradizionali e le richieste di parità effettiva fra uomini e donne, nella famiglia e al di fuori di essa. Se si vuole scegliere una data simbolica (tenendo ovviamente sempre presente l’arbitrarietà di questo tipo di scelte) è abbastanza naturale indicare il ‘68 come il punto di svolta, il momento storico in cui le società capitalistiche iniziano ad abbandonare i valori tradizionali e ad assumere come punti di riferimento culturale quelli tipici del progressismo. Possiamo allora affermare che da svariati decenni viviamo in un mondo capitalistico nel quale la struttura culturale egemonica ha fatto proprie una serie di istanze tipiche del progressismo moderno, che le rivolgeva contro la cultura tradizionale, quella basata, per capirci, su “Dio, Patria e Famiglia”. Dovrebbe essere allora immediato rendersi conto che, se le società capitalistiche hanno potuto liberarsi di “Dio, Patria e Famiglia” e restare però società capitalistiche, questo dimostra appunto quanto dicevamo sopra, cioè che quei valori tradizionali non hanno nessun legame logico necessario col modo di produzione capitalistico. La lotta contro i valori tradizionali non era dunque di per sé una lotta anticapitalistica, era piuttosto la lotta contro una fase particolare dello sviluppo del capitalismo.

Questo ovviamente non implica in nessun modo che la lotta per l’emancipazione femminile, nella fase storica in esame, fosse superflua o sbagliata. In primo luogo, qualsiasi gruppo umano che subisca qualche forma di discriminazione ha il diritto di lottare per cambiare la propria situazione, che tale lotta sia anticapitalistica oppure no. In secondo luogo, anche dal punto di vista dell’anticapitalismo, occorre ricordare che, in ogni fase storica, ciò che si ha concretamente di fronte non è mai il modo di produzione capitalistico nella sua purezza, appunto perché si tratta di una astrazione. Si ha sempre di fronte una formazione economico-sociale determinata, e la lotta anticapitalistica è sempre lotta all’interno di una tale particolare formazione, e quindi è lotta contro la forma particolare e determinata nella quale si concretizza il modo di produzione capitalistico. In altri termini, se in una determinata fase storica il dominio del capitale si articolava attraverso “Dio, Patria e Famiglia”, allora la lotta contro tali valori tradizionali poteva avere un significato anticapitalistico. La tesi che sto sostenendo è che tale significato anticapitalistico non è dato per l’eternità, ma dipende appunto dalle caratteristiche della formazione economico-sociale nella determinata fase storica. Il problema è allora quello di capire quale sia il senso del femminismo nella società contemporanea, che ha interiorizzato la rivolta contro i valori tradizionali, e realizza quindi il dominio del capitale in forme diverse da quelle della società borghese tradizionale.



IV. La situazione attuale, ovvero l’elefante nella stanza

Da circa tre decenni la formazione economico-sociale capitalistica si è estesa all’intero pianeta ed è entrata in quella fase che è abitualmente chiamata “neoliberismo”. Le caratteristiche di questa fase storica sono state ampiamente esaminate e discusse, da una letteratura ormai amplissima. Senza ripercorrere questi dibattiti, ci basta qui ricordare alcuni aspetti molto evidenti, almeno per il pensiero critico nei confronti dell’attuale organizzazione sociale. La fase neoliberista rappresenta la risposta da parte dei ceti dominanti alla crisi degli anni Settanta, e in particolare rappresenta la sconfitta delle istanze anticapitalistiche che fermentavano nelle società occidentali (e nei movimenti di liberazione di quello che allora veniva chiamato Terzo Mondo). Nelle società occidentali si assiste a una drastico ridimensionamento del peso politico e sociale dei sindacati e del movimento operaio. A questo si accompagna una generale erosione delle conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase precedente: l’attacco ai diritti e ai redditi dei ceti subalterni è continuo e apparentemente inarrestabile. Il lavoro è sempre più precario, i salari stagnanti, le pensioni erose, i servizi pubblici come scuola e sanità sono sottofinanziati e sempre più in difficoltà. La strisciante crisi economica degli ultimi anni non fa che aggravare questa situazione. A tutto questo si aggiunge l’incipiente crisi ecologica, che, a partire dal riscaldamento globale, sta ormai minacciando, come dicevamo all’inizio, i fondamenti stessi dell’attuale civiltà. Il capitalismo neoliberista mostra quindi con ogni evidenza di essere entrato in una fase di totale distruttività, nei confronti di società e natura. Gli attuali ceti dirigenti sembrano del tutto incapaci di porsi all’altezza dei gravissimi problemi che oggi fronteggiano la nostra civiltà, e questo del tutto indipendentemente dalla loro collocazione secondo le categorie tradizionali di destra e sinistra.

Se tutto questo è chiaro, possiamo allora tornare al tema principale di questo scritto, e mettere in evidenza quello che a mio parere è un vero e proprio “elefante nella stanza”, cioè un dato di evidenza macroscopica che però viene sempre occultato, da parte di chi sostiene il carattere anticapitalista del femminismo attuale. Si tratta del fatto che gli ultimi trent’anni di storia, gli anni della vittoria planetaria del capitalismo neoliberista, se da un parte sono, come si è detto, gli anni della sconfitta dei lavoratori, dell’attacco riuscito a diritti e redditi dei ceti subalterni, della distruzione ecologica generalizzata, dall’altra parte sono anche gli anni in cui il femminismo vede una crescita continua di potere, di influenza, di risultati pratici (legislativi) nelle società occidentali. Il femminismo è ormai diventato il codice ideologico dominante: la scuola, i media, il cinema, l’accademia diffondono le tesi femministe in modo pressoché uniforme e senza reali opposizioni.

Questi fatti smentiscono in modo ovvio la tesi che la lotta femminista abbia oggi carattere anticapitalistico. Il fatto che il femminismo sia diventato il codice ideologico dominante del mondo attuale (almeno nei paesi occidentali) ci spinge però a qualche ulteriore riflessione sui rapporti fra femminismo e società capitalistica. Si potrebbe infatti sostenere che, se evidentemente il femminismo oggi non ha nessuna valenza anticapitalistica, esso sia però almeno “neutrale” rispetto all’anticapitalismo: sia cioè un’istanza autonoma di emancipazione che si sviluppa in maniera indipendente rispetto alle dinamiche del capitalismo e dell’anticapitalismo. Questa è, in astratto, una possibilità. Il fatto che il femminismo sia, come abbiamo detto, il codice culturale dominante della contemporaneità dei paesi occidentali induce però ad un certo scetticismo rispetto a questa tesi, almeno per chi crede ancora che “le idee della classe dominante sono, in ogni epoca, le idee dominanti” [6]. Si vuol dire che, se un tipo di visione del mondo viene diffusa con tutti i mezzi a disposizione dei ceti dominanti, essa debba essere in qualche modo funzionale a tali ceti. Questo ovviamente non nel senso di un “grande complotto pro-femminismo”, ma nel senso che vi deve essere un rapporto di funzionalità reciproca fra ideologie dominanti e organizzazione del dominio, altrimenti il dominio stesso entrerebbe in crisi. Ma quale potrebbe essere la funzionalità del femminismo rispetto ai ceti dominanti, in questa fase storica?



V. Femminismo funzionale

Per rispondere a questa domanda dobbiamo esporre quale sia, a nostro avviso, il problema fondamentale che si pone oggi ai ceti dominanti dei paesi occidentali. Riprendendo quanto già detto, la tesi di questo scritto è che il dato di fondo del nostro tempo è la prospettiva sempre più chiara di una fine prossima dell’attuale civiltà, e il problema di fondo degli attuali ceti dominanti è, di conseguenza, quello di mantenere il controllo dei ceti subalterni in una fase di crisi sempre più acuta. È abbastanza chiaro che si è avviato nei paesi occidentali un distacco fra élite e ceti subalterni, e questo distacco non potrà che accentuarsi. Non si tratta più solo del fatto che i ceti subalterni subiscono una continua erosione dei loro livelli di vita, dei redditi, dei diritti: questo è tipico dell’intera fase storica del neoliberismo. Si tratta ora del fatto che diventa sempre più chiaro come tutto questo, lungi dal portare a una crescita economica che avrebbe dato qualche briciola a tutti, come l’ideologia neoliberista ha finora millantato, porta invece a catastrofi sempre più gravi, e in prospettiva a una rovinosa crisi di civiltà. Quanto più crescerà la coscienza di tutto ciò, tanto più difficile sarà per i ceti dominanti continuare a gestire la protesta e la rabbia dei ceti subalterni.

Se questo inquadramento generale della situazione attuale è corretto, possiamo tentare alcune ipotesi sui motivi per i quali il femminismo risulta funzionale agli attuali ceti dominanti. Credo che gli elementi fondamentali a questo proposito siano due: da una parte il femminismo è parte di una politica di divisione dei ceti subalterni, dall’altra è un elemento di legittimazione ideologica dei ceti dominanti. Vediamo di esaminare questi due elementi nell’ordine indicato.



VI. Il femminismo come lobby delle donne

Per capire come il femminismo contemporaneo sia funzionale al capitalismo neoliberista, può essere utile ricordare il modo in cui le istanze di emancipazione femminile si articolavano all’interno dei movimenti socialisti e comunisti nella fase storica precedente il neoliberismo. In quella realtà la lotta per l’emancipazione femminile era parte di una lotta complessiva per il superamento del rapporto sociale capitalistico. Al centro di questa lotta vi era il rapporto fra capitale e lavoro, ed era compito della dirigenza politica articolare attorno a questo centro di gravità le lotte emancipative dei vari gruppi oppressi (donne, minoranze razziali). La visione generale era quella di un progresso (di tipo graduale o attraverso passaggi rivoluzionari, la questione qui non ha importanza) verso una società dove la fine dello sfruttamento capitalistico avrebbe creato le condizioni materiali per il superamento di tutte le altre forme di oppressione. Le lotte per l’emancipazione femminile erano viste come uno degli aspetti necessari di una lotta generale per il bene comune (la fine del capitalismo, il socialismo). Ovviamente questa impostazione generale poteva incontrare difficoltà nella sua applicazione pratica: potevano sorgere contraddizioni fra i vari piani della lotta, gli operai che lottavano generosamente per la propria dignità nella fabbrica potevano poi comportarsi come padri o mariti oppressivi; ma si trattava comunque, come si diceva all’epoca, di “contraddizioni in seno al popolo”, e l’abilità politica dei gruppi dirigenti dei partiti socialisti e comunisti si misurava anche nel riuscire a mediare queste contraddizioni.

Il femminismo moderno non ha evidentemente più nulla a che fare con questa impostazione del tradizionale femminismo socialista e comunista, che abbiamo qui ricordato appunto per meglio illuminare, per contrasto, le caratteristiche del primo. Le rappresentanti del femminismo moderno sono a tutti gli effetti membri dei ceti dirigenti del mondo capitalistico, e tutta la loro azione consiste in continue rivendicazioni a favore delle donne. Il femminismo attuale appare cioè come una specie di “lobby delle donne” che non fa altro che chiedere misure legislative, economiche, sociali a favore delle donne. Ora, una simile impostazione di tipo strettamente rivendicativo può avere senso quando un movimento difende gli interessi di un gruppo oppresso ed è totalmente esterno agli ambiti del potere. Ma nel momento in cui un movimento accede a tutte le sfere principali del potere (parlamento, governo, magistratura, mass media) ci si dovrebbe aspettare un’evoluzione che lo porti ad occuparsi non solo del gruppo di riferimento (le donne) ma in generale di tutte le persone: del bene comune. Non è evidentemente quello che succede. Il femminismo, una volta arrivato al potere, continua a parlare delle donne, a occuparsi delle donne, a fare rivendicazioni in favore delle donne. Funziona cioè, ripetiamoci, come la “lobby delle donne”. Il punto è che, avendo completamente rinunciato ad un’idea alternativa di organizzazione economica della società, per funzionare come lobby non deve ovviamente mettere in discussione l’assetto consolidato del potere. Se voglio ottenere finanziamenti, per gruppi o iniziative femministe di vario tipo, non posso contestare a fondo e mettere in crisi il potere economico dal quale, in ultima analisi, quei finanziamenti arrivano. Il femminismo attuale appare dunque solo come una delle tante lobby che lottano per spartirsi denaro e potere, all’interno della struttura sociale del capitalismo neoliberista. Ma l’organizzazione della politica come lotta fra le varie lobby per spartirsi denaro e potere, senza che nessuna metta in questione l’organizzazione sociale capitalistica, è esattamente la struttura più adatta alla riproduzione di tale organizzazione sociale, nella sua fase neoliberistica. Infatti se la politica si riduce a uno scontro di lobby significa che i ceti subalterni, per salvare qualche elemento di qualità della vita, hanno come unica possibilità appunto quella di organizzarsi come lobby dimenticando il bene comune e la lotta contro i ceti dominanti. Ma in questo modo inevitabilmente essi si frammenteranno secondo le varie possibili linee di divisione (donne contro uomini, bianchi contro neri, settentrionali contro meridionali, lavoratori autonomi contro lavoratori dipendenti), e finiranno per mettersi in concorrenza fra di loro. La situazione in cui i ceti subalterni sono divisi e in concorrenza fra di loro è ovviamente quella ottimale per i ceti dominanti.

Il femminismo attuale, che non mette in questione il capitalismo ma lotta per acquisire potere al suo interno, è dunque perfettamente funzionale alle caratteristiche della fase attuale del capitalismo stesso. Tutto ciò appare più evidente se si esaminano alcuni fatti concreti. Uno di questi è la richiesta, tipica del femminismo attuale, di maggiore presenza femminile nelle sfere più alte del potere, nelle “posizioni apicali”, come si dice oggi. Se la situazione contemporanea è quella di una prossima crisi di civiltà, come l’abbiamo delineata sopra, è evidente che per la maggioranza della popolazione (uomini e donne dei ceti subalterni), che subirà il peso maggiore di tale crisi, non fa nessuna differenza che il ceto dominante, incapace di fare qualcosa per fermare tale crisi, sia composto in maggioranza da uomini, o paritariamente da uomini e donne, o magari in maggioranza da donne. Mettere una simile questione al centro dei problemi significa evidentemente eludere e occultare la questione reale. Per fare un altro esempio, è significativo che il femminismo non parli mai del problema delle morti sul lavoro. Ciò dipende naturalmente dal fatto che i morti sul lavoro sono in stragrande maggioranza uomini. Il problema dei morti sul lavoro viene quindi tacitamente considerato “un problema degli uomini”, e con ciò cade la possibilità di impostare una lotta collettiva contro uno degli aspetti più oscuri dell’attuale organizzazione economica e sociale. In entrambi i casi, il risultato dell’azione del femminismo è quello di occultare ciò che potrebbe imbarazzare la narrazione dei ceti dominanti.

L’effetto pratico del femminismo è dunque di dividere i ceti subalterni contrapponendo uomini e donne, e di occultare i problemi reali che tali ceti affrontano e quelli sempre più gravi che si troveranno ad affrontare in un futuro non troppo lontano. Il fatto che il femminismo attuale risulti funzionale ai ceti dominanti si mostra con chiarezza.



VII. Il femminismo come strumento di legittimazione ideologica.

Esaminiamo ora il secondo aspetto di funzionalità del femminismo rispetto all’attuale struttura del dominio, cioè il fatto che esso funziona come strumento di legittimazione ideologica dei ceti dominanti. Si tratta, a mio avviso, dell’aspetto più significativo, e mettere in luce tale aspetto è il compito più importante che personalmente attribuisco al presente scritto.

Abbiamo sopra delineato quella che ritengo essere la situazione attuale: siamo entrati in una fase storica in cui diventeranno sempre più gravi e ingestibili i problemi della società attuale, sul piano ecologico, economico e politico. Avremo ripetute crisi, sempre più gravi, che si intrecceranno fra loro, portando a un continuo abbassamento dei livelli di vita, fino ad un crollo generalizzato dell’attuale organizzazione economica e sociale. Tale continuo peggioramento sta portando a un distacco sempre più marcato fra ceti subalterni ed élite. Il problema di fondo è che i ceti dominanti non dispongono di nessuna strategia per il superamento in senso progressivo di questa situazione. Non sono cioè in grado di offrire ai ceti subalterni nessuna prospettiva realistica, nessuna proposta di compromesso sociale che permetta da una parte la perpetuazione del loro dominio, dall’altra il soddisfacimento di almeno alcune delle richieste basilari dei ceti subalterni.

In questa situazione diventa fondamentale disporre di strategie di legittimazione ideologica. Ovviamente queste strategie fanno sempre parte degli ingredienti necessari di una egemonia sociale e politica, ma in condizioni di stabilità sociale esse si accompagnano a forme di compromesso che garantiscono un livello di vita accettabile ai ceti subalterni: e questo è esattamente quello che i ceti dominanti oggi non riescono più a fare. In tale situazione l’importanza della legittimazione ideologica è, evidentemente, molto accresciuta. La mossa ideologica fondamentale dei ceti dominanti, sostenuti dall’intero apparato della cultura e dei mass media, è quella di screditare i ceti popolari come moralmente inferiori e di accreditare se stessi come moralmente superiori. Il politicamente corretto, e in particolare il femminismo, sono una componente fondamentale di questa strategia. I ceti dominanti rappresentano se stessi come coloro che difendono valori moralmente superiori, appunto la liberazione femminile, i diritti LBGT, e in generale le istanze “politicamente corrette”, e rappresentano i ceti popolari, quando da questi ultimi emerge la protesta, come esseri moralmente inferiori: razzisti, misogini, omofobi, nazionalisti e così via, tutte caratteristiche spesso sintetizzate nel termine “fascista”. In questo modo il dominio viene rappresentato come moralmente necessario: c’è bisogno di noi, dicono in sostanza i ceti dominanti, per portare avanti le nobili cause sopra indicate, che l’orrido popolo farebbe arretrare.

Questa strategia di legittimazione ideologica può certo portare a qualche vantaggio per i ceti dominanti, nel breve periodo. Si tratta però di una impostazione che stravolge la realtà e rende ancora più difficile affrontare i problemi che la nostra società ha di fronte. I ceti popolari, infatti, non sono né fascisti né antifascisti, né misogini né femministi, né omofobi né filoLBGT: semplicemente, i ceti popolari hanno altri problemi, e chiedono a gran voce, quando protestano, che tali problemi vengano affrontati. La delegittimazione che li colpisce non fa che esacerbare la loro rabbia, e rendere più difficile la ricerca di un compromesso, che sarebbe l’unica strada sensata da percorrere. Il problema, come abbiamo già detto, è che i ceti dominanti non hanno nessun compromesso da offrire, e la loro strategia di autolegittimazione ideologica, sopra delineata, serve solo a guadagnare tempo. Ma il tempo guadagnato per il dominio è tempo perso per l’umanità, per la ricerca e l’organizzazione di strategie che possano alleviare i drammi che dovremo affrontare; è tempo che ci avvicina sempre di più al crollo di questa civiltà, con tutte le sofferenze e gli orrori che questo comporterà. Visti da questa prospettiva, gli attuali ceti dominanti possono quindi essere tranquillamente definiti come nemici del genere umano. È triste dover ammettere che il femminismo, nato per combattere una situazione di minorità della donna che andava a detrimento della dignità dell’essere umano, sia diventato una mera articolazione delle strategie di legittimazione dei nemici del genere umano. Ma questa è la realtà.



VIII. Le illusioni del femminismo di estrema sinistra.

Vi è naturalmente una obiezione agli argomenti finora sviluppati, che consiste nel distinguere fra varie forme di femminismo. Le critiche fin qui svolte colpirebbero il femminismo neoliberale ma non toccherebbero il femminismo marxista, o di estrema sinistra: infatti questa forma di femminismo è fortemente critico verso il capitalismo e il neoliberismo, e non può quindi essere accusata di farsi inglobare nelle strutture del potere attuale.

Questo obiezione appare fondata, almeno in prima analisi, se si fa riferimento alla produzione intellettuale, nella quale in effetti il femminismo marxista esprime, come il resto del marxismo accademico, interessanti punti di vista, che non possono certo essere classificati come capitalisti o neoliberisti.

Il punto è che, parlando di un mondo intellettuale di ispirazione marxista, è lecito chiedere al femminismo di estrema sinistra che ne è del rapporto con la prassi, cioè come si traducono le enunciazioni anticapitalistiche nella prassi politica. La tesi che intendo sostenere è che il femminismo di estrema sinistra vive in una situazione di falsa coscienza che è tipica dell’intero mondo dell’estrema sinistra, e che ho esaminato nel testo citato alla nota [2]. Riassumo brevemente le tesi di tale scritto, per gli aspetti che adesso ci interessano. L’estrema sinistra dei paesi occidentali, nell’intera sua storia che dura da circa un secolo, non ha mai avuto la capacità di incidere concretamente nella sfera della politica e dei suoi rapporti di forza, e questo per limiti intrinseci alla sua stessa natura. In tale situazione, chi aderisce all’estrema sinistra ha di fronte due possibilità. In primo luogo può ritirarsi dalla politica, e questo è il caso di tanti piccoli gruppi e partitini che sublimano la propria impotenza politica con la ripetizione di rituali rivoluzionari di altre epoche storiche. In secondo luogo, può scegliere di fare da supporto all’azione politica della cosiddetta “sinistra liberale” o “sinistra moderata”. Quest’ultima però è totalmente interna al mondo del capitale, è solo una delle sue articolazioni, e la sua azione politica, nella fase neoliberista, è appunto indirizzata a mettere in opera le istanze antipopolari del neoliberismo, totalmente opposte ai principi radicali che l’estrema sinistra a parole rivendica. L’evidente contraddizione è coperta dalla tesi che sia possibile influire in qualche modo sulla sinistra liberale, piegarne l’azione in senso più radicale, deviarla in direzioni più confacenti alle tesi di estrema sinistra. Ma questo è impossibile, perché per poterlo fare l’estrema sinistra dovrebbe avere quella forza politica e quel radicamento sociale che non ha e non può avere, per i suoi limiti intrinseci. Quello che succede allora, nella realtà, è che la sinistra radicale, quando collabora con la sinistra liberale, è solo un supporto a politiche capitalistiche e antipopolari, e si nasconde questa situazione con chiacchiere radicali prive di qualsiasi rapporto con la realtà. Mi sembra che la nozione di “falsa coscienza” sia quanto mai adatta a descrivere questa dinamica.

Se tutto questo è chiaro, è anche chiaro come il femminismo di estrema sinistra non faccia che ripetere questo schema: incapace di agire nella realtà, si riduce a supporto del femminismo di potere, decorando questo essere mero supporto con una fraseologia radicale.

Un esempio concreto di questa dinamica lo si è visto nel 2019, con la vicenda del Disegno di Legge 735 sulle separazioni (il cosiddetto “DDL Pillon”). Ho già discusso questo tema in un mio scritto [7], quindi non ripeto le analisi ivi svolte, per non appesantire il presente articolo, ma mi limito a riprendere le tesi che mi servono adesso, rimandando allo scritto citato per una analisi più approfondita. Per andare al nocciolo della questione, la realtà attuale delle separazioni in Italia presenta, specie in presenza di figli, una grave criticità di radice in ultima analisi economica: nella sostanza, con gli stessi redditi con i quali prima della separazione veniva mantenuta una famiglia, ora bisogna mantenerne due, e il peso di questa nuova situazione viene accollato, nella maggioranza dei casi, al padre. In presenza di persone benestanti questo comporta un deciso abbassamento del livello di vita, ma non ancora un dramma. Il dramma interviene quando si è in presenza di persone di reddito medio-basso o basso: in tal caso il netto impoverimento che viene scaricato sul padre può portare a situazioni di gravissima difficoltà, fino alla miseria vera e propria. L’unica soluzione al problema, a mio avviso, è un intervento statale che si faccia carico dell’aiuto economico alle madri separate, sollevando i padri dal peso economico oggi caricato su di loro.

Si tratta di una tematica che dovrebbe essere chiara al femminismo di estrema sinistra. Stiamo infatti parlando di lavoratori a basso reddito che vengono colpiti sul piano economico e messi in gravi difficoltà: se una persona di estrema sinistra non percepisce questo problema, che significato avrà mai il suo essere di estrema sinistra? Inoltre, l’attuale situazione crea migliaia di conflitti fra persone a basso reddito (i genitori in fase di separazione), crea cioè conflitti e contraddizioni all’interno di quel “popolo” sul quale l’estrema sinistra dovrebbe basare la sua azione politica. È chiaro che si tratta di una situazione del tutto negativa e da superare, se appunto l’essere di estrema sinistra ha qualche significato.

Su questa situazione problematica intendeva intervenire il “DDL Pillon”, stabilendo alcuni principi di equità (tempi paritari dei figli con i genitori, per esempio), ma non intervenendo però sul problema economico. Questo era chiaramente un grave limite, perché, come ho appena indicato, il punto non sta nel decidere quale dei due separati debba andare in miseria, ma sta nel prevedere un intervento pubblico per evitare che la separazione implichi la miseria. L’unica presa di posizione politica che potesse definirsi di sinistra, nel senso di preoccuparsi degli interessi dei ceti subalterni, doveva allora necessariamente prevedere i seguenti passaggi: in primo luogo, riconoscere che il sistema attuale delle separazioni va superato; in secondo luogo, valorizzare gli elementi di equità contenuti nel DDL Pillon; in terzo luogo, lottare perché esso venisse cambiato correggendo alcuni aspetti critici, in particolare per quanto riguarda il problema economico, come sopra accennato. Come è noto, non è quello che è successo. Il femminismo italiano, in tutte le sue componenti, ha scatenato un fuoco di sbarramento contro la prospettiva di eliminare l’iniquità della situazione attuale, ricevendo il sostegno quasi unanime dei media (una dimostrazione in più di come il femminismo sia ormai interno al potere). In questo modo il femminismo ha ottenuto di bloccare il DDL Pillon, e quindi di mantenere il sistema delle separazioni in Italia nella sua struttura attuale, iniqua in sé, e in particolare nei confronti dei padri di basso reddito. Il femminismo di potere ha cioè agito secondo la sua natura di “lobby delle donne”, di cui si è detto. Cosa ha fatto invece il femminismo di estrema sinistra? Esattamente quello che abbiamo descritto più sopra in astratto: si è accodato al femminismo di potere, e ha dato il suo contributo, piccolo o grande che sia, a mantenere una situazione iniqua e in contrasto con gli ideali proclamati dall’estrema sinistra. Non so se a questa azione, che è la sostanza, il femminismo di estrema sinistra abbia aggiunto qualche chiacchiera radicale per differenziarsi dal femminismo liberale. Se l’ha fatto, si tratta di pura e semplice falsa coscienza, come abbiamo spiegato sopra.



IX. Considerazioni finali. Verso una dittatura politicamente corretta, e oltre.

Per completare quanto fin qui detto, sono utili alcune considerazioni svolte da A.Zhok nel suo ultimo libro [8]. L’autore argomenta che il politicamente corretto è espressione di una egemonia all’interno dei ceti dominanti: “l’essenza del processo è quella di creare un’egemonia politico-morale presso i “ceti apicali” della società”[9]. Credo che Zhok sia nel giusto, e aggiungerei che questa egemonia è il risultato di uno scontro fra posizioni che potremmo grossolanamente definire come “destra” e “sinistra”, intese come frazioni diverse dei ceti dominanti, che differiscono su alcuni aspetti culturali ma non esprimono in nessun modo progetti alternativi di organizzazione economica e sociale. Il politicamente corretto (e quindi la cultura della frazione “di sinistra” dei ceti dominanti) appare vincente, in questa lotta per l’egemonia, probabilmente perché è quanto di meglio sia disponibile per assolvere la funzione di sostegno ideologico ai ceti dominanti e di sottomissione ideologica dei ceti subalterni, nei modi che abbiamo sopra indicato. In uno scritto recente [10] mi è sembrato di poter individuare, nell’egemonia del “politicamente corretto”, elementi di erosione di alcuni fondamentali diritti liberali degli individui: la libertà di parola e la presunzione di innocenza. Mi sembra che le tendenze di questo tipo si stiano accentuando, e non incontrino significative resistenze. Come ho sopra argomentato, ritengo che esse rappresentino una risposta dei ceti dominanti alla propria crisi di egemonia. A mio parere, tale crisi è destinata ad accentuarsi e a diventare sempre più grave, perché sempre più grave sarà lo sfaldamento dell’attuale organizzazione sociale. Di conseguenza, ritengo assai probabile che anche tali tendenze illiberali si accentueranno. Tutto questo mi porta a fare l’ipotesi che una delle direzioni di fondo del nostro tempo, nei paesi occidentali, sia quella che potrebbe portare ad una “dittatura politicamente corretta” [11]. Per quanto riguarda l’Europa, l’UE mi sembra un buon candidato per evolversi in una realtà di questo tipo. Una tale “dittatura politicamente corretta” non potrà però fermare i processi di disgregazione in corso. Di conseguenza, se si arriverà all’instaurazione di una tale “dittatura politicamente corretta”, assisteremo allo spettacolo di una base sociale sempre più colpita da disastri economici ed ecologici, con fenomeni diffusi di regressione sociale, e di un vertice che, invece di affrontare i drammi nei quali sarà coinvolta la massa della popolazione, si dedicherà a rituali politicamente corretti, come le acrobazie linguistiche per evitare ogni traccia di sessismo nel linguaggio. Si tratta della situazione tipica della decadenza di una organizzazione sociale: disgregazione sociale in basso e vuoti formalismi in alto. È probabile che una tale situazione porterà a forme di rivolta popolare, che inevitabilmente assumeranno una coloritura culturale “di destra”, dovendo contrapporsi all’egemonia del politicamente corretto. Può quindi darsi che la “dittatura politicamente corretta” venga, in qualche caso, sostituita da regimi che assumeranno la forma, per esprimerci in generale, del “populismo di destra”, e può darsi che la contrapposizione fra “dittatura politicamente corretta” e “dittatura populista di destra” continui per un certo periodo, con alterne vicende.

Il punto fondamentale è che destra e sinistra sono semplici sfumature culturali interne ai ceti dominanti, e sono entrambe incapaci di pensare una struttura economica e sociale che non sia il capitalismo: né destra né sinistra hanno in realtà nessuna idea di una organizzazione economica che superi l’evidente insostenibilità dell’attuale società. Di conseguenza, né la “dittatura politicamente corretta” né i “populismi di destra” saranno in grado di agire per prevenire il crollo traumatico dell’attuale civiltà, che colpirà in maniera particolarmente dura uomini e donne dei ceti subalterni. Quali saranno le forme sociali che l’umanità riuscirà a ricostruire dopo il crollo, è argomento sul quale non è possibile fare neppure delle congetture.

In conclusione, ritengo in questo scritto di aver portato qualche argomento a supporto delle tesi iniziali, secondo le quali la sostanziale mancanza di opposizione alla traiettoria suicida del capitalismo attuale è collegata al fatto che le poche e deboli forze che si dichiarano anticapitaliste condividono in realtà ideologie e visioni del mondo che funzionano come strategie di legittimazione del capitalismo stesso. In questo articolo ho cercato di provare questo assunto in relazione al femminismo, ma un analogo lavoro critico potrebbe e dovrebbe essere compiuto per gli altri aspetti del “politicamente corretto”. Può forse essere di consolazione osservare che tale lavoro sta iniziando, almeno in piccole cerchie [12]. Questo non sarà sufficiente a evitare il crollo della nostra civiltà, ma potrebbe fornire a chi verrà dopo alcuni elementi di razionalità e di legame con la realtà, di cui è evidente la mancanza nel mondo contemporaneo.


Genova luglio-agosto 2020.




[1] Ho sviluppato questa idea in vari scritti recenti:

http://www.badiale-tringali.it/2019/06/il-collasso.html

http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html

http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html


[2] http://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html


[3] Naturalmente Marx ha ben presente sia il tema dell’oppressione femminile, sia quello dell’oppressione di tipo razziale, ma quando interviene su questi temi non sta discutendo della struttura logica del modo di produzione capitalistico, ma di questioni ad un minore livello di astrazione.


[4] Per una esposizione precisa e sintetica delle vicende della famiglia nella modernità si veda: M.Bontempelli, La famiglia nell’attuale fase del totalitarismo neoliberista, in Id., Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia (2014), pp. 217-229. Il libro è una raccolta di articoli originariamente pubblicati sulla rivista “Indipendenza”.


[5] Non approfondiamo qui questo passaggio, studiato da una vastissima letteratura.


[6] K.Marx, F.Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti 1975, pag.35.


[7] http://www.badiale-tringali.it/2019/09/noi-vogliamo-luguaglianza.html


[8] A.Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020. Il libro è un tentativo, di grande interesse, di elaborare una “filosofia della storia corrente”, come indica il suo sottotitolo. Tutta la parte finale si collega strettamente ai temi che stiamo discutendo.


[9] A.Zhok, op.cit., pag.323.


[10] http://www.badiale-tringali.it/2020/03/la-commissione-dellamore-e-la-fine-del.html


[11] Una suggestione per la tesi di una “dittatura politicamente corretta” è venuta dalla lettura di G.Mann, J.Wainwright, Il nuovo Leviatano, Treccani 2019. Gli autori sono su posizioni di “sinistra accademica”, quindi ritengo altamente improbabile che possano condividere le analisi da me svolte.


[12] Un esempio è il libro di A.Zhok sopra citato. Altri esempi: J.Friedman, Politicamente corretto, Meltemi 2018; F.Marchi, Contromano, Zambon, 2018; R.Della Vecchia, Questa metà della terra (reperibile gratuitamente in rete:https://altrosenso.wordpress.com/qs-meta-della-terra/ ).


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