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martedì 30 giugno 2020

Una discussione sul valore-lavoro


(L'articolo di Paolo Di Remigio sulla teoria del valore-lavoro in Marx, che trovate qui,  ha stimolato un interessante commento a firma "Arturo". Paolo Di Remigio mi ha inviato una risposta ad Arturo che pubblico qui di seguito. Per completezza,  e per facilità di lettura, riporto anche il commento di Arturo. Grazie a entrambi per l'interessante discussione. M.B.)





Intervento di Arturo:

Un intervento che contiene certo spunti interessanti e anche condivisibili, ma in cui, a mio modo di vedere, emerge una debolezza di fondo: hai sostanzialmente separato la moderna economia di mercato dal capitalismo, sostituendo alla critica di quest’ultimo quella della retorica (che tale è) antistatalista liberale. In un commento mi limito a un paio di osservazioni, magari ci sarà occasione di riparlarne. Riguardo la teoria del valore da un lato accusi Marx di essere un ricardiano, dall’altro riconosci, perché è evidente, che nella logica dell’esposizione del Capitale è lo scambio a realizzare il lavoro astratto. Perché vederci una contraddizione deflagrante invece che un'incompleta purga concettuale, come fanno da decenni gli autori della Neue Marx Lektuere (ma l’aveva già detto molto tempo prima Rubin)? Non è evidente che per chi già scriveva in Per la critica dell’economia politica:

Il tempo di lavoro sociale esiste per così dire solo allo stato latente in queste merci e si manifesta soltanto nel processo del loro scambio. Non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune, ma, viceversa, da lavori particolari di individui privati, lavori che soltanto nel processo di scambio, con l’abolizione del loro carattere originale, si affermano come lavoro sociale generale. Il lavoro generalmente sociale non è quindi il presupposto bell’e pronto, è bensì risultato in divenire.

il tempo di lavoro socialmente necessario *non è* un dato di partenza individuato attraverso la produttività media, ma è determinato, o per meglio dire socialmente "validato" (gelten), nello scambio? Io ci vedo una chiara volontà di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Animati da un’identica fretta mi sembrano i giudizi sul messianesimo di Marx (sembra di rileggere Loewith o Del Noce, e non il migliore) o i pigri genealogismi che vogliono ricondurre il tradimento della sinistra, non certo solo italiana, non certo solo comunista, e non certo solo europea, a peccati d’origine marxiana: vogliamo dire che fra Marx e D’Alema di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia? D’altra parte non si può davvero concedere nulla all’interpretazione che vede in Marx un “pensatore del possibile”, come ha proposto Vadée?
Quanto alla retorica antistatalista liberale, mi pare tu stia prendendo troppo seriamente quella che è semplicemente una copertura di posizioni antidemocratiche. La citazione di Einaudi del ’22 è un buon esempio di quel che dico. Sarà il caso di ricordare che questo (presunto) acerrimo nemico dello Stato era stato favorevole all’intervento nella Grande Guerra e poi firmatario, nel ’19, insieme a Volpe e Gentile (non proprio due antistatalisti incalliti), del Programma del gruppo nazional-liberale, volto al rafforzamento dello Stato contro, a sentir loro, le minacce bolsceviche e le manovre dei gruppi finanziari (la notizia in G. Turi, Gentile, Torino, 2006, pag. 302)? A parte gli anarco-capitalisti, quali autori liberali di peso hanno mai seriamente sostenuto di voler fare a meno dello Stato? E mi taccio della prassi (per esempio la storia del diritto, particolarmente di quella continentale, di epoca liberale è segnata da tutto salvo che dall’ostilità allo Stato, al contrario). I liberali assegnano allo Stato certe funzioni, che certo non sono quelle che si augurava Hegel, ma purtroppo somigliano molto a quelle che nella realtà tende a svolgere. Dopo tante accuse di contiguità liberale rivolte a Marx alla fine la tua posizione mi pare sostanzialmente la stessa del Popper della Società aperta: lo Stato sociale da un lato soddisfa le (legittime) pretese normative del marxismo, dall’altro ne dimostra l’infondatezza scientifica. Con la non piccolissima differenza, in termini di plausibilità, che Popper scriveva all’inizio del trentennio glorioso, tu al termine di un quarantennio penoso di cui non si vede la fine.

Vogliamo concedere che la presenza dell’armata rossa prima e il riproporsi di dinamiche ottocentesche dopo autorizza a ipotizzare l’esistenza di qualche regolarità di tipo strutturale nella natura dello Stato capitalista, a chiarire la quale Marx, certo in maniera insufficiente, limitatamente a spunti che devono essere sviluppati (manca il famoso libro sullo Stato), e così via, ci può ancora aiutare (es.: https://www.cambridge.org/core/journals/review-of-international-studies/article/adam-smith-and-ordoliberalism-on-the-political-form-of-market-liberty/C09D6781C4E434370ED36FB4C66B3EAC)? Perché a me questa fretta di liquidare Marx sembra il sintomo di un tentativo di esorcizzare il dubbio che nella modernità si manifesti una spaccatura fra essere e dover essere molto più profonda, e molto meno ricucibile, di quel che Hegel pensava (o forse sarebbe il caso di dire sperava), o se preferisci una realizzazione rovesciata dei suoi presupposti di libertà ed eguaglianza nella forma della loro superficiale messa in scena, come dice Finelli, al punto che oggi uno stato sociale garante del diritto al lavoro appare poco meno utopistico di una rivoluzione comunista. Me lo domando, sinceramente, con angoscia, ma è una domanda che una posizione come la tua elude, o forse dovrei dire rimuove, e che invece purtroppo mi pare indispensabile porsi.
Chiudo menzionando un passaggio su cui concordo (per dimostrare che non intendevo indorare la pillola della critica…;-)): convengo che l’eliminazione del mercato (e della moneta, anche se a questo riguardo non l’hai menzionata) non è possibile o comunque desiderabile: mercato e moneta sono molto più antichi del capitalismo, e su questo in Marx c’è un grave difetto di storicizzazione (ma mi pare che tu faccia l’errore simmetrico, lo stesso della Arendt, se non mi sbaglio, assimilando il lavoro nel capitalismo a quello di cui parlava Aristotele).



Risposta ad Arturo (P.Di Remigio)
Il commento di Arturo cerca di risalire dall’esposizione ai miei punti di vista riposti; mi sembra però che li riconduca a uno schema che mi è estraneo, così che la stessa lettura dell’esposizione incorre in una forzatura. L’accusa che Arturo espone all’inizio è che io critico non il capitalismo, ma l’antistatalismo liberale, prendendolo sul serio, senza accorgermi che si tratta solo di retorica; per questa tenerezza nei confronti del capitalismo esaspererei la critica a Marx, che ne è critico inesorabile, scambiando per contraddizioni deflagranti delle semplici scorie. Così Arturo rovescia la conclusione a cui giungo nell’articolo: non è vero che Marx ha lasciato troppo spazio al liberalismo nel suo pensiero e che ciò ha contribuito ad attenuare gli scrupoli dei dirigenti della sinistra quando nel 1989 è finita la prospettiva della rivoluzione socialista; sono piuttosto io che enfatizzando la critica della retorica liberale dimentico la natura satanica del capitalismo.
Ora, se la critica del capitalismo comporta essenzialmente il rifiuto della proprietà privata, allora Arturo ha ragione: rinuncio a criticare il capitalismo. In questo però siamo vicini, perché neanche Arturo considera desiderabile l’eliminazione del mercato e della moneta, dunque neanche della proprietà privata. Questa vicinanza non è identità: Arturo accetta il mercato e la moneta perché non sono specifici del capitalismo, io li accetto perché considero irrinunciabile il diritto dell’individuo alla personalità, cioè alla libertà nella sua forma immediata, egoistica, accetto, per quanto nei suoi limiti, il diritto la cui esaltazione illimitata definisce il liberalismo. A proposito del quale mi sembra però ingiustificata l’accusa che io ne prenda sul serio la retorica antistatale; il punto in cui più mi espongo a essa credo sia questa proposizione: «… l’ideologia liberale esclude l’intervento statale nell’economia». Essa parla però di ideologia liberale, non di realtà del liberalismo, non implica dunque che creda nell’identità tra anarchismo e liberalismo; al contrario, penso come tutti, credo, che il liberalismo sostenga l’ideale dello Stato minimo, cioè finalizzato alla difesa della proprietà privata, assunta come valore supremo, e che la sua variante novecentesca sia così poco antistatale da riconoscere apertamente che il libero mercato (di fatto quello che garantisce l’asimmetria tra compratori e venditori della forza-lavoro) è una creazione dello Stato. Su questo secondo punto credo che al di là dell’equivoco ci sia non solo vicinanza, ma proprio identità di vedute.
Non credo però che la reazione un po’ostile di Arturo non abbia una ragione. Egli ha visto nell’articolo un eccesso di severità e lo ha interpretato come un ennesimo tentativo di liquidare Marx, come ne abbiamo visti tanti da vent’anni a questa parte. Che non voglia accodarmi a questa tendenza lo testimonia l’articolo stesso, nel punto in cui riconosce a Marx l’intuizione profonda della natura circolare dell’economia. Non voglio però negare di aver preso congedo filosofico da Marx e suppongo che proprio questo abbia colpito la sensibilità di Arturo. Forse qualche parola può essere utile a chiarirci.
Innanzitutto vorrei sfuggire al dilemma di considerare l’identità valore-lavoro una «contraddizione deflagrante» oppure una scoria. Da studioso ormai inveterato di Hegel considero la dialettica non una scepsi distruttiva, ma in unità con la speculazione, considero cioè la contraddizione come un esasperarsi della complessità della cosa che trova sbocco nella vitalità interna di una nuova forma; non credo dunque che una contraddizione condanni a morte una teoria, essa, anzi, può essere indice di una più fine sensibilità per la realtà e può essere motivo di fecondità. Insomma, se anche Marx soffrisse di questa contraddizione, non per questo penserei che essa sia deflagrante. In realtà, sarei però più propenso a considerarla una scoria, ma la cui purga concettuale si porta via molto dei motivi che hanno fatto non la grandezza ma la fortuna di Marx, propriamente ciò che nell’articolo ho chiamato ‘messianismo’, e che potrei chiamare anche ‘sopravvalutazione della storia’. La formula marxiana in cui questa sopravvalutazione è espressa nel modo più suggestivo nell’XI tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo», vale a dire, nei termini di Arturo: è arrivato il momento in cui la nostra azione può negare l’essere storico e realizzare il dover-essere, l’essenza filosofica. Alla brillante prosa dell’XI tesi oppongo quella molto più impervia del § 552 dell’«Enciclopedia» hegeliana: «Lo spirito del popolo contiene la necessità naturale ed è nell’esistenza esterna; la sostanza etica, infinita al suo interno, è per sé particolare e ristretta, e il suo lato soggettivo è affetto da casualità, da abitudine inconsapevole e dalla coscienza del suo contenuto come di un dato temporale e in rapporto a una natura e a un mondo esterni. Ma lo spirito pensante nell’eticità sopprime in sé la finitezza, che esso come spirito del popolo ha nel suo Stato e nei suoi interessi temporali, nel sistema delle leggi e dei costumi, e si innalza al sapere di sé nella sua essenzialità, un sapere che però ha la ristrettezza immanente dello spirito del popolo. Lo spirito che pensa la storia universale, cancellando le limitatezze degli spiriti del popolo particolari e la propria mondanità, afferra la sua universalità concreta e si eleva al sapere lo spirito assoluto come verità eternamente effettiva in cui la ragione sapiente è libera per sé e la necessità, la natura e la storia sono solo al servizio della sua manifestazione e sono vasi del suo onore». Hegel ha pensato non solo la ragione come astuzia, ma anche lo spirito come pazienza; perciò ha distinto tra storia e filosofia della storia: quella segue gli anni, questa segue i millenni e scaturisce dalla considerazione della storia universale; i suoi movimenti, affidati al materiale più ingrato, alle passioni umane, si diluiscono nel tempo come la storia sacra agostiniana è diluita nella storia profana. – Il messia, scrive Benjamin da qualche parte, non viene a compiere la storia, ma a interromperla: i rivoluzionari francesi facevano fuoco sugli orologi per attuare il sogno di Giosuè. È questa speranza nell’azione storica come irruzione di un tempo nuovo in un mondo perduto che vedo pulsare non solo in Marx, ma anche nella distinzione di Arturo tra essere e dover-essere. La filosofia non si arresta a questa distinzione: essa getta il suo scandaglio nelle acque inquiete dell’esistente e lascia che si inabissi fino a che tocchi il fondo solido della realtà in cui essere e dover-essere sono in unità. Con ciò non solo si riapre lo spazio alla supremazia della ragione teoretica su quella pratica, in cui consiste la profondità dello spirito occidentale, ma la storia profana e le sue convulsioni sono restituite alla politica. Il Novecento ci ha insegnato, da una parte, che un approccio messianico alla storia profana va incontro alla catastrofe: l’oscenità del fascismo non ci sarebbe stata se il socialismo non avesse bruciato le sue possibilità di azione politica nel fuoco del sogno rivoluzionario; dall’altra, che anche quando lo spirito rivoluzionario si congiunge con l’antenna politica più sensibile – come accade in Lenin – la rivoluzione non è in grado di interrompere la storia: questa dapprima la risucchia nella propria casualità e infine ne riapre la dialettica.



10 commenti:

  1. Ringrazio Paolo per la risposta. Per una mia carente capacità di sintesi fatico molto a restare entro spazi ragionevoli per un commento, quindi mi limiterò alla questione del rapporto teoria – prassi (che mi pare poi quella decisiva), accantonando tutto il resto.

    Alla famigerata XI Tesi contrapponi un passo dell’Enciclopedia; pur concedendoti senz’altro che il Marx giovane è teoricamente molto debole (diciamola tutta: senza il Capitale sarebbe solo uno degli autori della sinistra hegeliana, che erano certamente inferiori al maestro), permettimi di affiancargliene uno delle Lezioni sulla filosofia della religione: “La filosofia sotto questo aspetto è un santuario appartato e i suoi servitori costituiscono un clero isolato, che non può più coincidere col mondo [...]. Come il presente temporale, empirico, possa trovare la via d’uscita dalla sua disunione, come possa costituirsi, deve esser lasciato ad esso, e non è una faccenda e questione direttamente pratica della filosofia.

    Insomma, se vuoi dire che la filosofia può rivendicare un suo spazio autonomo di verità, quindi per esempio che l’auspicio di una “prassi totalmente pratica”, come si legge nella Sacra famiglia, è profondamente sbagliato (e tra l’altro, se preso alla lettera, autoconfutatorio del materialismo storico, come è stato notato tante volte), hai senz’altro ragione. Però poi o uno enuncia la sua verità e quindi si ritira stoicamente dal mondo, anche se non mi è chiaro come così facendo può sperare di assicurare la supremazia della teoria sulla prassi (in effetti di dignitosissime, e irrilevanti, filosofie politiche non mi pare ci sia carenza: prendiamo Habermas, che almeno si confronta anche con la democrazia dei moderni, cosa che una qualsiasi rilettura odierna delle Grundlinien non potrebbe a sua volta evitare: vedi per esempio Il diritto della libertà di Honneth); oppure si esprimerà anche su concrete vicende politiche e allora dovrà necessariamente “sporcarsi le mani” con una descrizione della realtà storica e istituzionale, se non altro per evitare di dire assurdità, per esempio che l’Unione Europea costituirebbe una benefica incarnazione della razionalità occidentale (vedi le surreali posizioni della De Monticelli giustamente fustigate da Zhok: http://antropologiafilosofica.altervista.org/cosmopolitismo-universalismo-e-lunione-europea-una-risposta-a-roberta-de-monticelli/): non mi riesce proprio di capire come e perché almeno a questo livello teorico, che evidentemente ritieni legittimo visto che lo pratichi (vedi dopo), Marx non potrebbe rientrare in gioco. Meglio lasciare campo libero agli economisti mainstream? Lasciamo magari spazio agli eterodossi, spesso legati a Ricardo, ma ai marxisti no perché…boh? Meglio impiegare implicitamente modelli non discussi? Perché, per esempio, quando nello scorso intervento alludevi a uno strumentario di politica economica ti stavi implicitamente riferendo a una modellistica: perché mai non potrebbe essere (anche) marxista? Oppure quando, come lezione ancora valida per il presente, evocavi la vicenda dei socialisti nel primo dopoguerra, stai, di nuovo, implicitamente immettendo modelli esplicativi storico-economici: quindi la storia non è solo amorfa convulsione, ma presenta tematizzabili, anche se non in chiave marxista (di nuovo, chissà mai perché), regolarità. E allora spendiamo ancora due parole su socialismo a fascismo, tanto per insinuare il sospetto, tra il serio e il faceto, che non di solo messianianesimo vive l’utopismo.

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  2. E’ un fatto poco ricordato ma nel ’20 Turati fu ripetutamente sondato da ambienti governativi per verificare la sua disponibilità a una partecipazione al governo. Alcuni passi delle lettere di quei mesi alla Kuliscioff testimoniano delle sue valutazioni: “Dover fare la parte di Noske o, peggio, di Bela Kun, per salvare la borghesia dal fallimento, e assumercelo noi, ti pare cosa desiderabile? Né desiderabile, né onesta”; alla peggio “troveremo qualche pretesto per allontanare l’amarissimo calice”: come dice Monteleone nella sua biografia di Turati (UTET, Torino, 1987, pag. 411) “Considerò il veto bolscevico come una vera e propria ancora di salvezza” (ma guarda…) essendo determinato a evitare di trovarsi a dover “noskeggiare il popolo” (bellissima espressione contenuta in una lettera del 1 marzo). Ovvero, nel contesto della restaurazione finanziaria, e quindi della deflazione, internazionale degli anni ’20, quali margini da “bruciare” restavano al socialismo? Ti concedo subito che comunisti, e ancora più i massimalisti, non sapevano realmente come compiere una rivoluzione in Italia, ma, se non vogliamo baloccarci con amenità popperiane del tipo “dipende solo da noi”, l’amara verità è che pure il socialismo democratico era arrivato al capolinea e certamente non è un caso che bersaglio degli squadristi fossero in primo luogo associazioni e sindacati riformisti, quando già nel ’21 Mussolini diceva che parlare di pericolo bolscevico in Italia era ridicolo. E’ insomma difficile sottrarsi all’ipotesi che l’unica via a disposizione dei socialisti per evitare il regime sarebbe stato fornire la richiesta sponda parlamentare alla “lesina”, come la chiamavano allora, ossia appunto l’opzione rifiutata da Turati. A differenza di Berlinguer, qualcuno potrebbe dire (mutatis mutandis, ovviamente). Ma non eravamo partiti dalla critica ai tradimenti della sinistra? :-) Ovvero i cicli di accumulazione capitalista, sia pure attraverso molte mediazioni storicamente specifiche, pesano come macigni sulla qualità della convivenza collettiva; per uno studio dei medesimi si può verificare la perdurante importanza di Marx, che mi pare vada un po’ oltre la scoperta della circolarità dell’economia (un apprezzamento generoso ma che forse andrebbe piuttosto indirizzato al Quesnay del Tableau économique), per esempio sulle ardue pagine dello straordinario libro di Anwar Shaikh sul capitalismo. Sono analisi irrilevanti per la filosofia politica? Tenderei piuttosto a pensare che sia irrilevante una filosofia politica che non ne tenga conto. Non sta a me, che filosofo non sono, spiegare come debbano essere tematizzate, ma constato con interesse che un autore certamente non estremista (per quanto, con l’arietta che tira…) come Rawls in Giustizia come equità (§ 32.6) distingua fra proprietà privata personale, connessa effettivamente a libertà e personalità degli individui, e quella dei mezzi di produzione e delle risorse naturali, a cui rifiuta di tributare identico riconoscimento. Certo come minimo Marx mi pare resti indispensabile per agire efficacemente sulla realtà senza cadere in magari generosi, ma utopistici volontarismi.
    Con ciò, sia chiaro, sono anche d’accordo che nel suo pensiero allignano elementi di utopismo astratto, per usare una categoria blochiana, tutt’altro che grandi ma purtroppo fortunati. Ne menziono due, strettamente legati, che giudico i più deleteri: un’antropologia comunitaria fusionale, che fa dei lavoratori delle pure negatività senza storia e individualità; il mito progressista del benefico sviluppo delle forze produttive. Sai bene che molti marxisti mi scomunicherebbero per simili critiche ma non dispero che un giorno si riesca a discutere serenamente di Marx...

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    1. Inserisco io la risposta di Paolo Di Remigio (M.B.)
      Prima parte:
      Grazie dei commenti stimolanti, Arturo, che ci permettono, se non di pervenire a un accordo, almeno di comprendere e rispettare le nostre maggiori preoccupazioni.
      Penso che il tempo presente si segnali non tanto, almeno non ancora (per quanto l’attuale governo si stia adoperando con energia e non è detto che non vi riesca), per la miseria materiale, come l’Ottocento in cui Marx scriveva, ma per una spaventosa miseria culturale: l’istruzione, la scuola, non soltanto sono diventate funzionali agli affari, ma sono trattate come affari; si produce così una regressione di civiltà da cui l’attuale mondo intellettuale, rassegnato a farsi reclutare nel marketing delle grandi aziende, non sembra in grado di difendersi. Benché abbia delineato la figura dell’intellettuale organico al partito, Gramsci ha rifiutato la scuola finalizzata al lavoro per i figli delle classi povere: con una nobile contraddizione egli non ha voluto negare la teoria al popolo. Anche Togliatti, indicando a un avversario politico la raccolta dei classici italiani edita da Ricciardi, ha sottolineato in quella tradizione un loro comune terreno culturale al di là dei contrasti politici. Oggi si nega invece la teoria agli stessi figli delle classi elevate e guardando cosa siano diventate le scuole e le università, dovremmo essere presi da un raccapriccio non dissimile da quello che le fabbriche e i quartieri operai dell’Ottocento destavano nei loro contemporanei meno cinici.
      Ti ringrazio della citazione di Hegel, perché mi permette di esprimere con più chiarezza le preoccupazioni che mi portano a insistere sul primato della ragione teoretica. Il punto è questo: la verità ha un’esistenza empirica, ma questa sua esistenza si apparta dall’esistenza storica (che però non concepisco come caos, come sembri intendere). Non è escluso che il teorico possa intervenire nell’esistenza storica, ma non lo fa come teorico, lo fa come politico sulla base degli strumenti a disposizione di tutti, e che non sia in grado di usarli meglio degli altri è una verità nota già a Platone. Quello che però importa è che il suo appartarsi in un santuario non sia subito squalificato come ideologia o come lusso, ma trovi la disponibilità a un’interpretazione benevola. Quando scrivi «Però poi o uno enuncia la sua verità e quindi si ritira stoicamente dal mondo…», manchi, a mio modesto avviso, di questa benevolenza. L’interpretazione benevola riposa infatti sull’inversa della tua proposizione: prima ci si ritira dal mondo, poi si enuncia la verità, verità che, peraltro, non è patrimonio di chi si è ritirato ma possesso universale. Non perché la verità sia estranea al mondo e debba compensarci della tristezza di quest’ultimo, ma perché l’essere dentro il mondo implica il prendere parte (qui potrei ricordare l’odio gramsciano per gli indifferenti), e la verità non è prendere una parte. Già la sua definizione tradizionale, adaequatio rei et intellectus, la determina come conciliazione di parti, come composizione degli opposti. Il ritrarsi dal mondo non è dunque una fuga negli intermundia, ma il sollevarsi al di sopra dell’unilateralità, la disposizione a concedere ogni diritto a ciascuno degli opposti in modo da trovare la via della loro composizione.

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    3. Risposta di Paolo Di Remigio, seconda parte (M.B.)
      Solo da questo ritrarsi dal mondo, nel senso preciso della volontà di soffocare la propria unilateralità e di abbandonarsi alla dialettica delle cose ossia al diritto di entrambi gli opposti, può nascere una cultura che non sia indottrinamento, ma universale; l’educazione alla libertà contenuta in ogni autentica istruzione è la moneta con cui la teoria ripaga il suo debito al mondo che le ha concesso di appartarsi nel santuario. Nulla più di questo mancato riconoscimento del diritto della σχολή ha alimentato l’entusiasmo con cui la sinistra ha eseguito la riforma neoliberale della cultura.
      Penso che la lotta alla miseria intellettuale sia la nostra urgenza più grave. La mia preoccupazione non è quindi abbandonare Marx, al contrario, è abbandonare ogni atteggiamento liquidatorio, compreso quello nei confronti di Marx. Per me Marx non è fuori gioco a nessun livello, fuorché nelle dichiarazioni incaute e disgraziatamente fortunate, quantunque in contrasto con il suo profondo impegno intellettuale, per cui non può rafforzare l’argine alla presente miseria. La mia preoccupazione implica quindi il rifiuto dell’atteggiamento rivoluzionario, in quanto sia congiunto al disprezzo del passato e all’intolleranza del presente, e l’assunzione di un atteggiamento conservatore. In fondo esso non è estraneo alla dichiarazione di Engels che la classe operaia è erede della grande filosofia idealistica; a questo conservatorismo lo stesso marxismo deve il fascino intellettuale che tuttora esercita su di me.
      Quanto al secondo punto di discussione, ovviamente non volevo valorizzare i riformisti a detrimento dei massimalisti. Mi riferivo al fatto che, se c’era una possibilità rivoluzionaria nel ’19-’20, essa poggiava su un’alleanza della classe operaia con i ceti medi, colpiti duramente dalle difficoltà del dopoguerra, in particolare con quei movimenti combattentistici che in mancanza di meglio fecero riferimento a D’Annunzio. A tal fine occorreva superare la polemica dei neutralisti contro l’interventismo; il purismo rivoluzionario lo impedì. Sinceramente ignoro se fu per lo stesso purismo che i riformisti rifiutarono di assecondare il tentativo di Giolitti di restaurare il suo sistema – però mi sembra esagerata, addirittura insincera, la paura di Turati che Giolitti gli avrebbe imposto la parte di Noske e incomprensibile la sua assimilazione di Noske a Bela Kun. Poiché la forza politica è condizionata dalla capacità di trovare alleanze, fu facile al fascismo colpire l’avversario che si era neutralizzato con il suo isolamento e instaurare un regime deflazionista così simile all’attuale UE. Non credo però che il ciclo economico capitalista possa avere una grande parte nella spiegazione del fascismo, nato dalle convulsioni della prima guerra mondiale in cui l’Italia entrò più per sventatezza che per precise necessità economiche, se si pensa alla miseria dei compensi previsti dal patto di Londra. In verità non credo neanche nell’onnipotenza del ciclo economico: la crisi economica è non solo un destino, ma un preciso strumento con cui il capitale abbatte la forza contrattuale dei lavoratori e può essere provocata in modo libero e consapevole. Il brutale rialzo dei tassi di interesse voluto da Volcker nel 1979, con cui iniziano i 40 anni penosi, facendo del controllo dell’inflazione il primo obiettivo della politica economica, inaugura una fase storica in cui il grande capitale rinuncia volontariamente allo sviluppo (al punto da favorire il diffondersi delle preoccupazioni ecologiche) per consolidare il suo controllo sulla società.

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    4. Risposta di Paolo Di Remigio, parte terza:
      L’ostilità alla teoria astratta, il fastidio per la conoscenza in quanto tale, l’esaltazione della viva attualità contro la spenta istruzione libresca sono sempre totalitari; nella scuola odierna essi si esprimono quasi negli stessi termini in cui si sono espressi durante il fascismo. Due sole le differenze riscontrabili tra l’antico e l’attuale totalitarismo: la maggiore capacità di resistenza degli insegnanti di allora rispetto a quelli di oggi, demoralizzati sin dagli anni ’70 dall’anarchismo sessantottino, e la maggiore sincerità del fascismo che dichiarava i suoi fini senza immergerli nella melassa del sentimentalismo inclusivo in cui annega la scuola attuale.
      Per sincerarcene leggiamo Mussolini il duce. Gli anni del consenso di De Felice, pp. 189 sgg. Ne faccio un libero compendio. Dal momento che da una parte «persino tra gli insegnanti fascisti, relativamente pochi erano quelli che spingevano il loro consenso verso il regime sino ad accettare che la scuola perdesse la sua vera funzione, diventasse scuola di conformismo e non di spirito critico, di cronaca politica e non di cultura», e che dall’altra c’era urgenza di fascistizzare la scuola, il regime impose ai maestri elementari il giuramento, autorizzò a dispensare dal servizio chi fosse incompatibile con le direttive del governo, soprattutto costituì l’Opera nazionale balilla per educare i giovani secondo i principi e gli ideali fascisti. Costituita nel ’26-27, l’ONB si sviluppò soprattutto nella prima metà degli anni ’30, quando Mussolini trasformò il ministero della Pubblica istruzione in ministero dell’Educazione nazionale e puntò sul sempre maggiore inserimento delle organizzazioni giovanili fasciste nella vita della scuola. L’educazione fisica, l’istruzione militare, la partecipazione alle vicende e alle manifestazioni del regime divennero parte integrante della vita scolastica, che vide il suo momento tradizionale e fondamentale, quello dell’istruzione, costretto a far largamente posto a quello della cosiddetta educazione, cioè dell’indottrinamento e della formazione politica dei giovani.» Nella nota De Felice aggiunge che «in quegli anni non mancarono fascisti che avrebbero voluto una prevalenza della formazione politica su quella culturale. Tipica è in questo senso l’accusa mossa nel ’33 sul «Secolo fascista» da Fanelli al ministro Ercole, di non aver valorizzato a sufficienza l’ONB e, in particolare, di averle negato i fondi necessari al suo sviluppo per darli invece alla scuola: “La lotta contro l’analfabetismo è un pregiudizio democratico, a cui il ministero immola tre quarti di tutto il bilancio dell’educazione nazionale, quasi che il dovere dello Stato fosse quello di illuminare, con l’istruzione, l’intelletto individuale, più che dirigere, con l’educazione, la volontà collettiva… Si dovevano triplicare le entrate dell’ONB… e invece avete cresciuto il numero delle scuole primarie e secondarie, dove s’impartisce un’istruzione stantia non un’educazione viva, dove s’illumina alla peggio l’intelletto non si sana la volontà…”».

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  3. Sì, una discussione molto stimolante anche per me. :-) Mi scuso coi gestori del blog, ma senza un briciolo di spazio non riesco a tenere insieme ragionamento e (minime) pezze d’appoggio: credo gli argomenti siano abbastanza interessanti da giustificare la lunghezza.

    Quel che volevo semplicemente osservare è che se una libera discussione è momento ineludibile della filosofia, come più in generale della scienza, non trovo né empiricamente né filosoficamente plausibile una separazione tra filosofia e società e nemmeno tra filosofia e democrazia. L’ha detto bene Petrucciani (http://www.topologik.net/Petrucciani.htm), quindi lo cito: “Si potrebbe sostenere che una libera discussione scientifica è impossibile in una società dispotica, e non sarebbe difficile addurre argomenti a favore di questa tesi. Ma non è neppure necessario formulare una tesi così impegnativa. Ai nostri fini è sufficiente una tesi meno drastica: ci basta sostenere che la discussione scientifica non è impermeabile al modo in cui sono organizzate le altre interazioni sociali, e che pertanto chi vuole che ognuno sia rispettato come libero partner dell’argomentazione non può non volere che ognuno sia rispettato anche come partner delle diverse interazioni sociali.

    Quindi certamente la verità è per tutti, ma è tale, ossia non diventa dogma, in quanto “i decreti” della ragione che la scoprono/riconoscono non siano “mai dettati da altro se non dall'accordo di liberi cittadini” (Kant, Critica della ragion pura). Trovo molto significativo che anche la pratica di un filosofo non democratico, ma filosofo vero, come Platone, abbia debiti pesanti verso gli usi democratici della sua città (vedi il bel libro della Monoson, Plato's Democratic Entanglements).

    Ovvero il fatto che Marx questa autonomia della teoria l’abbia sempre praticata, sudandoci sangue, e ne abbia sempre difeso e rivendicato, in una forma allargata, i presupposti istituzionali, ossia la democrazia (su questo, vedi almeno i due volumi di R. Hunt, The Political Ideas of Marx and Engels), a partire dalla libertà di espressione, dovrebbe mostrare la fragilità dei tentativi di farne, attraverso l’XI Tesi, un antesignano di Gentile (che poi di questo solitamente si tratta), ossia l’interpretazione di Marx di Gentile stesso, così come di contrapporgli una presunta “apoliticità” come condizione auspicabile, o addirittura necessaria, per il filosofo (anche se certo si possono rimproverare a Marx, e ancora di più a Engels, espressioni sbagliate o contraddittorie: un lavoro già svolto, in modo direi piuttosto soddisfacente, qualche annetto fa dal Mondolfo). O potremmo forse definire apolitico Kant che pubblicava La religione nei limiti della sola ragione a un mese dall’esecuzione di Luigi XVI? Un vero e proprio distacco mi pare difendibile solo in tempi di tirannia, ad maiora mala vitanda; poi che il filosofo, come in generale lo studioso che voglia essere fedele alla sua missione, debba sempre e comunque per prima cosa “invigilare se stesso”, come diceva il Croce, non ci piove. Forse è sul significato del termine “politico” che dovremmo intenderci: quello di Platone e Aristotele è (molto) diverso da quello di Carl Schmitt.

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  4. Quanto alla nota accusa, di solito conservatrice, rivolta al Moro di vagheggiare una instauratio ab imis della società, che, rivolta a una critica interna alla modernità con rinforzi aristotelici mi è sempre parsa poco plausibile, ho provato a cercarne le pezze d’appoggio leggendo cinque libri di Del Noce (che peraltro mette sotto accusa pure Hegel), ma nisba. :-) Marx dal mio punto di vista diventa pericoloso quando non critica abbastanza, quando cioè intende affidare al capitalismo, che tutto è salvo che conservatore, la maturazione di un frutto che si tratterà poi solo di cogliere: questo atteggiamento rischia di risolversi in una posizione filocapitalista, addirittura accelerazionista (è a partire da qui che una lettura neogentialiana di Marx, come quella operaista/negriana, seppure molto superficiale e fuorviante, può trovare qualche aggancio testuale). Si tratta di linee di pensiero tutte riconducibili a una matrice utopistica astratta, il cui miglior trattamento critico ho trovato in un libro francese, purtroppo sconosciuto in Italia, che mi permetto di consigliarti: https://www.albin-michel.fr/ouvrages/convoiter-limpossible-9782226078599 Questo però non significa che sia tale difetto che si è automaticamente trasmesso alle sinistre socialiste e comuniste, che altrimenti sarebbero state senza macchia: bisogna pazientemente verificare volta per volta sul terreno storico. Per esempio la sinistra italiana comunista era ben poco marxista, quanto piuttosto storicista: su questo puoi trovare riscontro in pensatori tanto lontani fra loro quanto Del Noce, Luporini e Preve. Così come d’altra parte trovo assai difficile attribuire a Marx i difetti del massimalismo italiano nel dopoguerra (sulla cui critica mi trovi concorde): devo tirar giù dallo scaffale Vivarelli e Andreucci? Per tacere che in ogni caso è nei “meccanismi che decidono in ultima istanza dell’integrazione delle classi subalterne”, e non principalmente all’interno della storia del movimento operaio (così P. Favilli, Storia del marxismo italiano, Franco Angeli, 1996, pag. 387: altro gran libro), che va cercata la spiegazione delle fortune e sfortune del massimalismo. E qui torniamo al nostro primo dopoguerra, l’impatto dell’ondata deflazionista di provenienza americana (il principale paese creditore: sarà un caso? :-)) sul quale stai sottovalutando molto. Non mi stupisce, perché lo sottovaluta anche la storiografia maggioritaria, ma eccezioni, anche molto autorevoli, ci sono: “The deflationary wave driven forward by America from the spring of 1920 was the true key to the ‘world-wide Thermidor’ of the 1920s, the main driver of the restoration of order, both domestically and internationally. It is to this day probably the most underrated event in twentieth-century world history.” (A. Tooze, The Deluge, Viking, N. Y., 2014, s. p.). L’Italia, paese debitore, soffriva di un grave deficit di bilancia dei pagamenti, in particolare per grano e carbone, la lira era sotto attacco e i creditori, nonché il settore finanziario interno, chiedevano una stabilizzazione il più rapida possibile. Nitti traccheggiava perché non sapeva come imporre misure impopolari senza alienarsi la maggioranza parlamentare (da ciò i contatti con Turati); la sua caduta dimostrò la “Prime Minister's inability to maintain his parliamentary majority, and, at the same time, win the confidence of the domestic and international business communities. Likewise, his failure to secure new loans in the United States and Britain in early 1920 demonstrated that further foreign assistance could not be relied upon to ease the strains of readjusting foreign trade and the balance of payments.” (D. Forsyth, The Crisis of Liberal Italy, Cambridge University Press, 1993, N. Y., pag. 235: un libro che, nonostante il vivo apprezzamento di De Cecco, non ha avuto la notorietà che secondo me meriterebbe).

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  5. I timori di Turati, che era perfettamente consapevole anche delle fortissime pressioni internazionali, erano quindi tutt’altro che infondati o esagerati. Giolitti riuscì a procedere parzialmente all’aggiustamento senza troppo sangue, peraltro di fatto versato dagli squadristi, solo grazie alla riduzione dei prezzi delle materie prime; ciò non cambia il fatto che “Giolitti and his successors made substantial progress toward financial and monetary restoration, but at the cost of parliamentary paralysis, and ultimately, of institutional crisis.


    Alla domanda su quali fossero i margini di integrazione delle classi popolari diventa quindi molto difficile dare una risposta granché incoraggiante. Poi naturalmente, scendendo di livello di astrazione, nessuno nega il ruolo di tutta una serie di fattori storici anche molto contingenti: un approccio marxista alla storia non vuol dire certo “dedurre” i fatti dalla teoria e nemmeno attribuire direttamente al fattore economico vicende storiche cruciali, ma riconoscere che la peculiarità della società capitalista (il che implica, contrariamente a quanto pensava il giovane Marx, ma conformemente a quanto elabora l’ultimo Marx, che abbandona il concetto di modo di produzione in favore di quello di “ambiente storico”, che il materialismo storico non può estendersi oltre la società capitalista) è quella di avere separato l’economico dal resto della società facendo sì che sia la sua peculiare logica crematistica, quindi apolitica, ossia priva di una misura di giustizia comunitaria, a regolare tendenzialmente i movimenti fondamentali della società, senza con ciò suggerire che si tratti di “un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa d’immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie.” tanto per citare Labriola. Non amo molto nemmeno la metafora edilizia (struttura, sovrastruttura): meglio il “campo di forza”, di cui si parla nei Grundrisse, perché altrimenti si rischia di cadere di nuovo nel monofattoriale. Tutto ciò (come minimo) precisato, si deve però poi tornare sul duro terreno dell’economia. Certo, il momento della decisione non manca mai, quella di Volcker lo fu senz’altro, ma decisione non fu la stagflazione né la circostanza che il capitalismo affronti le crisi ricercando un aumento dei profitti. Ti cito direttamente Shaikh (Capitalism, Oxford University Press, N. Y., 2016, pag. 47): “It is particularly important to note that since growth depends on net profitability and new purchasing power, it is possible that a fall in the former can be mitigated by a rise in the latter so that the growth rate would fall less than the profit rate and their ratio, the growth-utilization rate, would rise. The fall in the growth rate would increase the unemployment rate while rise in the growth-utilization rate would make the economy more inflation-prone. This is the secret of the dread “stagflation” that led to the overthrow of Keynesian theory.” Ovvero lo sviluppo è un sottoprodotto eventuale della crescita che è un sottoprodotto possibile del profitto. Tanto per dirla con Finelli, della promessa moderna dell’autonomia rimane una semplice parvenza, laddove il fenomeno consiste in un momento funzionale di un sistema sostanzialmente eteronomo (ci torno alla fine). Nota bene che se anche, per amore di discussione, vogliamo sostenere che il regresso sociale è stato il puro e semplice frutto di una scelta, come sostieni tu, sarà o no un tema rilevante per una filosofia politica dotata di un minimo di realismo istituzionale che una parte ultra minoritaria della società avesse il potere di compierla in modo così tranquillo? In effetti Rawls approda, sia pur in modo “reticente”, come dice Edmundson, al socialismo sulla base di una valutazione critica dotata di un minimo di onesto realismo di tale rovesciamento del tavolo.

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  6. In conclusione, sono d’accordo con te che ci troviamo alle prese con un nuovo totalitarismo, il cui presupposto per me va però cercato sul terreno economico, non per un’antropologia naturalista dell’homo faber, ma per una tematizzazione storico-critica ad alto livello di astrazione. Ne lascio sintetizzare il duro nodo essenziale a un economista non marxista (Paolo Leon, Il capitalismo e lo Stato): “Con economie che crescono poco, i profitti crescono poco, ma le rendite possono aumentare se cresce il grado di monopolio. Questo, come si è già visto, può avvenire sia nella finanza (mentre con le tecnologi e superiori, come l’informatica, sarebbe dovuto avvenire il contrario), sia sul mercato dei beni e dei servizi.

    Di questo totalitarismo la precarietà, anche piuttosto miserabile, direi, è il primo strumento disciplinare (non mi pare Barba e Pivetti esagerino parlando di un regresso secolare del mercato del lavoro); ne è applicazione il taylorismo digitale, per controllare e ridurre la forza lavoro; fanno seguito un consumismo tanto più chiassoso quanto anch'esso miserabile (illeggibile, secondo me, senza riferimento all’esigenza di ridurre il valore, cioè il costo, della forza lavoro); quando tutto ciò non è ancora sufficiente compare l’esplicita rivendicazione tecno-scientocratica; e ovviamente a oliare il tutto quella terrificante antropologia del capitale umano e dell’autoimprenditorialità, su cui c’è una vasta letteratura critica, da Mirowski a Dardot e Laval, inclusa la normalizzazione della scuola che descrivi tu. Il pacchetto mi pare per certi versi anche più micidiale del fascismo, che, pur avendo certo giocato un certo ruolo nel conflitto sociale era assai meno piattamente aderente alla logica capitalista rispetto all’odierno – globale! - Zeigeist e meno capace, mi pare, di diventare senso comune diffuso. Se ci siano vie d’uscita e quali non lo so, ma anche solo per pensare criticamente la direzione in cui guardare sono certo indispensabili Hegel e tutta la tradizione filosofica, ma pure Marx secondo me merita il suo adeguato spazio. Tanto per evitare inutili contrapposizioni concludo con questa poco rassicurante citazione di Keynes:“In 1940 Lord Keynes published in the United States an article in which he somewhat disconsolately reviewed the American experience with deficit spending during the previous decade. “It seems politically impossible,” he concluded, “for a capitalistic democracy to organize expenditure on the scale necessary to make the grand experiment which would prove my case—except in war conditions.” (R. Hofstadter, The Age of Reform, Vintage Books, N. Y., 1955, s.p. L’articolo di Keynes è J. M. Keynes: “The United States and the Keynes Plan,” New Republic, Vol. CIII (July 29, 1940)).

    Un saluto cordiale a tutti.

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