(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, che discute criticamente la teoria del valore-lavoro. M.B.)
Leggere il Capitale dopo il tradimento.
Paolo Di Remigio
Ai motivi di interesse che il Capitale
deve allo sforzo con cui nelle sue pagine la passione rivoluzionaria cerca di
liberarsi dal disprezzo della realtà e di farsi carico dell’imparzialità scientifica,
la storia degli ultimi decenni ha aggiunto lo stimolo a indagare quanto l’insufficienza
della critica dell’economia politica di Marx abbia facilitato alle
organizzazioni dei lavoratori il passaggio al campo avversario.
Il capitale, com’è noto, inizia con
una sezione di cui lo stesso Marx riconosceva la difficoltà e che un marxista
come Althusser, nello spirito della propaganda più che della filosofia, consigliava
addirittura di saltare. Nostro scopo è mostrare che l’origine della difficoltà
non è nella cosa stessa, cioè nella natura della merce e del denaro, ma nel compito
che Marx si è dato, quello di salvare a fini rivoluzionari l’identità di valore
e lavoro ereditata da Smith e da Ricardo, benché lui stesso si sia attribuito
giustamente il merito di averla falsificata già nel testo del 1859, Per la
critica dell’economia politica. Il salvataggio ha effetti sulla sostanza logica
del Capitale, perché lo costringe a ingaggiare una lotta con falsi
problemi come il plusvalore o la trasformazione dei valori in prezzi o la caduta
tendenziale del saggio di profitto e gli impedisce di liberarsi dai dogmi liberali
sulla natura dello Stato, dell’economia e del denaro.
1.
L’identità tra valore delle merci e tempo
di lavoro necessario a produrle, nel promettere una più sicura conoscibilità della
sostanza intima del sistema economico, allenta di fatto il rapporto con i dati
economici e svaluta il ruolo dello scambio, che è un processo non meno
essenziale della produzione. È essenziale, infatti, per l’economia che il
lavoro umano aumenti la sua potenza frammentandosi in una pluralità di lavori;
con la divisione del lavoro l’individuo si specializza come produttore di un
solo genere di bene, ma come consumatore resta universale, ha bisogno cioè di
beni di molti generi; lo scambio rappresenta il moto contrario alla divisione
del lavoro, che ne integra in un sistema il differenziarsi; e il valore dei
beni, che si afferma in ogni loro scambio, è il riconoscimento dell’essere-per-altro,
quindi dell’universalità, del prodotto individuale, è la misura in cui l’elaborazione
individuale incontra il bisogno altrui. Qualcosa di simile accade nella natura
con la differenziazione sessuale: maschio e femmina assumono un valore l’uno
per l’altra, vogliono cioè riunire le loro differenze integrandole attraverso
il loro scambio in cui prende vita il loro genere. In quanto poi i beni
prodotti individualmente hanno il carattere di proprietà privata, il
valore è l’essere-per-altro della proprietà privata, cioè, come ha mostrato
Hegel, è proprietà in forma universale[1].
Una teoria che voglia calcolare il valore senza concepirlo come ritorno alla
sintesi dalla precedente analisi ne sconvolge la natura. Un paradosso del
genere è l’identità valore-lavoro: essa vuole determinare il valore di una
merce non come suo essere-per-altro, ma con un suo in-sé, con il tempo
di lavoro speso per produrla.
Valore e tempo di lavoro nell’economia
classica dovrebbero essere identici e valore-lavoro dovrebbe esprimere una
tautologia, valore = lavoro come 1 + 1 = 2. Lungi dall’essere una tautologia,
l’espressione valore-lavoro è invece sintetica: i due termini in unità sono
diversi e portano ciascuno un proprio contributo irriducibile a quello
dell’altro: figurandovi come tempo, il lavoro contribuisce con il lato quantitativo
della calcolabilità, il valore contribuisce con il lato qualitativo
dell’omogeneità; la loro unità alimenta la speranza di poter calcolare il
valore qualitativamente identico delle diverse merci in termini di tempo di
lavoro. – È ovvio che tutte le merci sono prodotti del lavoro umano, ma è
altrettanto ovvio che lavoro umano è un’astrazione che entra
nell’esistenza solo attraverso la propria divisione: non esiste
(nel senso pregnante della datità empirica, per cui esistere è diverso
da essere) il lavoro umano in generale (se non come definizione a cui
obbediscono i lavori esistenti, cioè che sono tutti un agire con strumenti), esistono
solo lavori qualitativamente diversi tra loro. Poiché i lavori esistenti
sono diversi tra loro, i tempi di lavoro sono incommensurabili. Il
principio di ogni misura è infatti la sua identità qualitativa con il
misurato: misuriamo i segmenti con un segmento posto uguale a 1, le aree con
un’area posta uguale a 1, le forze con una forza posta uguale a 1 ecc. Il
principio di identità qualitativa vale anche per il lavoro: tempi diversi dello
stesso lavoro sono commisurabili l’uno con l’altro e, nell’ipotesi del
valore-lavoro, rivelerebbero variazioni di valore: se una tonnellata di
frumento richiedeva cento anni fa 1000 ore di lavoro agricolo, oggi ne richiede
100, qui il tempo di lavoro può essere usato come misura e si potrebbe dire che
il valore del frumento è oggi dieci volte inferiore di cent’anni fa. Ma il
lavoro indeterminatamente umano è solo un elemento astratto del concetto
concreto di lavoro e non ha esistenza indipendente; l’esistenza del
lavoro è il suo essere diviso in lavori determinati e non si dà una
misura universale che esprima proprio la determinatezza da cui prescinde[2].
L’identità valore-lavoro vuole però determinare l’equivalenza che permette lo
scambio delle merci considerandole come contenitori di tempo di lavoro indeterminato;
essa crede nella corrispondenza dei diversi lavori determinati, e in ciò ha
ragione, ma trascurando che i tempi di lavoro determinato sono
incommensurabili, si limita ad asserire che gli individui scambino le merci
sulla base del tempo di lavoro che esse hanno richiesto, delegando a
un’interpretazione di comodo dello scambio empirico il compito di ridurre i
lavori determinati al lavoro indeterminato. In effetti qui si verifica solo un
rovesciamento della realtà: si concepisce il lavoro indeterminato come
condizione dello scambio, mentre è proprio lo scambio che uguagliando le merci pone
direttamente il loro uguale valore e indirettamente la
corrispondenza dei lavori che le hanno prodotte. È lo scambio che come ritorno in
sé dalla divisione del lavoro nega la diversità delle merci e dei lavori determinati
e pone il valore come uguaglianza della diversità. I tempi di lavoro determinato
non forniscono dunque la misura del valore delle merci; essa si forma attraverso
lo scambio, dunque per il tramite di un compromesso tra interessi contrastanti,
quelli della produzione, l’offerta, e quelli del consumo, la domanda, e varia
secondo le relative e casuali posizioni di forza.
L’illusione di poter determinare il valore
prima dello scambio tramite l’oggettività dei tempi di lavoro determinato produce
l’illusione che nell’economia i contrasti di interessi che si manifestano in
ogni scambio siano apparenze non essenziali. E se i contrasti di interessi e le
posizioni di forza nel mercato sono inessenziali perché vi si scambiano merci
sulla base oggettiva e condivisa dei tempi di lavoro, allora il mercato non
solo è un sistema che si tiene in equilibrio senza bisogno di aggiustamenti esterni,
ma è anche un sistema armonico e giusto, che diffonde la
concordia tra i popoli e a ciascun individuo restituisce in termine di consumo ciò
che ciascun individuo dà in termini di produzione: il fondamento per cui l’ideologia
liberale esclude l’intervento statale nell’economia, si sente addirittura
pacifista e si intride di ripugnante moralismo[3].
È l’economia liberale ai suoi inizi che,
per tutelare gli interessi imprenditoriali, alimenta l’illusione che alla
determinazione del valore il tempo di lavoro determinato fornisca una strada più
diretta e oggettiva rispetto a quella dello scambio; l’identità valore-lavoro è
la prima versione della sua eterna tendenza a subordinare la domanda e il
consumo all’offerta e alla produzione, a proteggere cioè gli interessi dei padroni
dei mezzi di produzione e del denaro anche a costo del sistema
complessivo. L’economia liberale tollera perciò come un male necessario che con
la vendita si verifichi l’acquisto, ma recalcitra a riconoscere nell’acquisto
qualcosa di più che un cedimento alla concupiscenza. Subordinando il ruolo
della domanda e del consumo all’offerta e alla produzione, essa raggiunge
un’universalità che non è composizione degli opposti, ma astratta generalizzazione
di uno di essi. Per affermare come interesse generale l’interesse immediato
dell’offerta, essa stabilisce dunque un concetto di razionalità economica non
come disponibilità universale dei beni, diminuzione della fatica
e protezione dell’ambiente, ma come perseguimento del massimo profitto, e
con istinto totalitario riduce la varietà dei caratteri umani a quella dell’investitore
in cerca dell’impiego più profittevole per il suo capitale, perfino quando
questo consista nel mero tempo di vita. – L’integrazione degli opposti è invece
il movimento per cui ogni opposto, anziché persistere nella sua determinatezza
e tentare di soffocare l’altra, è il proprio mutare nell’altro: l’integrazione,
la vera universalità, è circolare. Marx ha colto questa natura dell’economia
nella sua geniale Introduzione ai «Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica»[4].
È questa circolarità degli opposti, come ricorda Bagnai nell’intestazione del
suo ormai storico blog, la natura della macroeconomia.
La fondazione dell’economia sull’identità
di valore-lavoro implica infine che le merci abbiano valore nello scambio soltanto
in virtù del loro essere prodotte dal lavoro nel tempo, che la
produzione, intesa come modificazione della natura in vista del consumo,
sia l’unica forma di attività che l’economia possa contemplare[5].
Se il valore è solo il tempo di lavoro contenuto nelle merci, lo scambio è scambio
solo di merci – baratto. Così diventa però impossibile concepire il
significato dell’introduzione del denaro nell’economia: se lo scambio è
essenzialmente scambio di merci, il denaro stesso si riduce a merce, cioè a metallo
prezioso, oro o argento, o a sostituto cartaceo del metallo prezioso. La
nozione di valore, volta a proteggere l’interesse del produttore nel contrasto di
interessi all’interno dello scambio, ha dunque una conseguenza tanto imprevista
quanto enorme: l’economia liberale, seguita su questo punto anche da Marx, connette
il valore alla sola produzione e ignora che il valore è non solo prodotto
ma anche creato dalla nuda volontà. La concessione di prestiti da parte
di una banca, che non dispone mai del loro intero ammontare, a fortiori le
emissioni di moneta di una banca centrale creano valore senza sudore
della fronte, con lo stesso fiat con cui Dio crea il mondo, e questo valore,
benché creato e non prodotto, non si esaurisce in una mera variazione dei nomi
dei prezzi, ma incide in profondità sull’economia e sui suoi cicli di
espansione e recessione.
2.
Marx ha scoperto l’errore di Smith e
Ricardo di confondere i lavori determinati con il valore; anziché però abbandonare
l’identità valore-lavoro, l’ha conservata in una prospettiva non solo
critica ma anche storico-messianica. Nel secondo paragrafo del primo capitolo
del Capitale (Carattere duplice del lavoro rappresentato nella merce)[6],
Marx prende le distanze dall’illusione che il valore delle merci possa essere
calcolato direttamente mediante i tempi dei lavori determinati che le
hanno prodotte: egli fa corrispondere i diversi lavori determinati ai valori
d’uso che differenziano le merci e li chiama quindi lavori utili; il valore,
che si manifesta come l’elemento identico nello scambio, corrisponde per lui non
ai diversi lavori utili, ma a un indeterminato lavoro astratto. Si
tratta di un passo avanti rispetto a Smith e Ricardo. Ma resta a metà strada. Lo
scambio non uguaglia infatti i diversi valori d’uso di merci diverse in un
identico valore; l’utilità di una merce vale anche al di fuori dello
scambio e i valori d’uso restano diversi prima e dopo essere passati di mano. Lo
scambio uguaglia il mio e il tuo: il mio vi diventa tuo e il tuo vi diventa
mio; quindi il valore identico che vi si genera non è determinabile a
partire dalla quantità di tempo di lavoro utile speso e corrisponde non a lavoro
astratto ma, come scrive Hegel nel § 493 dell’Enciclopedia[7],
a proprietà astratta. Com’è precaria la nozione di lavoro astratto così
è insicura l’operazione che vi riduce lo sciame dei diversi lavori utili
considerando soltanto la produzione, senza passare per lo scambio. Per mostrare
questa riduzione senza scambio Marx sceglie lo stile hegeliano; ma non è
l’eredità filosofica che provoca le difficoltà dell’esposizione, come si ama
pensare per risparmiarsi la fatica di studiare sul serio Hegel, a provocarle
sono i difetti logici sotto la patina dell’esposizione dialettica.
Un primo difetto consiste nell’iniziare dal
valore di scambio della merce prima di aver parlato dello scambio; in
questo modo si verifica qualcosa di simile al rovesciamento di soggetto e
predicato che il superficiale Feuerbach insinuava nella filosofia hegeliana: il
valore, che è fondato dallo scambio, ne diventa fondamento, e lo scambio, che è
il fondamento empirico del valore, ne appare fondato; il fondamento empirico
del valore astratto, cioè il valore di scambio, è così degradato a forma
fenomenica del valore astratto, e il valore astratto è posto come
direttamente esistente, nello stile del realismo filosofico medievale. È forse
la cattiva coscienza di questo rovesciamento a suggerire a Marx le espressioni sottigliezza
metafisica e capricci teologici[8]
con cui scarica sulla merce le sue forzature.
Un secondo difetto legato all’ipostasi del
valore astratto è l’inizio del Capitale dalla merce intesa come
cosa, laddove l’offerta comprende non solo cose, ma anche servizi, nel
capitalismo come in ogni altro modo di produzione. E che Marx tra le merci includa
solo le cose e non includa i servizi non solo è attestato da espressioni
inequivocabili[9],
ma dall’ultimo paragrafo del capitolo sulla merce, quello sul feticismo
della merce[10], che
ha dato la stura a un secolo e mezzo di lamenti filosofici sulla reificazione,
come se si trattasse di chissà quale destino della razionalità, mentre
l’apparire dei rapporti umani come rapporti tra le cose a cui Marx si riferisce,
più che una realtà del capitalismo, è un effetto della limitazione che egli si
è imposto all’inizio con l’obiettivo di proteggere l’identità valore-lavoro.
Già Aristotele ha infatti distinto la πρᾶξις, l’attività fine a sé
stessa, dalla ποίησις, l’attività finalizzata alle cose, e ha
considerato solo la prima compatibile con il βίος ϑεωρητικός, cioè con la
vita felice dell’uomo libero. Scegliere come inizio della critica dell’economia
le cose scambiabili significa aver tacitamente ridotto l’economia alla
considerazione della ποίησις, dell’attività finalizzata alle cose,
avendone escluso la πρᾶξις, e significa aver ridotto il lavoro umano
a lavoro soltanto esecutivo, a fatica, nonostante proprio Marx meglio di altri abbia
sottolineato l’importanza economica dell’innovazione tecnica, quindi della
teoresi scientifica che la rende possibile. La riduzione del lavoro umano a
fatica, implicita nella scelta di iniziare dalla merce-cosa, non solo facilita
la riducibilità dei lavori utili, ormai tutti esecutivi, al lavoro astratto, ma
fa dello stesso lavoro astratto un’attività soltanto esecutiva, più simile al
logorio delle macchine o al lavoro animale che al lavoro propriamente umano.
Si forma così il seguente sillogismo: dalla
riduzione dei lavori utili a forme di lavoro astratto, cioè a mero «dispendio produttivo
di cervello, muscolo, nervo, mano»[11],
come prima premessa, e dall’identità tra valore e lavoro astratto, come seconda
premessa, segue la conclusione che solo il lavoro esecutivo, propriamente la
fatica dell’operaio salariato, è per Marx formativo di valore. È ovvio però che
l’attività dell’imprenditore non è lavoro esecutivo; Marx nega dunque che
l’attività dell’imprenditore sia un lavoro che produca valore e considera il
profitto non come appropriazione di valore corrispondente all’attività dell’imprenditore,
ma come appropriazione di valore corrispondente al pluslavoro degli operai, dunque
di plusvalore, a cui l’imprenditore sarebbe autorizzato dall’aver consentito il
contatto tra lavoro vivo e mezzi di produzione e dall’avere diritto di
proprietà su quello e su questi. Ne segue che per Marx il pluslavoro
operaio non si distingue essenzialmente dalla corvée del servo medievale,
che il profitto è propriamente una rendita e che l’imprenditore è solo un
parassita del lavoro altrui. È così che Marx perde di vista il suo oggetto: sembra
parlare del capitalismo, in effetti parla del sistema feudale; non è quindi un
caso che le sue previsioni siano state smentite dalla storia. – La smentita
delle previsioni non comporta però che l’impostazione marxiana sia stata priva
di efficacia storica. Non solo la concezione del lavoro astratto ridotto a fatica
animale e nondimeno identificato come paradigma del lavoro umano in generale
può non essere stato estraneo al ristagno del progresso tecnico nel socialismo
reale: la mentalità della sinistra è caratterizzata da sempre, non meno della mentalità
liberale, da una rozza intolleranza contro la cultura fine a sé stessa, un’intolleranza
che prima l’ha squalificata a ideologia, poi ha alimentato la sopravvalutazione
critica del realismo, cioè della propaganda di partito, e infine ha attuato in
combutta con il neoliberalismo le riforme che negli ultimi trent’anni hanno
trascinato la scuola occidentale nella barbarie.
È importante allora esaminare in dettaglio
la versione marxiana dell’identità valore-lavoro. Il secondo paragrafo del
primo capitolo del Capitale inizia dal constatare che l’atto di equiparazione
delle merci (ciò che si verifica nello scambio, ma qui lo scambio non è stato
ancora introdotto) è da una parte un astrarre dalla loro utilità
specifica, per cui esse sono differenti, e dall’altra un determinare il loro valore,
per cui esse sono uguali e scambiabili. Questo valore esprimerebbe tempo di lavoro
astratto, cioè semplice lavoro umano a cui, per astrazione, si
riducono i diversi lavori utili che hanno prodotto le diverse merci equiparate.
Per facilitarsi l’astrazione che riduce i lavori utili al semplice lavoro
umano, Marx attenua i termini del problema: sceglie come esempio due lavori
utili molto vicini, la sartoria e la tessitura, e può così agevolmente
osservare che in certe società lo stesso individuo pratica l’una e l’altra e
nel capitalismo gli stessi lavoratori passano dal settore sartoria al settore
tessitura; così diventa ovvio considerare sartoria e tessitura «dispendio
produttivo di cervello, muscolo, nervo, mano»[12].
I lavori utili che lo sviluppo del capitale umano rende sempre più distanti,
quello del palombaro, quello dell’amministratore di condominio e quello del violinista,
diventano quindi forme inessenziali di un’unica materia: «Il lavoro più
complesso vale solo come lavoro semplice potenziato o meglio moltiplicato,
cosicché una quantità minore di lavoro complesso è uguale a una quantità
maggiore di lavoro semplice… Che questa riduzione accada di continuo lo mostra
l’esperienza»[13].
L’errore rilevabile in queste proposizioni
è l’applicazione immediata delle categorie quantitative alla realtà, in spregio
ai risultati della filosofia hegeliana. Essa ha mostrato che con il duplice
mutare della qualità in quantità e della quantità in qualità si produce la loro
unità immediata, la misura, cioè il quanto qualitativo. Che
l’unità di qualità e quantità nella misura sia immediata comporta certo una
loro distinguibilità, come si esprime Hegel nel § 108 dell’Enciclopedia:
«Il quanto specifico [ossia qualitativo] è in parte mero quanto e l’esistere è
suscettibile di un aumento e di una diminuzione senza che la misura… sia perciò
soppressa, ma in parte l’alterazione del quanto è anche un’alterazione della
qualità». La distinguibilità tra variazione quantitativa e variazione
qualitativa, quella per cui l’aumento della temperatura fino a 100° lascia l’acqua
allo stato liquido e questa qualità si altera solo nel passaggio al grado
successivo, è però soppressa nel § 109: «Dapprima lo smisurato è una misura
che per la sua natura quantitativa supera la sua determinatezza qualitativa.
Poiché però l’altro rapporto quantitativo, lo smisurato del primo, è
altrettanto qualitativo, lo smisurato è ugualmente una misura». Vale a dire, nella
realtà il lato quantitativo della cosa non è astratto, non è indifferente alla
qualità di questa, è anzi in grado di distruggerla; d’altra parte, la
determinatezza qualitativa distrutta (lo smisurato) non è mera quantità, ma è
una nuova cosa (Hegel dice misura) con una sua nuova determinatezza
qualitativa. Per esempio, il superamento quantitativo dell’unisono lo distrugge
e produce la dissonanza, ma la dissonanza è un suono non meno dell’unisono. – In
definitiva, mentre la variazione solo quantitativa resta nell’astrazione,
una variazione quantitativa che rinunci all’astrazione e si incarni nella
realtà si incatena perciò all’alterazione qualitativa, diventa cioè un’alterazione
di misura con cui si produce anche diversità. Il lavoro più
complesso è dunque un lavoro non solo intensificato ma anche diverso dal
lavoro semplice: l’avverbio più, cioè la variazione astrattamente quantitativa,
accompagna l’aggettivo complesso, cioè si lega alla determinatezza
qualitativa, così più complesso è determinazione di misura, esprime
quindi non solo lo stesso lavoro intensificato, ma anche un lavoro
qualitativamente diverso. Non basta dunque dire che il lavoro più
complesso sia una quantità riducibile a lavoro semplice perché è soltanto lavoro
semplice intensificato; poiché il lavoro più complesso è anche un lavoro
qualitativamente diverso da quello più semplice, occorre anche mostrare con
precisione lo strumento che nell’operare la riduzione quantitativa neghi
la loro diversità qualitativa. Il difetto dell’argomentazione marxiana è dunque
il seguente: mentre nell’esperienza, a cui Marx si richiama, la riduzione quantitativa
e qualitativa dei diversi valori d’uso delle merci al loro uguale valore
è operata dall’atto dello scambio, sul solo versante della produzione manca un
analogo atto che indipendentemente dallo scambio neghi la diversità qualitativa
dei lavori determinati e renda possibile la loro riduzione all’omogeneità del
lavoro astratto.
Gli sforzi di Marx per indicarlo sono poco
convinti e approdano a poco: «Le diverse proporzioni in cui le diverse specie
di lavori sono ridotti a lavoro semplice come alla loro misura sono stabilite
da un processo sociale alle spalle dei produttori e dunque sembrano loro date
dalla consuetudine»[14].
La consuetudine è però una spiegazione tutt’altro che soddisfacente, perché il
suo formarsi dev’essere a sua volta spiegato e difficilmente lo si può fare
tenendo separati il tempo di lavoro e lo scambio; ma se non si può escludere
quest’ultimo si cade nel diallele di spiegare lo scambio con il tempo di
produzione e il tempo di produzione con lo scambio. Ricorrere poi alla
consuetudine nel contesto del capitalismo, la cui classe dominante, la
borghesia, secondo il Manifesto, rivoluziona incessantemente ogni abitudine[15],
non è che una scappatoia, proprio come l’espressione «un processo sociale alle
spalle dei produttori» ricorda l’espediente preferito dagli idealisti
trascendentali, quello di usare come principio di spiegazione della coscienza
ciò che per principio non si presenta alla coscienza[16],
e contiene la tentazione di sottrarsi al controllo critico.
In mancanza di un processo esistente di
riduzione dei lavori utili al lavoro astratto, l’unica soluzione plausibile che
Marx ha in mente, ma tace in questo contesto per riferirvisi però di continuo
negli altri, è lo scambio stesso: in quanto ha il potere diretto di
astrarre dai diversi valori d’uso e di determinare il valore, lo scambio di
merci ha il potere indiretto di ridurre i lavori utili a ciò che per
Marx è lavoro astratto. In questo modo sarebbe raddrizzato il rovesciamento tra
il valore e la sua forma fenomenica, il valore di scambio, e sarebbe
recuperata l’essenza umana del lavoro astratto, che non è semplice dispendio di
organi corporei come si esprime Marx, ma implica anche creatività, impulso all’innovazione.
Nel seguito del Capitale è infatti lo
scambio che equiparando le diverse merci prodotte dai diversi lavori utili crea
il valore a cui Marx fa corrispondere il lavoro astratto, è lo scambio cioè che
astrae dalla diversità non solo dei valori d’uso ma anche dei lavori utili e
giunge all’uguaglianza del lavoro astrattamente umano. All’inizio del secondo
paragrafo del terzo capitolo, quello sul denaro, Marx si esprime in questi
termini: «Ma senza il permesso e dietro le spalle del nostro tessitore, le tradizionali
condizioni produttive della tessitura sono in fermento. Ciò che ieri… era senza
dubbio tempo di lavoro socialmente necessario per produrre 1 braccio di tela,
oggi cessa di esserlo… Sia posto infine che ogni pezza di tela sul mercato
contenga soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario. Nondimeno la somma
complessiva di queste pezze può contenere tempo di lavoro speso in modo
superfluo. Se lo stomaco del mercato non riesce ad assorbire la quantità
complessiva di tela al prezzo normale di 2 scellini per braccio, ciò dimostra
che è stata spesa in forma di tessitura una parte troppo grande del tempo complessivo
di lavoro sociale: l’effetto è lo stesso che se ogni singolo tessitore avesse
impiegato nel suo prodotto individuale più del tempo di lavoro socialmente
necessario. Qui si dice: presi insieme, impiccati insieme. Tutta la tela sul
mercato vale come un unico articolo commerciale, ogni pezza solo come una sua
parte aliquota. E di fatto il valore di ogni braccio individuale è anche
soltanto il materializzarsi della stessa quantità socialmente determinata di
lavoro umano omogeneo»[17].
Come si vede, entrambi i casi, sia quello del diminuire del tempo di lavoro
astratto necessario a produrre una merce e quindi del suo valore per effetto
dell’aumento della forza produttiva, sia quello di una sovrapproduzione
rispetto alla domanda, comportano che tempo di lavoro astratto e valore fissati
sul solo versante dei produttori dalla consuetudine siano smentiti e annullati
al momento dello scambio; ed è lo scambio che pronuncia l’ultima parola sulla
quantità di tempo di lavoro sociale effettivamente contenuta nel tempo di lavoro
utile, contro ogni determinazione effettuata nella fase produttiva: se il
mercato non assorbe tutta la quantità di una merce prodotta, per quanto i tempi
di produzione siano stati quelli socialmente necessari secondo consuetudine, il
valore stesso, non solo il prezzo, si riduce, e con il valore si riduce
il tempo di lavoro sociale. Di fatto è dunque lo scambio che per Marx riduce non
solo i valori d’uso al valore di scambio, ma anche i tempi dei lavori utili al
tempo di lavoro astratto.
Marx ha criticato la teoria del
valore-lavoro senza rigettarla, perché al messianismo del rivoluzionario era più
funzionale l’impostazione conservatrice di Ricardo che lo strumentario della
politica economica. La conservazione della teoria criticata gli prometteva tre
vantaggi: eludere la casualità che Aristotele aveva intuito nell’essenza dello
scambio e che evoca la necessità non della rivoluzione socialista ma della
guida statale della società civile[18];
assicurarsi l’esistenza di profonde necessità per cui il capitalismo sarebbe
condannato a sopprimersi; prospettare la società socialista che, abolita la
forma di merce, avrebbe organizzato l’economia proprio a partire dalla
produzione. Impressionato dalla condizione disumana dei lavoratori, Marx non si
è posto in tutta la sua portata il problema delle conseguenze dell’abolizione
della merce, al punto che i tanti che a lui si richiamano consapevolmente o
meno usano il termine mercificazione come sinonimo di degrado. La merce
è però non una minaccia all’umanità, ma il bene scambiato tra proprietari
privati; la sua abolizione equivale a sopprimere la proprietà privata, quindi
l’intera sfera del diritto privato, cioè i diritti della persona sulle cose e
sul suo stesso corpo. È vero che la proprietà non è il concetto supremo del
diritto, come pretende il liberalismo: essa non si estende alla famiglia, i cui
membri non si rapportano come persone ma come se fossero rami dello stesso
albero o membri dello stesso corpo, ed è limitata nell’ambito dello Stato che
deve fare valere l’interesse comune; oltre questi casi la soppressione della
proprietà privata è però violenza contro le cose o contro le persone, e questo
meriterebbe la riflessione del rivoluzionario.
C’è un ultimo problema. La concezione del
valore come tempo di lavoro astratto, genericamente umano, nell’ignorare il
momento creativo del lavoro, cioè la sua capacità di ridurre la natura a
strumento, trascura che l’effettuazione di uno scambio è sempre il risultato di
un giudizio positivo emesso dall’acquirente; nel suo contenuto logico, valore
è soltanto il giudizio in senso pregnante (nella classificazione hegeliana, il
giudizio di concetto). E insieme alla valutazione positiva dell’oggetto dello
scambio è espressa una valutazione indiretta sull’abilità dei suoi produttori.
È vero che lo scambio di merci è fatto per lo più di valutazioni imperfette,
che Amedeo Modigliani ebbe più difficoltà a svendere i suoi stupendi ritratti
di quante ne ebbe Piero Manzoni a vendere la sua opera più nota. Si tratta però
non di un difetto dello scambio di merci, ma della difficoltà del valutare. Privare
la domanda del suo diritto e rimetterlo all’offerta significa non solo
rinunciare alla valutazione del risultato del lavoro e rassegnarsi, come accade
nell’attuale scuola pubblica senza qualità, all’ipocrita valutazione del
processo, ma costituisce l’illibertà nella sua forma economica, quale si
verifica dunque non solo con il monopolio, ma anche con la socializzazione totale
dei mezzi produzione. Che infatti la produzione risponda a un potere
democratico non elimina il fatto che l’individuo sia privato della possibilità
di valutare e dell’esperienza dell’errore. Stessa illibertà si verificherebbe sul
versante della produzione: la trasformazione del lavoro utile privato in lavoro
socialmente necessario non sarebbe effetto di un libero confronto tra offerta e
domanda, ma di direttive decise, nel migliore dei casi, con metodo democratico
ma non per questo meno repressivo dell’arbitrio individuale, negli altri casi,
con metodo tecnocratico. Il grigiore del socialismo reale non è dunque un
risultato in contrasto con la socializzazione dei mezzi di produzione. Poiché
rappresenta non solo il potere del venditore ma anche il potere del compratore,
che non necessariamente possiede i mezzi di produzione rappresentati dal denaro
e dalla scienza, lo scambio contiene un elemento di ineliminabile democrazia,
come il suffragio universale; per questo la sua svalutazione e il progetto di
un’economia regolata dalla parte dell’offerta hanno connotati totalitari.
[1]
Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 493: «Oltre a distinguere
il sostanziale del contratto dalla sua esecuzione che, come effetto
reale, è ridotta a conseguenza, la stipulazione pone nella cosa o nella
prestazione la differenza tra l’immediata conformazione specifica e il sostanziale,
il valore, in cui quel qualitativo si altera in determinatezza
quantitativa; in questo modo una proprietà diventa confrontabile con un’altra e
può essere equiparata a ciò che ha qualità del tutto eterogenee. Così la
proprietà è posta come cosa astratta, universale». Vale a dire, non solo
la stipulazione rende valido il contratto prima della sua esecuzione, ma della
specifica conformazione qualitativa della cosa o del servizio fa un valore
determinato solo quantitativamente, tramite cui beni e servizi eterogenei
diventano confrontabili. In Hegel c’è tutto quello che, come mostreremo, manca
nell’identità valore-lavoro: 1. non lo scambio effettivo, ma la stipula del
contratto è il sostanziale, perciò i rapporti creditizi (in cui non solo si usa
ma si crea denaro) sono non meno originari dei pagamenti sull’unghia; 2.
la stipula del contratto riduce la diversità qualitativa di beni e servizi
all’uguaglianza quantitativa del valore; 3. il valore è, non tempo di
lavoro universale, ma proprietà posta come universale, la negazione non
dei valori d’uso, come sostiene Marx, ma dell’esclusività del mio e del tuo: lo
scambio è il processo in cui il mio non è mio e il tuo non è tuo, ma il mio è
tuo e il tuo è mio, in cui la proprietà esclusiva diventa proprietà universale;
questa proprietà in forma universale è il valore.
[2]
Hegel, Wissenschaft der Logik. Das Sein. Hamburg 1999, p. 228: «Il metro
non deve essere una misura fondamentale nel senso in cui le misure naturali
delle cose particolari vi siano rappresentate e ne siano conosciute secondo una
regola come specificazione di un’unica misura universale, della misura del loro
corpo universale. Senza questo senso un metro assoluto perde però il suo
significato e il suo interesse».
[3]
Ricordiamo per esempio come Luigi Einaudi commentò sul Corriere della sera
del 6 settembre 1922 il programma appena redatto da Rocca e Corgini per il PNF:
«Questo giornale… è lieto che un partito, qualunque ne sia il nome, ritorni
alle antiche tradizioni liberali, si riabbeveri alla sorgente immacolata
di vita dello stato moderno, e augura che esso non degeneri e concorra
ad attuare seriamente il programma liberale, senza contaminarlo con impuri
contatti.» (Citato in Renzo De Felice, Mussolini il fascista. 1. La
conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1995, p. 332. I corsivi
sono nostri.)
[4]
Cfr. Marx-Engels, Opere, vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma 1986, pp.
15-43. Cfr. in particolare p. 33: «Il risultato al quale perveniamo non è che
produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, bensì che essi
tutti sono momenti di una totalità, differenze all’interno di un’unità… Ha
luogo interazione tra i differenti momenti. Ciò avviene in ogni insieme
organico.»
[5]
Ciò si trasmette dall’economia liberale a Marx, in cui, in modo simile a quanto
accade nella teoria del valore, si verifica una coesistenza tra determinazione
univoca di origine liberale e circolarità di origine hegeliana, tra predominio
della produzione e interazione dei momenti economici; cfr. ibidem: «La
produzione predomina sia su sé stessa nella sua determinazione antitetica, sia
sugli altri momenti.»
[6]
Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo.
Einaudi, Torino 1975. Nelle citazioni la traduzione di Cantimori è rimaneggiata.
Il secondo paragrafo va da p. 50 a p. 57.
[7]
Cfr. la prima nota.
[8] Marx,
op. cit., p. 86.
[9]
Cfr. Marx, op. cit., p. 43: «La merce è in primo luogo un oggetto
esterno, una cosa, che con le sue qualità soddisfa bisogni umani di qualsiasi
tipo».
[10]
Cfr. Marx, op. cit., pp. 86 sgg.
[11] Marx,
op. cit., p. 54; nella stessa pagina il lavoro astratto è considerato
«forza-lavoro semplice che in media ogni uomo comune senza particolare
sviluppo possiede nel suo organismo fisico».
[12] Marx, op. cit., p. 54.
[13] Ibidem.
[14] Marx,
op. cit., p. 55.
[15]
Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere, VI,
Editori Riuniti, Roma 1973, p. 489: «La borghesia non può esistere senza
rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di
produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali».
[16] Fichte,
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, § 1: «Neanche per mezzo di
questa riflessione astraente può diventare fatto di coscienza ciò che in sé non
è tale». Ricorrere alle zone oscure della coscienza ha il difetto di discriminare
tra coscienze comuni per le quali quelle zone resterebbero eternamente oscure se
non ci fossero le coscienze privilegiate in grado di illuminarle – un peccato
di elitismo che dall’idealismo trascendentale si trasmette al concetto marxiano
di ideologia, passa per la concezione lukácsiana della speciale coscienza di
classe del proletariato e finisce nella penosa polemica dell’attuale sinistra
contro il suffragio universale.
[17] Marx,
op. cit., pp. 130-31.
[18] Motivo
ben presente in Hegel; cfr. per esempio il § 537 dell’Enciclopedia: «…
Rispetto all’estremo della singolarità intesa come moltitudine di individui, la
funzione in generale dello Stato è duplice: per un verso li
conserva come persone, quindi fa del diritto una realtà necessaria, ne
favorisce poi il benessere, a cui ognuno innanzitutto provvede per sé,
ma che ha assolutamente un aspetto universale, protegge la famiglia e guida la
società civile, – per l’altro verso riconduce alla vita della sostanza
universale famiglia e società civile e l’intero sentimento ed attività del
singolo, che tende a essere per sé un centro, e in questo senso esso è la
potenza libera che interrompe quelle sfere che gli sono subordinate e le
conserva nell’immanenza sostanziale». Come si vede, per Hegel il benessere
degli individui non risulta naturalmente dalla virtù del libero mercato, ma ha
un aspetto universale che sfugge alla «razionalità economica» e a cui lo Stato
provvede guidando la società civile.
Un intervento che contiene certo spunti interessanti e anche condivisibili, ma in cui, a mio modo di vedere, emerge una debolezza di fondo: hai sostanzialmente separato la moderna economia di mercato dal capitalismo, sostituendo alla critica di quest’ultimo quella della retorica (che tale è) antistatalista liberale. In un commento mi limito a un paio di osservazioni, magari ci sarà occasione di riparlarne.
RispondiEliminaRiguardo la teoria del valore da un lato accusi Marx di essere un ricardiano, dall’altro riconosci, perché è evidente, che nella logica dell’esposizione del Capitale è lo scambio a realizzare il lavoro astratto. Perché vederci una contraddizione deflagrante invece che un'incompleta purga concettuale, come fanno da decenni gli autori della Neue Marx Lektuere (ma l’aveva già detto molto tempo prima Rubin)? Non è evidente che per chi già scriveva in Per la critica dell’economia politica:
“Il tempo di lavoro sociale esiste per così dire solo allo stato latente in queste merci e si manifesta soltanto nel processo del loro scambio. Non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune, ma, viceversa, da lavori particolari di individui privati, lavori che soltanto nel processo di scambio, con l’abolizione del loro carattere originale, si affermano come lavoro sociale generale. Il lavoro generalmente sociale non è quindi il presupposto bell’e pronto, è bensì risultato in divenire.”
il tempo di lavoro socialmente necessario *non è* un dato di partenza individuato attraverso la produttività media, ma è determinato, o per meglio dire socialmente "validato" (gelten), nello scambio? Io ci vedo una chiara volontà di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Animati da un’identica fretta mi sembrano i giudizi sul messianesimo di Marx (sembra di rileggere Loewith o Del Noce, e non il migliore) o i pigri genealogismi che vogliono ricondurre il tradimento della sinistra, non certo solo italiana, non certo solo comunista, e non certo solo europea, a peccati d’origine marxiana: vogliamo dire che fra Marx e D’Alema di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia? D’altra parte non si può davvero concedere nulla all’interpretazione che vede in Marx un “pensatore del possibile”, come ha proposto Vadée?
Quanto alla retorica antistatalista liberale, mi pare tu stia prendendo troppo seriamente quella che è semplicemente una copertura di posizioni antidemocratiche. La citazione di Einaudi del ’22 è un buon esempio di quel che dico. Sarà il caso di ricordare che questo (presunto) acerrimo nemico dello Stato era stato favorevole all’intervento nella Grande Guerra e poi firmatario, nel ’19, insieme a Volpe e Gentile (non proprio due antistatalisti incalliti), del Programma del gruppo nazional-liberale, volto al rafforzamento dello Stato contro, a sentir loro, le minacce bolsceviche e le manovre dei gruppi finanziari (la notizia in G. Turi, Gentile, Torino, 2006, pag. 302)? A parte gli anarco-capitalisti, quali autori liberali di peso hanno mai seriamente sostenuto di voler fare a meno dello Stato? E mi taccio della prassi (per esempio la storia del diritto, particolarmente di quella continentale, di epoca liberale è segnata da tutto salvo che dall’ostilità allo Stato, al contrario). I liberali assegnano allo Stato certe funzioni, che certo non sono quelle che si augurava Hegel, ma purtroppo somigliano molto a quelle che nella realtà tende a svolgere. Dopo tante accuse di contiguità liberale rivolte a Marx alla fine la tua posizione mi pare sostanzialmente la stessa del Popper della Società aperta: lo Stato sociale da un lato soddisfa le (legittime) pretese normative del marxismo, dall’altro ne dimostra l’infondatezza scientifica. Con la non piccolissima differenza, in termini di plausibilità, che Popper scriveva all’inizio del trentennio glorioso, tu al termine di un quarantennio penoso di cui non si vede la fine.
Vogliamo concedere che la presenza dell’armata rossa prima e il riproporsi di dinamiche ottocentesche dopo autorizza a ipotizzare l’esistenza di qualche regolarità di tipo strutturale nella natura dello Stato capitalista, a chiarire la quale Marx, certo in maniera insufficiente, limitatamente a spunti che devono essere sviluppati (manca il famoso libro sullo Stato), e così via, ci può ancora aiutare (es.: https://www.cambridge.org/core/journals/review-of-international-studies/article/adam-smith-and-ordoliberalism-on-the-political-form-of-market-liberty/C09D6781C4E434370ED36FB4C66B3EAC)? Perché a me questa fretta di liquidare Marx sembra il sintomo di un tentativo di esorcizzare il dubbio che nella modernità si manifesti una spaccatura fra essere e dover essere molto più profonda, e molto meno ricucibile, di quel che Hegel pensava (o forse sarebbe il caso di dire sperava), o se preferisci una realizzazione rovesciata dei suoi presupposti di libertà ed eguaglianza nella forma della loro superficiale messa in scena, come dice Finelli, al punto che oggi uno stato sociale garante del diritto al lavoro appare poco meno utopistico di una rivoluzione comunista. Me lo domando, sinceramente, con angoscia, ma è una domanda che una posizione come la tua elude, o forse dovrei dire rimuove, e che invece purtroppo mi pare indispensabile porsi.
RispondiEliminaChiudo menzionando un passaggio su cui concordo (per dimostrare che non intendevo indorare la pillola della critica…;-)): convengo che l’eliminazione del mercato (e della moneta, anche se a questo riguardo non l’hai menzionata) non è possibile o comunque desiderabile: mercato e moneta sono molto più antichi del capitalismo, e su questo in Marx c’è un grave difetto di storicizzazione (ma mi pare che tu faccia l’errore simmetrico, lo stesso della Arendt, se non mi sbaglio, assimilando il lavoro nel capitalismo a quello di cui parlava Aristotele).