Un
secolo di estrema sinistra
(lettere
al futuro, 1)
Marino
Badiale
I.
Introduzione
L’organizzazione
sociale capitalistica, che da decenni si è estesa all’intero
pianeta, è ormai entrata in un fase di decadenza necrotica. Essa sta
distruggendo, sempre più velocemente, i fondamenti stessi
dell’esistenza di ogni società umana: il legame sociale fra gli
individui e il legame metabolico fra natura ed umanità. Questa
spirale autodissolutiva si tradurrà in un devastante crollo di
civiltà, molto probabilmente entro la fine di questo secolo [1].
Sono del tutto convinto che non esista nel nostro mondo nessuna forza
sociale capace di incidere su questa traiettoria mortifera, e quindi,
in sostanza, che non ci sia niente da fare, se lo scopo che ci si
propone è quello di prevenire il crollo della nostra civiltà. Ci si
possono però porre altri obiettivi, rispetto ai quali in effetti c’è
qualcosa da fare. Credo che uno scopo generale possa essere quello di
salvare elementi di civiltà dal crollo futuro. Questo significa in
primo luogo creare embrioni di comunità che possano attraversare i
tempi bui che ci aspettano, comunità che siano informate dal tipo di
valori, idee, riferimenti spirituali che pensiamo necessario provare
a salvare. Naturalmente tali comunità dovranno per prima cosa
sopravvivere, e non possiamo sapere cosa saranno in grado di
trasmettere ai loro discendenti. La creazione di simili “comunità
di sopravvivenza” è importante soprattutto per i giovani, che
probabilmente vivranno buona parte della propria vita in una
situazione di crisi sempre più grave, e per le persone dei ceti medi
e bassi, che non avranno nessun’altra risorsa da utilizzare se non
la solidarietà e l’aiuto reciproco.
In
collegamento con questa idea della “trasmissione attraverso il
tunnel” del crollo di civiltà, si può delineare un altro compito
al quale oggi vale forse la pena dedicarsi. Possiamo cioè provare ad
aiutare i terrestri del futuro a capire questo nostro tempo. Coloro
che sopravviveranno al crollo dovranno lottare a lungo in condizioni
difficilissime, e non avranno molto tempo per riflettere sulla
storia. Se vogliamo essere ottimisti, possiamo però sperare che,
dopo una fase storica di lunghezza oggi non prevedibile, verranno
ricostruite le basi di una civiltà non del tutto ferina, e vi
saranno intellettuali e pensatori che si assumeranno il compito di
comprendere gli eventi storici ad essi precedenti. Credo che per tali
pensatori futuri il nostro tempo rappresenterà un enigma di
difficile comprensione. Un’umanità dotata di ricchezza e potere a
livelli mai visti nella storia, che si avvia lungo una spirale di
autodistruzione chiaramente individuata e prevista, senza in sostanza
opporre alcuna resistenza. Come è stato possibile tutto questo? È
mia intenzione fornire un aiuto a questi amici del futuro. Proverò a
scrivere loro alcune lettere, nelle quali cercherò, per quanto sono
in grado di fare, di fornire qualche elemento di comprensione della
follia del mondo in cui mi sono trovato a vivere la mia vita di
adulto.
In
questa prima “lettera al futuro” cercherò di comprendere uno
degli aspetti dell’attuale mortifera dinamica storica: si tratta
del fatto che le forze politiche e sociali di opposizione al
capitalismo non sono minimamente riuscite a incidere su di essa. E
questo nonostante l’evidenza sempre crescente del carattere appunto
mortifero del capitalismo attuale. In realtà ho già trattato a
lungo di questi temi, in particolare nei libri scritti con Massimo
Bontempelli [2]. In questi testi abbiano analizzato il meccanismo che
ha portato la sinistra ad essere una forza storica del tutto interna
alle dinamiche capitalistiche. In essi facciamo riferimento
soprattutto a quella che oggi si chiama “sinistra moderata” o
“sinistra liberale”, e non riprenderò adesso le argomentazioni a
questo proposito svolte nei lavori citati. Può essere invece
interessante concludere l’analisi della sinistra esaminando il
problema della “sinistra radicale” o “sinistra estrema”,
collegandolo appunto al tema della prossima fine dell’attuale
civiltà. Questo scritto sarà dunque dedicato al tema della
“sinistra radicale” nel Novecento e del suo ruolo nelle società
capitalistiche avanzate.
II.
Un secolo di estrema sinistra
L’estremismo
di sinistra del Novecento nasce con il fallimento della rivoluzione
comunista in Occidente. Al seguito della Rivoluzione d’Ottobre si
formano in Occidente i partiti comunisti che cercano di realizzare
nei paesi avanzati la presa del potere realizzata dai bolscevichi in
Russia. Come è noto, questi tentativi falliscono, e in seguito a
questo fallimento i partiti comunisti vengono “bolscevizzati”,
cioè vengono allineati alle direttive politiche e organizzative
provenienti dai comunisti russi, diventando ben presto articolazioni
della politica sovietica, in sostanza interessati alla difesa del
“primo paese socialista” piuttosto che alla rivoluzione (gli
obiettivi rivoluzionari vengono mantenuti come semplice retorica). Le
minoranze che al loro interno non condividono tale evoluzione ne
escono e iniziano a dare vita a piccoli gruppi comunisti che cercano
di mantenere viva la tradizione rivoluzionaria, iniziando così la
tradizione dell’estremismo di sinistra del ‘900. Possiamo allora
situare la nascita dell’estremismo di sinistra nel periodo
immediatamente successivo alla sconfitta della rivoluzione nei paesi
occidentali. Ma quando fallisce la rivoluzione in Occidente?
Difficile determinare una data precisa, ma possiamo indicare grosso
modo il periodo che va dal 1919 (insurrezione spartachista in
Germania, con la morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) al 1921
(“azione di marzo”) o forse al 1923 (tentativo insurrezionale ad
Amburgo, ultima fiammata rivoluzionaria in Germania). Tutte le date
indicate fanno riferimento alla Germania (e non è un caso), comunque
il periodo indicato comprende anche il biennio rosso italiano
(‘19-’20), la repubblica dei consigli bavarese del ‘18-’19
(ancora la Germania), la repubblica dei consigli ungherese del ‘19.
In
sostanza possiamo dire, grosso modo, che l’estremismo di sinistra
nasce all’inizio o alla metà degli anni Venti, e ha quindi, ormai,
circa un secolo di storia. Si tratta di un periodo storico molto
lungo, che dovrebbe permettere di trarre un giudizio complessivo su
questa esperienza, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali. La
cosa più semplice da osservare è la seguente. L’estremismo di
sinistra si separa dai partiti comunisti “ufficiali” (cioè
filosovietici) in nome della rivoluzione, ma non fa mai nessuna
rivoluzione, e la situazione in realtà è molto peggiore: non solo
l’estremismo di sinistra non fa nessuna rivoluzione, ma, nei paesi
industriali avanzati, non ci si avvicina nemmeno da lontano. Non si
avvicina nemmeno da lontano ad avere una forza effettiva in base alla
quale poter anche solo progettare un percorso che sensatamente possa
portare ad una rivoluzione. L’estremismo di sinistra non esiste,
non è mai esistito, sul piano della realtà politica effettiva, dei
rapporti di forza reali, nei paesi occidentali. Non crea mai nessun
radicamento fra le masse che, quando si interessano alla politica di
sinistra, aderiscono in stragrande maggioranza o ai partiti
riformisti-socialdemocratici, oppure ai partiti comunisti
“ufficiali”. L’estremismo di sinistra si riduce sempre a una
miriade di piccoli e piccolissimi gruppi che riuniscono qualche
intellettuale radicale e qualche proletario acculturato e
politicizzato, e che trascinano la propria storia producendo
documenti, libri, analisi teoriche, discutendo all’infinito,
litigando, separandosi, riaggregandosi per poi separarsi di nuovo. E
tutto questo in decine di paesi diversi, lungo un secolo di storia,
in guerra e in pace, durante le crisi economiche e i periodi di
prosperità. In tutte le situazioni più diverse, l’estremismo di
sinistra è sempre uguale a se stesso nell’infinità delle sue
varianti: uguale nella sua assoluta incapacità di incidere sulla
realtà.
Non
si può evitare un giudizio storico di fallimento. L’esperienza di
un secolo di sinistra radicale è l’esperienza di un radicale
fallimento. Si intende “fallimento” rispetto ai fini che
l’estremismo stesso si era dato, ovvero la rivoluzione comunista o,
almeno, la capacità di creare delle forze politiche effettive. È
certo che l’estremismo di sinistra ha prodotto molte cose
interessanti, sul piano intellettuale: come abbiamo sopra indicato,
esso ha prodotto libri, riviste, analisi teoriche ed empiriche. Si
tratta di un patrimonio intellettuale di grande interesse. Ma non era
questo ciò che si era proposto.
È
chiaro che questo fallimento epocale ha qualcosa a che fare col
problema da cui siamo partiti, cioè quello della necrosi
capitalistica e della disperante mancanza di forze attualmente capaci
di combatterla. Se l’estremismo di sinistra fosse riuscito a
costituire una forza effettiva di contrasto alle dinamiche
capitalistiche, forse queste ultime non avrebbero potuto dispiegarsi
in maniera così completa e assoluta come il nostro tempo ci mostra,
e forse potremmo oggi avere la speranza di evitare le catastrofi che
ci attendono. Si può anche osservare che una parte della sinistra
radicale ha sviluppato per tempo una buona percezione del pericolo
che lo sviluppo illimitato dell’accumulazione capitalistica
rappresenta per il legame metabolico fra uomo e natura, e l’ha
nutrita di riflessioni interessanti. Mi ripeto: se questo patrimonio
intellettuale si fosse concretizzato in una forza politica effettiva,
forse la situazione oggi sarebbe meno disperata. È dunque
significativo, per capire il nostro tempo e la sua totale negatività,
capire le ragioni del fallimento storico della sinistra radicale.
III.
Le ragioni di un fallimento
Le
ragioni del fallimento dell’estremismo di sinistra sono, io credo,
fondamentalmente semplici: l’estremismo di sinistra si appella alle
masse popolari invitandole a fare la rivoluzione, prendere il potere
e guidare la società nella direzione del socialismo/comunismo. Ma le
masse popolari non amano le rivoluzioni, non vogliono il potere e non
sono interessate al socialismo/comunismo, e quindi declinano
l’invito, lasciando l’estremismo di sinistra nella solitudine in
cui vive, come abbiamo detto, da circa un secolo. Il problema ultimo
dell’estremismo di sinistra è cioè il fatto che fondamentalmente
non capisce quelle masse popolari che, nelle sue aspirazioni,
dovrebbero rappresentare la sua base sociale, il pilastro della sua
forza politica. Con questo non si intende dire che l’estremismo di
sinistra non abbia mai avuto nessun collegamento con le masse
popolari, non sia mai riuscito ad esprimere le loro aspirazioni
(ovviamente è riuscito, ogni tanto, a farlo). Si intende dire che
non ha mai capito alcuni aspetti fondamentali di ciò che sono gli
esseri umani e, in particolare, quelle masse popolari che chiama
all’azione.
Cerchiamo
di esaminare rapidamente i tre punti che abbiamo elencato: fare la
rivoluzione, prendere il potere, costruire il socialismo/comunismo.
Le
masse popolari non amano le rivoluzioni perché fare la rivoluzione
significa accettare l’idea di uccidere ed essere uccisi. Nessuna
persona sana di mente ama la violenza. La grande maggioranza delle
persone può acconsentire all’idea che la violenza, in certe
circostanze (essenzialmente difensive), risulti necessaria. Ma un
tale uso deve avere dei confini precisi, se non vuole prima o poi
allontanare quelle masse popolari che la sinistra radicale vorrebbe
conquistare alla propria causa. Parlando di “confini della
violenza” si intende dire che ci devono essere dei limiti per
quanto riguarda gli obbiettivi, l’estensione, la durata della
violenza. Gli obbiettivi devono essere chiaramente specificati, la
violenza non può estendersi indefinitamente a tutti, e non deve
avere una durata indefinita. L’esempio fondamentale di un tipo di
violenza che può risultare accettabile, rispetto a quanto appena
detto, è quello della Resistenza antifascista: in questo caso la
violenza ha uno scopo preciso (sconfiggere il fascismo), e di
conseguenza ha estensione e durata ben definiti (si usa violenza
contro fascisti e alleati, e solo finché il fascismo è sconfitto).
Ovviamente anche in questo caso ci sono stati “sconfinamenti”
delle pratiche violente, ma si è trattato di eccessi di breve
durata. È facile rendersi conto del fatto che la violenza politica
rivoluzionaria nel Novecento non soddisfa a questi requisiti: gli
obbiettivi sono generali e quindi non chiaramente definiti (la
rivoluzione, il socialismo/comunismo), la violenza si estende
potenzialmente all’intero corpo sociale, nessuno sa quando essa
finirà (questo ovviamente si collega al carattere non chiaramente
definito dei suoi obbiettivi). Basta esaminare la storia della
Rivoluzione russa e dell’URSS per rendersi conto di questi punti.
Mi
sembra che, di fronte a queste considerazioni, sia giustificata la
diffidenza popolare verso i rivoluzionari. Prendendo in esame gli
esiti delle rivoluzioni del Novecento, la diffidenza non può che
aumentare. Se si guarda la vicenda storica del “socialismo reale”
del Novecento, dei suoi sviluppi e dei suoi esiti, se si guarda il
costo terribile in termini di vite umane, di sofferenze, di atrocità,
se si considera che il risultato finale è stato il ripristino del
capitalismo (in una forma o nell’altra), non ci si può sottrarre
all’idea che la diffidenza popolare verso i banditori di
rivoluzioni sia più che giustificata.
Per
quanto riguarda l’invito della sinistra radicale a prendere il
potere, il rifiuto popolare si radica su aspetti fondamentali della
natura umana. Infatti la caratteristica specifica dell’essere
umano, rispetto al resto del vivente, è di non essere legato
univocamente ad una determinazione biologica, ma di avere accesso
allo spirito che è libertà, per usare il linguaggio dell’idealismo.
Questo significa, fra l’altro, che gli esseri umani possono essere
infinite “cose” diverse, possono determinare il proprio ruolo nel
mondo in infiniti modi diversi, a seconda delle infinite interazioni
che ciascun individuo può avere col proprio ambiente nel corso della
vita. Questa libertà è ovviamente limitata dalle necessità della
sopravvivenza materiale e dalle regole delle diverse organizzazioni
sociali. La modernità è il tentativo di diminuire il più possibile
il peso di queste costrizioni, e di permettere a ogni individuo di
realizzare le proprie potenzialità. È questa appunto la libertà
dei moderni, secondo la nota argomentazione di B.Constant [3]. Fra le
infinite potenzialità dell’essere umano, quella della gestione del
potere è solo una, e ragionevolmente interesserà solo una piccola
parte dell’umanità, esattamente come qualsiasi altra specifica
attività. Il fatto che solo piccolissime minoranze rispondano
all’appello della presa del potere è dunque una conseguenza
naturale del fatto che l’essere umano, quando può, sceglie
liberamente fra infinite possibilità. Questi dati di fatto implicano
esattamente quello che succede in tutta la modernità: le masse sono
felicissime di delegare il potere e la sua gestione a un ceto
specializzato, purché ovviamente sia garantita a tutti la libertà
di perseguire i propri interessi (nel senso più ampio della parola),
il che fra l’altro implica un certo grado di liberazione dalle
necessità della sopravvivenza materiale. Naturalmente, le masse sono
pronte alla contestazione dei ceti dirigenti, fino alla rivolta,
nelle situazioni di crisi, quando tali ceti dirigenti non riescono
più a garantire la sicurezza, la vita, la libertà dal bisogno. Una
volta abbattuti i dirigenti ormai incapaci, e sostituiti con nuovi
ceti dirigenti in grado di garantire sicurezza e libertà, ciascuno
torna a dedicarsi ai propri interessi. Le fiammate rivoluzionarie che
hanno contraddistinto la modernità hanno tratto in inganno i piccoli
gruppi di rivoluzionari di estrema sinistra, che hanno scambiato per
normale ciò che era eccezionale, e che si sono sempre ritrovati da
soli, una volta superata la crisi rivoluzionaria.
Si
potrebbe replicare che questo dato di fatto è un “essere” al
quale opporre un “dover essere”: cioè un difensore delle istanze
dell’estremismo di sinistra potrebbe obiettare che, se le masse
popolari non vogliono il potere, ebbene esse si sbagliano, e vanno
convinte col lavoro politico e culturale dell’estremismo di
sinistra. Dopotutto nel mondo antico la stragrande maggioranza della
popolazione trovava del tutto “naturale” il fatto della
schiavitù, e infatti istanze di abolizione della schiavitù sono,
all’epoca, praticamente inesistenti, e questo dato di fatto non
implica naturalmente che sia “sbagliata” l’esigenza di
abolizione della schiavitù.
Ma
perché, nel caso del potere, le masse avrebbero torto? Perché
“bisogna” gestire il potere? La politica ha qualche valore
superiore rispetto alle infinite altre possibili attività umane?
Nella storia del pensiero umano questa centralità assoluta della
politica non sembra trovare particolare supporto. Da Platone e
Aristotele fino ad Hegel, la dimensione politica è una dimensione
significativa ma subordinata ad altre dimensioni dell’umano
(l’arte, la religione, la filosofia). Si può certo sostenere che
occuparsi della cosa pubblica è un dovere per tutti gli individui, e
sicuramente molti potrebbero essere d’accordo. Ciascun individuo è
pronto fare la sua parte per il bene comune, quando è necessario. Di
fronte a un incendio, se c’è bisogno dell’impegno di tutti,
nessun cittadino si tira indietro. Il punto decisivo è però il
seguente: il fatto che tutti siano disposti a dare una mano, se
necessario, durante un incendio, non significa che si sia disposti ad
aderire ad una proposta politica che ci chiede di lottare ed
impegnarci per diventare tutti pompieri vita natural durante. Tutti
siamo disposti ad aiutare in caso di necessità, ma appunto questo
appartiene alla sfera della necessità e non a quella della libertà.
La contraddizione al fondo dell’estremismo di sinistra è che esso
propone alle masse una negazione della libertà (l’impegno nella
politica, nella gestione del potere, a scapito degli altri interessi)
e la presenta come una conquista di libertà. Il militante di estrema
sinistra non si accorge di questa contraddizione perché egli
appartiene a quella piccola minoranza di persone che si realizzano
nella politica, che hanno la politica appunto come sfera di interesse
e di realizzazione di sé. Per loro l’impegno in politica è una
realizzazione di libertà, e non capiscono che per la stragrande
maggioranza delle persone non è così. Di fronte al fatto che le
masse popolari continuano a rifiutare cortesemente l’invito a
prendere il potere, l’estremismo di sinistra ha elaborato
sofisticate strategie argomentative, che in sostanza sono modi per
non prendere atto della realtà: il popolo non vuole il potere,
perché ha altro da fare.
Per
quanto riguarda il comunismo, il fine dell’attività rivoluzionaria
dell’estremismo di sinistra, il discorso è molto semplice: nessuno
sa cosa vuol dire “comunismo”, almeno come proposta politica. Se
chiediamo a intellettuali e filosofi, riceveremo sicuramente infinite
risposte diverse, il più delle volte del tutto vaghe e generiche,
oppure enunciati generali condivisibili (come il classico “ognuno
secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”[4]), che
non possono essere base di una concreta azione politica. Oppure ci
imbattiamo in note affermazioni sul fatto che il comunismo non è un
ideale da instaurare ma “il movimento reale che abolisce lo stato
di cose presente”[5]. Purtroppo, quest’ultima affermazione ha
senso solo all’interno di una concezione storica nella quale lo
“stato di cose presente” sviluppa al proprio interno gli elementi
di una superiore formazione sociale, e si tratta allora solo di
aiutare questo sviluppo. Se si rinuncia a questa visione ottimista,
questa celebre frase si svuota di senso. Oggi, di fronte alla
distruzione di natura e società che è conseguenza dello sviluppo
del capitale, l’idea che il comunismo coincida con l’abolizione
“dello stato di cose presente” suona come un’ironia piuttosto
sinistra. Lo “stato di cose presente” verrà abolito da disastri
che non porteranno ad uno stadio superiore di civiltà ma ad una
regressione generalizzata.
Al
di là di questi enunciati, non troviamo nella sinistra radicale
nessuna indicazione concreta su cosa possa essere il “comunismo”
nel cui nome essa esiste. Ovviamente il “comunismo reale” dei
sistemi sovietici del Novecento è una cosa molto concreta, ma la
sinistra radicale non lo può assumere come fondamento (se non in
alcune frange minoritarie, piccole minoranze di una piccola
minoranza) sia perché esso è screditato sia perché essa, in buona
parte, si è costituita come tale proprio criticando il
filosovietismo dei partiti comunisti “ufficiali”. La sinistra
radicale non ha quindi niente di concreto da dire sul comunismo.
D’altra parte, essa chiama le masse popolari a impegnare la propria
vita appunto sul comunismo. A che condizioni questo appello potrebbe
ricevere ascolto? Occorrerebbe in primo luogo proporre un’idea
sensata di cosa possa essere una società comunista: ovviamente non
si chiedono i dettagli, ma bensì una qualche idea realistica sul
modo di governare la società, sul modo in cui verranno prodotti e
distribuiti i beni, sulle principali istituzioni e sul modo in cui
funzioneranno. In secondo luogo, occorrerebbe proporre un percorso
politico concreto che parta dalle condizioni attuali e, in un tempo
ragionevole, possa portare alla società comunista prospettata. È
solo a queste condizioni che una persona sensata può impegnare la
propria vita per il comunismo. Ma questo è appunto ciò che la
sinistra radicale non è mai stata in condizioni di fare. E, di
nuovo, la risposta delle masse popolari è sempre stata, da un secolo
a questa parte, “no grazie”. La stragrande maggioranza delle
persone non è disposta a impegnare il tempo limitato della propria
vita su una parola vuota come “comunismo”.
L’argomentazione
non cambia molto se alla parola “comunismo” si sostituisce
“socialismo”: anche in questo caso abbiamo una parola che assume
infiniti significati diversi, anche in questo caso nessuno ha un’idea
precisa di cosa possa essere il socialismo e di come ci si possa
ragionevolmente arrivare attraverso la politica, anche in questo caso
gli unici esempi storici ai quali da più parti si attribuisce
l’etichetta “socialismo” (cioè il socialismo reale oppure lo
Stato socialdemocratico del welfare) sono rifiutati dall’estremismo
di sinistra.
Concludiamo
riassumendo questa sezione: il fallimento storico della sinistra
radicale deriva dalla sua radicale incomprensione dell’essere umano
e di ciò che realmente vogliono le masse a cui essa si appella.
IV.
Falsa coscienza
Il
fallimento epocale dell’estrema sinistra non ha come conseguenza
solo il fatto che è mancata una possibile forza di contrasto alla
dinamica mortifera del capitale. Purtroppo l’estrema sinistra ha
funzionato spesso (non sempre) da elemento di supporto a tale
dinamica. Vediamo perché. Abbiamo detto che i fondamenti della
strategia politica dell’estrema sinistra sono essenzialmente
sbagliati. Questo implica che essa in sostanza non ha e non ha mai
avuto la possibilità di fare effettivamente una politica autonoma e
concretamente efficace. Vi sono allora solo due possibilità. La
prima è quella di ritirarsi dalla politica effettiva, conservando la
propria autonomia: si crea un proprio piccolo gruppo con apparenti
obiettivi politici (la lotta contro il capitalismo, il comunismo, il
potere della classe operaia) ma che in realtà si dedica solo ad una
produzione di tipo intellettuale (libri, interventi, documenti) senza
nessuna valenza politica effettiva. Gli esempi di piccoli gruppi di
questo tipo sono infiniti. Un tipico caso italiano contemporaneo è
“Lotta Comunista”, un piccolo partito a suo modo di grande
successo: esiste infatti dalla metà degli anni Sessanta, cioè da
più di cinquant’anni, un periodo nel quale sulla scena
dell’estremismo si sono succeduti decine o forse centinaia di
gruppetti analoghi, anche più noti, che sono presto scomparsi.
Invece “Lotta Comunista” è sempre lì, a dimostrazione di una
capacità organizzativa invidiabile. Naturalmente l’attività di
“Lotta Comunista” non ha nessuna concretezza storica effettiva.
Perché esiste “Lotta comunista”? Tutta la sua attività è
finalizzata alla propria autoriproduzione, alla propria permanenza
nel tempo, attività nella quale, come abbiamo detto, essa si è
dimostrata particolarmente efficace. In una formula, una simile
organizzazione esiste all’unico scopo di esistere.
La
seconda possibilità è quella di rinunciare all’autonomia,
alleandosi alla sinistra maggioritaria. Questa è effettivamente
l’unica strada lungo la quale la sinistra radicale può sperare di
uscire dall’inesistenza politica. Si tratta però di una strada che
porta in direzioni perniciose. Infatti la sinistra maggioritaria
(sedicente “moderata”, in realtà estremista nel suo servilismo
verso i poteri dominanti) è totalmente interna al mondo del
capitale, è solo una delle sue articolazioni, e la sua azione
politica è totalmente funzionale alle dinamiche del capitale.
Accodandosi ad essa, la sinistra radicale si trova nella
contraddizione di sostenere politiche totalmente contrarie alla
propria ragion d’essere (è questa, nella sostanza, la vicenda dei
rapporti fra Rifondazione Comunista e i governi di centrosinistra
negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo millennio). Essa
cerca di risolvere questa contraddizione sforzandosi di dare una
diversa interpretazione alle dinamiche di cui essa si fa complice,
teorizzando che è possibile dare a tali dinamiche una diversa
torsione, non del tutto subalterna alla sinistra maggioritaria e al
capitale. Ma anche prescindendo dalla questione se questa analisi
abbia un fondamento (o non sia piuttosto un wishful thinking), il
problema è che, per dare concretezza fattuale a queste eventuali
possibilità alternative, occorre una forza politica che la sinistra
radicale non ha. Occorre avere una base sociale, una strategia, una
direzione percorribile: tutte cose che, come abbiamo detto sopra, la
sinistra radicale non ha mai avuto. Nella totale incapacità di dare
una qualsiasi concretezza alla sua pretesa di stare “dentro, ma
contro” la gestione politica del mondo del capitale, la sinistra
radicale si riduce a falsa coscienza: si fa lo stesso che fanno gli
altri ma ci si racconta di essere diversi. Le chiacchiere
rivoluzionarie spariranno nel nulla, come hanno sempre fatto, mentre
resterà l’appoggio, poco o tanto, fornito al capitale. Pensando a
Rifondazione, si può dire che tutte le chiacchiere di Bertinotti e
compagnia si sono ridotte a nulla, mentre quello che rimane sono gli
effetti delle politiche liberiste attivamente perseguite dai governi
di centrosinistra sostenuti da Rifondazione. Allo stesso modo,
svaniranno nel nulla le chiacchiere di molti settori dell’attuale
sinistra radicale sulla possibilità di una “altra Europa”, più
bella e più buona dell’attuale, e quello che resterà sarà il
contributo che tali settori hanno dato a impedire la costruzione di
un polo anticapitalista critico verso l’Unione Europea.
Da
questo punto di vista, la sinistra radicale appare uno dei casi più
clamorosi di falsa coscienza nella storia del Novecento.
V.
Innocenti evasioni
Ma
se tutto questo è vero, come mai esiste ancora l’estrema sinistra?
Si tratta di una realtà ultraminoritaria, che però esiste e
persiste, a dispetto della sua palese inutilità rispetto agli scopi
che essa dice di avere: la rivoluzione o il comunismo o quant’altro.
Se l’estrema sinistra attira ancora alcune persone quando è del
tutto evidente che essa nulla può per quegli ideali che dice di
avere, ebbene è ovvio che tali persone aderiscono all’estrema
sinistra per motivi che non sono quelli dichiarati. Per capire di
cosa si tratta, bisogna pensare a un aspetto che abbiamo tentato di
evidenziare: cioè la sorprendente ripetitività del mondo
dell’estrema sinistra. Da un secolo a questa parte, in tutto il
mondo occidentale, i piccoli gruppi dell’estrema sinistra si
formano, discutono, producono documenti, fanno volantinaggio,
litigano su questioni teoriche spesso astruse, si scindono, si
ricompongono, fanno grandi analisi sociostoricopoliticoculturali, si
riscindono, e così via e così via, sempre uguali a se stessi: in
tutto il mondo occidentale, da un secolo a questa parte. Le persone
al di fuori di questo mondo trovano tutto ciò piuttosto folle, ma in
realtà questo non è così strano, perché trova una analogia con
fenomeni molto più diffusi: per capire questo mondo, bisogna infatti
pensare al ruolo che hanno certe serie televisive nella vita di tante
persone. Anche in questo caso infatti, come nell’estrema sinistra,
abbiamo una estrema ripetitività di situazioni, storie, attività,
anche in questo caso molti partecipano con forti emozioni alle storie
raccontate, e anche in questo caso le vicende non hanno la minima
rilevanza nel mondo reale, le cui dinamiche procedono indisturbate.
Il punto è che il pubblico ama le soap opera e le sitcom esattamente
per queste caratteristiche: perché esse rappresentano un momento di
evasione e di diversione dalla durezza della realtà, senza nessuna
rilevanza per la realtà stessa.
Mi
sembra ragionevole ipotizzare che i riti del mondo dell’estrema
sinistra abbiano una funzione simile, cioè rappresentino per le
piccole minoranze che ne fanno parte una forma di evasione dalla
realtà. Naturalmente questa affermazione deve esser precisata.
Infatti le persone di estrema sinistra sono convinte del contrario,
sono convinte di essere le persone coscienti dei problemi del mondo e
che si impegnano per affrontarli, e certo in questo c’è una parte
di verità. Il punto decisivo sta in ciò che abbiamo osservato
all’inizio di questo scritto, cioè nel fatto che nel mondo
dell’estrema sinistra non è mai stato elaborato un percorso
sensato, ragionevole, credibile, di fuoriuscita dal capitalismo. Ma
se si ha coscienza del carattere distruttivo dell’attuale
organizzazione sociale, e non si ha la minima idea di come uscirne, è
forte il pericolo di cadere nell’angoscia, nella depressione, nella
pazzia. I rituali ripetitivi dell’estrema sinistra hanno allora il
compito di impedire questi sviluppi negativi, di schermare lo sguardo
rispetto al carattere disperato della nostra attuale situazione, di
illudersi che si possa ancora fare qualcosa. L’attivismo insensato
dell’estrema sinistra rappresenta una “eterna ripetizione
dell’identico” che permette una certa evasione dall’angoscia,
come fanno appunto le serie tv.
VI
Conclusioni iniziali.
È
solo arrivati a questo punto che comincia ad emergere il problema
cruciale, che sarà, io credo, molto discusso dagli storici del
futuro. Infatti, l’incapacità del mondo dell’estrema sinistra di
pensare un’alternativa al mondo del capitale è solo un caso
particolare, e nemmeno il più importante, del dato storico
fondamentale del nostro tempo: il fatto cioè che il capitale si è
posto ed è vissuto come l’unico mondo possibile per gli esseri
umani, come una realtà intrascendibile, una assolutezza non
questionabile. Per citare la nota frase attribuita a F.Jameson, è
davvero più facile pensare la fine del mondo che la fine del
capitalismo. È una simile intrascendibilità, che in questo scritto
abbiamo esaminato in rapporto al mondo dell’estrema sinistra, che
bisognerà esaminare e tentare di comprendere, nelle prossime
“lettere al futuro”.
Note
[1]
La coscienza di una fine prossima della nostra “insostenibile”
civiltà si sta ormai facendo strada negli ambienti culturali più
diversi. Per avere un’idea di questo tipo di discussioni si possono
leggere, ad esempio, i seguenti testi: P.Servigne,
R.Stevens, Comment
tout
peut s’effronder
(Seuil 2015);
J.M.Gancille,
Ne
plus se mentir (Rue
de l’échiquier 2019); J.Simonetta,
L.Pardi, Picco
per capre
(LU::CE Edizioni 2018);
Y.Cochet,
Devant
l’effondrement (Les
liens qui libèrent 2019); J.M.Greer
La
lunga discesa (LU::CE
Edizioni 2019); D.Wallace-West
La
terra inabitabile, (Mondadori
2020).
[2]
M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata (Massari 2007);
Id., Civiltà occidentale (Il Canneto 2009); Id., Marx e la
decrescita (Asterios 2010); Id., La sfida politica
della decrescita (Aracne 2014).
[3]
Su Constant si veda S.DeLuca, Constant
(Laterza 1993), e
M.Bontempelli, La
conoscenza del bene e del male (Editrice
C.R.T. 1998), pagg.83-96.
[4]
K.Marx, Critica al programma di Gotha (Editori Riuniti
1990), pag.18.
[5]
K.Marx, F.Engels, L’ideologia tedesca (Editori
Riuniti 1975), p.25.
Paolo Di Remigio mi ha inviato il seguente commento, che non è riuscito pubblicare per problemi tecnici. Lo pubblico io, diviso in due parti (M.B.)
RispondiEliminaPaolo Di Remigio, Commento (prima parte)
«… egli appartiene a quella piccola minoranza di persone che si realizzano nella politica, che hanno la politica appunto come sfera d’interesse e di realizzazione di sé.»
L’essenza della politica non è, come scrive Schmitt, l’alternativa amico-nemico, ma la fluidità di quest'alternativa, l’incombere della possibilità che l’amico diventi nemico e viceversa. La capacità politica, come giustamente ha scritto Hobbes, è quindi innanzitutto la capacità di tessere alleanze, l’arte del compromesso tra potenzialmente ostili. Essa coincide con la disposizione all’elasticità, alla spregiudicatezza, al cinismo, perfino al tradimento. Pensiamo a grandi capi (qui “grande” non ha alcuna accezione etica, ma soltanto pragmatica, nel senso dell’imperativo ipotetico) come Cavour che si accorda segretamente all’opposizione di Rattazzi per liquidare il governo di D’Azeglio mentre ne è ministro, che si allea a Napoleone III secondandone le mire imperiali verso l’Italia, sperando che l’Inghilterra le vanifichi. Oppure a Giolitti, pronto a ogni alleanza, perfino con la mafia. Gli stessi rivoluzionari diventano attori storici nella misura in cui diventano politici nel senso definito sopra. Lenin si accorda con la Germania imperiale per tornare a Pietrogrado, si allea con i contadini, che pur espropria delle eccedenze, per vincere la guerra civile, e concede loro la proprietà privata della terra per consolidare il governo bolscevico, arretrando coscientemente dall’ideale comunista; non solo, il futuro della rivoluzione russa è del pragmatico Stalin, che aderisce a qualunque orientamento in funzione delle alleanze per isolare i suoi rivali e getta alle ortiche l’ideale della rivoluzione mondiale. – Lo stesso ‘Manifesto del partito comunista’, se presenta tutti gli ingredienti dell’estremismo con la sua volontà di semplificare la storia riducendola all’antagonismo tra oppressori e oppressi, deve la sua forza anche alla volontà di riconoscere altri partiti, con i quali stringere alleanze.
Paolo Di Remigio, Commento (seconda parte):
RispondiEliminaTutt’altra natura la ‘politica’ perseguita dagli estremisti; nulla essi disprezzano più della disposizione al compromesso, cioè della quintessenza dell’arte politica; il valore supremo riconosciuto è la purezza, l’inflessibilità. Proprio il perseguimento di questo valore li rende impolitici, li condanna all’impotenza settaria di cui l’articolo parla, anzi eventualmente ne fa uno strumento di mene politiche di centri di potere costituiti.
A illuminare la natura dell’estremismo un contributo può venire dalla considerazione dialettica della nozione di volontà. Essa non è un’entità semplice, ma il ricomporsi da un contrasto: da una parte vuole soltanto sé stessa, è cioè astratta, assoluta; dall’altra vuole contenuti particolari, questi beni, questa donna, questa posizione sociale ecc.; nella sua concretezza la volontà vuole non solo il contenuto particolare, ma in questo suo particolarizzarsi vuole anche conservare l’assolutezza – è questa la libertà che sostanzia il mondo etico. L’estremismo è la volontà nella sua forma astratta, assoluta, che esiste solo come negazione dell’altro da sé. A proposito della volontà nella sua astrazione e pensando all’estremismo giacobino e al terrore rivoluzionario di trent’anni prima, scrive Hegel nella nota al § 5 dei «Lineamenti di filosofia del diritto»: «Se la facoltà di rappresentazione irrigidisce per sé come libertà questo solo lato… della volontà, se la volontà si determina alla possibilità assoluta di poter astrarre da ogni determinazione…, alla fuga da ogni contenuto come se questo fosse una barriera – allora questa è la libertà negativa, o libertà dell’intelletto. – Elevata a forma reale e a passione, la libertà del vuoto, se resta soltanto teoretica, nella religione diventa il fanatismo della pura concezione indiana, ma se si volge alla realtà, nella politica come nella religione diventa il fanatismo che distrugge ogni ordine sociale sussistente, elimina gli individui sospetti a un ordinamento e annienta ogni organizzazione che voglia riemergere. Solo distruggendo qualcosa questa volontà negativa ha il sentimento di esistere; crede di volere un qualche stato positivo, per es. lo stato di uguaglianza universale o di religiosità universale, ma di fatto non ne vuole la realtà positiva, perché questa riporta subito un qualche ordine, una particolarizzazione sia di istituzioni che di individui; ma è dall’annientamento della particolarizzazione e della determinazione oggettiva che a questa libertà negativa sorge l’autocoscienza. Così ciò che essa crede di volere può essere di per sé soltanto una rappresentazione astratta, e la sua realizzazione può essere soltanto la furia del distruggere».