La
millenaria oppressione delle donne?
(elementi
di una critica del femminismo, 1)
Marino
Badiale
I.
Introduzione
Questo
scritto vuole essere l’inizio di un lavoro di discussione critica
di alcuni punti della visione femminista del mondo e della storia.
Credo sia giusto provare a fare questo lavoro perché il
femminismo (e più in generale, il “politicamente corretto”) è
ormai diventato uno dei pilastri ideologici delle moderne società
occidentali, e mi sembra doveroso esaminare criticamente i fondamenti
razionali di tale visione del mondo e indicarne le debolezze. È
curioso il fatto che questo lavoro critico sembra negletto, almeno
all’interno del mondo intellettuale “ufficiale” (in particolare
nell’accademia). Esiste certamente una produzione intellettuale di
critici del femminismo (che si esprime tramite libri e, soprattutto,
sul web), ma si tratta di elaborazioni che restano marginali e minoritarie. Sembra cioè che,
mentre nel mondo intellettuale occidentale si può essere
individualisti o comunitaristi, keynesiani o antikeynesiani,
pro-Stato oppure pro-mercato, marxisti o antimarxisti, non si possa
essere antifemministi. Questo è di per sé un tema interessante di
riflessione, ma non è il tema di questo scritto. Preciso solo che,
per quanto mi riguarda, “antifemminismo” non significa
contestazione della tesi dell’uguaglianza fra gli esseri umani e
della sostanziale unità del genere umano. Non è questo che intendo
parlando di “critica del femminismo”; intendo piuttosto la
critica di una interpretazione del mondo e della
storia. Intendo cioè dire che nel mondo intellettuale contemporaneo
vi è una notevole produzione di tesi e affermazioni di tipo
femminista che riguardano la realtà degli esseri umani, presenti e
passati, e che mi sembra un lavoro necessario quello di prendere in
esame alcune di queste affermazioni per saggiarne la solidità, e
rifiutarle se appaiono infondate. È questo il compito che mi propongo,
in questo intervento e in altri che seguiranno.
La
tesi che discuto in questo scritto è quella secondo cui le donne
sono vittime di una oppressione millenaria da parte degli uomini. In
tutta o quasi la storia conosciuta le donne sarebbero state oppresse
dagli uomini per il vantaggio di questi ultimi. Poniamoci allora la
domanda se questa tesi sia razionalmente fondata. È davvero esistita
la millenaria oppressione, il millenario sfruttamento delle donne da
parte degli uomini?
Comincerò
esaminando le società premoderne formatesi dal Neolitico in poi.
Escludo cioè dall’analisi, per il momento, le società di
cacciatori-raccoglitori come pure la società moderna. Faccio quindi
riferimento a un periodo che va dalla rivoluzione neolitica
all’inizio dell’età moderna, diciamo da circa 9000 o 10.000 anni
fa (rivoluzione neolitica) fino a un momento che possiamo situare fra
il 1500 e il 1800 d.C. (inizio dell’età moderna). Non è
importante la precisione puntuale su queste date. Quello che ritengo
fondamentale, nel ragionamento che propongo, è il punto seguente. Se
pensiamo alla totalità delle espressioni culturali delle società
umane in questo periodo di tempo, nel quale si è avvicendata la
grande maggioranza delle società umane di cui ci è giunta notizia,
ci si presentano alla mente i più disparati tipi umani: feroci
guerrieri e austere sacerdotesse, nobili orgogliosi e avidi mercanti,
abili regine e saggi consiglieri, audaci viaggiatori e appassionate
poetesse, e così via, scorrendo la ricchissima galleria della storia
umana. Ciò che mi preme sottolineare è che concentrarsi su questa
serie infinita di tipi umani è certo affascinante, ma può
presentare un effetto distorsivo rispetto alla realtà. Infatti quando si
guarda ai tipi umani che abbiamo descritto si sta guardando agli
strati superiori delle società. Ma tali vertici erano in realtà
gruppi piuttosto ristretti, ai quali si contrapponeva la gran parte
dell’umanità. E cosa faceva la gran parte dell’umanità?
Lavorava nei campi, e col proprio lavoro manteneva tutta la variegata
umanità che abbiamo sopra descritto. E siamo sicuri che si trattava
della stragrande maggioranza dell’umanità per un motivo molto
semplice: l’agricoltura non era molto produttiva, e quindi era
necessario il lavoro di molti per dar agio a pochi di svincolarsi dal
lavoro nei campi e poter fare appunto i guerrieri, le sacerdotesse e
così via. Possiamo tranquillamente affermare che, nel periodo
storico che stiamo esaminando, quello della predominanza delle
società agricole tradizionali, la stragrande maggioranza
dell’umanità ha vissuto la vita del contadino e della contadina
nel villaggio. Se vogliamo parlare della condizione della donna in
confronto a quella dell’uomo, è allora a questa realtà che
dobbiamo guardare, perché è stata questa, per un lunghissimo
periodo storico, la vita della stragrande maggioranza degli uomini e
delle donne.
II.
Contadini e contadine.
Quando
si tenta di fare considerazioni di questo tipo è sempre molto forte
il rischio dell’anacronismo. Si tende cioè a dimenticare che le
società premoderne erano molto diverse dalle nostre, e che ogni
paragone diretto è improprio. Uno degli elementi più evidenti che
occorre tenere presente è il fatto che si tratta di società dove la
vita era più dura, difficile e faticosa dell’attuale, e lo era per
tutti. In particolare la violenza era diffusa e la vita umana, specie
di coloro che si trovavano al fondo della scala sociale, non valeva
molto. Ma se questo, come dicevo, è il dato più appariscente, c’è
un’altra considerazione di grande importanza. Si tratta del fatto
che le società premoderne sono società nelle quali non esiste
l’idea di libertà del soggetto individuale così come noi la
conosciamo. In tali società la vita di tutti gli esseri umani si
svolge secondo i binari predeterminati dalle tradizioni, dagli usi
e costumi. Contadini e signori, mercanti e guerrieri avevano ciascuno
il proprio codice di comportamento stabilito dalla tradizione, ed è
al suo interno che dovevano cercare un senso e una soddisfazione per
la propria vita. Quando cerchiamo di comprendere la vita di questi
esseri umani dobbiamo mettere da parte le nostre idee di libera
espressione dell’individualità, di ricerca e costruzione del
proprio posto nel mondo. Certo, non bisogna passare all’estremo
opposto, cioè pensare a vite totalmente dominate da un potere
costrittivo esteriore (come pure era possibile in certe condizioni,
per esempio nel caso degli schiavi). Occorre piuttosto pensare a vite
che potevano trovare, come si diceva sopra, un senso e anche una
certa espressione di sé, ma solo all’interno dei limiti stabiliti
dalle tradizioni. Tutto questo vale in particolare per la vita di
contadini e contadine nel villaggio. Cerchiamo allora di vedere più
da vicino questa vita. Ovviamente saremo costretti a fare discorsi un
po’ astratti, perché vogliamo parlare di caratteristiche generali
che possono accomunare il villaggio feudale del medioevo europeo,
quelli della millenaria civiltà cinese, quelli africani, maya e così
via. Quali sono le caratteristiche generali della vita di contadini e
contadine nel villaggio? Il dato di partenza, direi universale, è
quello della divisione del lavoro su base sessuale. Ovviamente le
modalità della divisione del lavoro possono essere molto diverse nei
vari casi, ma quello che sembra essere universale è il fatto che gli
uomini fanno certi lavori e le donne ne fanno altri. Grosso modo le
donne gravitano verso la casa e gli uomini verso i campi, ma la banda
di oscillazione è stata storicamente piuttosto ampia. In queste
realtà appare fondamentale il ruolo della famiglia, perché la
famiglia era l’unità sociale che organizzava il lavoro produttivo
e distribuiva i prodotti per il consumo individuale (naturalmente, la
parola “famiglia” può indicare realtà piuttosto diverse nelle
varie situazioni). La divisione del lavoro esigeva la collaborazione
fra tutti i componenti della famiglia, e la collaborazione era
necessaria alla sopravvivenza. Si trattava di una vita faticosa,
esposta al rischio della fame, delle malattie, delle violenze dei potenti di turno. Con un po’ di fortuna si poteva comunque
sperare di vivere una vita decente, secondo i parametri stabiliti
dalla tradizione, di non essere vittima dei mali sopra indicati, di
allevare i figli che avrebbero sostenuto la vecchiaia dei genitori e
proseguito la vita della famiglia e dell’organizzazione sociale, di
vivere all’interno di una rete di rapporti umani accettabili in
termini di comprensione e rispetto reciproco, sempre in riferimento a
quanto stabilito dalla tradizione.
All’interno
di questo quadro generalissimo, è ragionevole parlare in termini di
sfruttamento e oppressione della donna? Quando si parla di
oppressione e sfruttamento, sarebbe necessario vedere un netto
vantaggio per l’oppressore e un netto svantaggio per l’oppresso.
Sarebbe necessario vedere due livelli di vita nettamente distinti:
così, il padrone di schiavi faceva una vita ben diversa da quella
degli schiavi, il signore feudale faceva una vita diversa dal suo
servo, il “padrone del vapore” nell’Inghilterra della
Rivoluzione Industriale faceva una vita ben diversa dalle vite di
operai e operaie descritte da Engels[1]. L’oppressore ha sempre
diritto, ovviamente all’interno delle condizioni generali del suo
tempo e della sua società, a un livello di vita superiore a quello
dell’oppresso. È evidente che appare qui una prima difficoltà per
la tesi della millenaria oppressione della donna. Infatti, i
contadini facevano ovviamente la stessa vita delle loro mogli:
mangiavano gli stessi cibi (quando ce n’erano), si scaldavano
(quando ce n’era) allo stesso fuoco, dormivano nello stesso letto.
Si è mai visto il padrone della fabbrica fare la stessa vita, vivere
nella stessa casa del suo operaio o della sua operaia? Si è mai
visto il padrone di schiavi condividere la stessa vita dello schiavo?
Queste
semplici considerazioni possono indurre a dubitare della verità
della tesi sull’oppressione millenaria della donna. Cerchiamo di
proseguire questo esame considerando diversi aspetti della vita di
contadini e contadini; proviamo cioè a dare un rapido sguardo ai
temi del lavoro, della libertà, delle relazioni affettive, del
potere.
Per
quanto riguarda il lavoro, è chiaro che si trattava di una vita dura
per tutti. È ormai abbastanza diffusa fra gli antropologi la tesi
che nelle società di caccia e raccolta il tempo di lavoro fosse una
parte minoritaria del tempo di vita, e che la situazione sia
cambiata, con l’aumento del carico di lavoro, appunto con la
rivoluzione neolitica[2]. Se accettiamo l’idea generale che gli
uomini lavorassero soprattutto nei campi e le donne soprattutto a
casa (con infinite gradazioni diverse), non c’è motivo di ritenere
che per uno dei due gruppi il lavoro fosse più leggero o impegnasse
una parte minore del tempo di vita rispetto all’altro gruppo.
Ricordiamo che nelle società premoderne non hanno molto senso né la
nozione di “orario di lavoro” né quella parallela di “tempo
libero”, perché non c’è una chiara distinzione fra tempo di
lavoro e tempo di vita, così come non c’è una chiara distinzione
fra ambito lavorativo e ambito familiare (perché la famiglia è
unità di produzione e consumo). Tutti, per sopravvivere o per vivere
decentemente, erano forzati a dedicare al lavoro, ciascuno nel suo
ruolo, un tempo che normalmente era una parte significativa del tempo
di vita. Non si vede insomma, in questo contesto, quale fosse il
privilegio maschile necessario per poter parlare di oppressione
femminile.
Esaminiamo
un altro punto, quello della libertà di movimento. È probabile che,
mediamente, nelle società tradizionali, gli uomini avessero qualche
libertà di movimento maggiore rispetto alle donne, che in certe
situazioni potevano essere confinate in casa o nei paraggi. Ma questa
maggiore libertà dell’uomo era comunque ristretta all’ambito
limitato della vita del villaggio, e quale mai vantaggio poteva
essere questo? Nessun contadino ha mai saputo cosa fossero i viaggi
di piacere o il turismo. Se gli uomini si allontanavano dal
villaggio, era soprattutto per le necessità di forza-lavoro dei ceti
dominanti. Sicuramente i contadini egiziani che hanno contribuito
alla costruzione delle piramidi, portati via dai loro villaggi nelle
pause dei lavori agricoli, avranno visto una parte di mondo maggiore
rispetto alle donne rimaste al villaggio, ma c’è da dubitare
fortemente che lo avrebbero considerato un privilegio, tanto meno una
espressione del potere maschile e dell’oppressione femminile. Anche
in questo caso, quindi, non si riesce a scorgere l’oppressione
femminile in termini di netta differenza di livelli di vita.
Veniamo
adesso al problema delle relazioni fra i sessi nello specifico campo
dell’amore, dell’erotismo, del matrimonio. Anche in questo caso
occorre liberare la discussione da ogni forma di anacronismo. L’idea
che il matrimonio sia il risultato di una libera scelta fra due
individui autonomi che scoprono il proprio amore reciproco, e su di
questo basano un progetto di vita in comune, è un’idea moderna che
ha poco o nulla a che fare con ciò che era il matrimonio nelle
società tradizionali. In tali società l’amore nel senso romantico
e sentimentale ha poco spazio, e matrimonio e famiglia sono
istituzioni sociali cui sono affidati due compiti fondamentali: un
primo compito è quello di controllare la pulsione erotica, che deve
essere incanalata entro le forme tradizionali per evitare i suoi
effetti destabilizzanti per la società e per creare l’ambiente
adatto alla riproduzione, funzione ovviamente essenziale per la
permanenza nel tempo di una qualsiasi organizzazione sociale; un
secondo compito è quello di rendere possibile una stabile continuità
nell’attività produttiva, rispetto alla quale la famiglia è la
cellula di base. Ovviamente, anche nelle nostre società il
matrimonio ha a che fare con queste funzioni, ma per noi esse sono
subordinate alle libere scelta di vita di due individui. Nelle
società tradizionali, quelle funzioni erano gli aspetti
fondamentali. Non si trattava cioè di cercare l’anima gemella, la
personalità affine alla propria o magari il grande amore, ma
piuttosto di scegliere il partner affidabile di una vita di lavoro e
sacrifici, scelta che fra l’altro doveva avvenire all’interno di
un campione piuttosto ristretto (il villaggio, al più i villaggi
vicini). In queste condizioni, quale poteva essere la vita
matrimoniale? Poteva naturalmente diventare un inferno per tutti i
soggetti coinvolti. Nei casi migliori, poteva nascere fra gli sposi
(sovente dopo dopo il matrimonio, non prima) una conoscenza reciproca
che portava a una qualche forma di affetto, o almeno di tolleranza e
complicità, che permetteva una vita famigliare relativamente serena,
e una vecchiaia protetta grazie a figli, figlie e nipoti. Se questa
era la condizione generale del matrimonio nelle società premoderne,
possiamo di nuovo porci la domanda su quali fossero i vantaggi
maschili e gli svantaggi femminili sulle base dei quali argomentare a
favore della tesi dell’oppressione delle donne. La natura del
matrimonio nella società premoderna escludeva sia per gli uomini sia
per le donne l’idea, alla quale noi siamo abituati, della ricerca
della “persona giusta”, e imponeva di condividere la vita con una
persona che si conosceva poco e con la quale potevano esserci poche
affinità. Qualsiasi cosa possiamo pensare di questo tipo di
impostazione, i suoi difetti toccavano indistintamente uomini e
donne. Come s’è detto, il matrimonio nelle società premoderne
poteva certo diventare un inferno, ma, quando era tale, lo era per
tutti i soggetti coinvolti. Certamente le singole situazioni potevano
essere molto diverse, poteva esserci il marito violento o la moglie
manipolatrice e denigrante, ma non vedo perché si debba pensare che
uno dei due casi fosse più comune dell’altro.
Anche
in questo caso si confermano, mi sembra, le caratteristiche delle
società premoderne: quelle cioè di una vita difficile e dura per
tutti, che non lasciava grande spazio alle aspirazioni di
realizzazione individuale, per nessuno, ma che permetteva, a chi era
capace di collaborazione e condivisione, una vita decente all’interno
dei vincoli imposti dalla realtà data.
Esaminiamo
adesso il problema dei rapporti di potere. Esisteva nel villaggio
premoderno una significativa differenza di potere fra uomini e donne,
e questo permetteva agli uomini di ottenere significativi
miglioramenti del livello di vita rispetto alle donne? Sembra
abbastanza ovvio osservare che i contadini del villaggio erano tutti,
uomini e donne, ben lontani dai vertici del potere delle diverse
società in cui vivevano, e quindi il potere di cui potevano disporre
era talmente infinitesimale che anche la presenza di differenziali di
potere fra uomini e donne poteva cambiare poco le vite rispettive.
Quello che si poteva fare nel villaggio era legato all’autogestione
della vita del villaggio stesso, che in effetti aveva margini non
banali, una volta assicurato l’assolvimento dei vari oneri dovuti
ai potenti di turno. L’assemblea del villaggio è sempre stato un
ruolo di discussione e confronto reali. Ma dobbiamo ancora una volta
ricordare che nelle società premoderne la vita si svolge lungo i
canali della tradizione. La discussione all’assemblea del villaggio
serve a organizzare la vita quotidiana e a rispondere ai problemi che
sorgono di continuo, ma non a cambiare drasticamente la realtà,
tantomeno a realizzare un progetto di realizzazione individuale nel
senso moderno. Per capire di cosa si trattava, probabilmente
l’analogia migliore nella nostra vita attuale è quella con una
assemblea di condominio. C’era un differenziale di potere a favore
degli uomini? Le situazioni ovviamente erano diversissime. In certe
civiltà le donne partecipano alle assemblee di villaggio assieme
agli uomini, in altri casi esse sono riservate agli uomini, o magari
ai capifamiglia. In determinati casi storici, quindi, il potere delle
assemblee di villaggio era un potere da cui le donne erano escluse.
Ma questo incideva sulla vita effettiva di uomini e donne? Quali
erano i vantaggi concreti che gli uomini ricavavano da questo potere,
nei casi in cui era solo loro? Gli stessi che si ricavano oggi dal
partecipare ad una assemblea di condominio, si potrebbe rispondere,
ammettendo che l’analogia sopra suggerita sia corretta. Sembrerebbe
abbastanza naturale sostenere che assemblee di villaggio erano solo
un lavoro in più, una cosa che si doveva fare per difendere gli
interessi della propria famiglia (e quindi anche quelli di chi
eventualmente non poteva partecipare), senza che questo
rappresentasse una significativa possibilità di cambiamento
effettivo della vita, di realizzazione di sé al di fuori delle norme
prescritte dalla tradizione. È certamente possibile che qualche uomo
fosse particolarmente portato per questo tipo di gestione del
villaggio, e quindi trovasse una sua soddisfazione nel partecipare
alle assemblee, così come è possibile che qualche donna esclusa
fosse altrettanto capace e abbia vissuto l’esclusione come una
limitazione di sé. Ma è ugualmente possibile che altri uomini
abbiano vissuto tale partecipazione come un inutile sovraccarico di
fatica, e che altre donne fossero ben contente che a loro tale fatica
fosse risparmiata. Non c’è dunque motivo di pensare che la
partecipazione all’assemblea di villaggio, nei casi in cui era
obbligatoria per gli uni e negata alle altre, abbia rappresentato un
evidente vantaggio di vita per gli uomini. Anche per quanto riguarda
il potere che veniva esercitato dall’esterno sulla comunità,
talvolta con violenza, non sembra si possa affermare un significativo
differenziale fra uomini e donne. Tutti erano soggetti alla violenza
dei potenti. Innanzitutto l’intera comunità veniva sfruttata, in
un modo o nell’altro, per mantenere i ceti superiori, il che
significa che una parte del frutto del lavoro comune di uomini e
donne dei ceti inferiori veniva espropriato a favore di uomini e
donne dei ceti superiori. Quando le vicende storiche portavano
all’insorgere di forme di violenza (invasioni, guerre, razzie di
predoni, repressione violenta di rivendicazioni popolari), uomini e
donne del villaggio erano tutti passibili di diventare vittime della
violenza esterna: si potevano subire violenze, si poteva essere fatti
schiavi, e la condizione dello schiavo poteva essere molto indegna o
pericolosa (gli uomini potevano essere sottoposti a lavori
particolarmente usuranti o pericolosi, le donne a sfruttamento
sessuale), oppure si poteva essere semplicemente uccisi; forse era
più probabile per gli uomini essere uccisi e per le donne essere
stuprate, ma mi sembrerebbe difficile sostenere che questo
rappresenti un significativo privilegio per gli uomini.
Possiamo
allora concludere la nostra disanima della condizione maschile e
femminile nelle società agricole tradizionali, in riferimento alla
grande maggioranza della popolazione, formata da contadini e
contadine. Nella vita di questi strati della popolazione, non ci
sembra di scorgere decisivi vantaggi a favore degli uomini.
Ricapitoliamo i punti centrali della nostra argomentazione: si
trattava di un mondo nel quale non esisteva l’idea di realizzazione
della propria personalità, di libera scelta di un proprio percorso
di vita nei suoi vari aspetti, fra i quali la vita affettiva. L’idea
di un diritto alla libera scelta della propria vita è appunto il
portato della modernità. La vita nelle società tradizionali era
prima di tutto una vita di lavoro e di sacrifici, per uomini e donne.
Era una vita nella quale si poteva trovare un senso e una condizione
accettabile, ma questa si costruiva non nell’indipendenza personale
che è tipica della modernità, ma all’interno di una rete di
relazioni e di condizionamenti reciproci che poteva dare protezione,
affetto, riconoscimento, ma impediva quel tipo di libertà alla quale
noi siamo abituati. Questi limiti condizionavano la vita di tutti,
uomini e donne, con differenze di tipo “organizzativo” (la più
importante, come abbiamo già ricordato, era la divisione del lavoro
su base sessuale) ma senza evidenti dislivelli nella qualità della
vita.
Se
è chiaro il tipo di argomento che regge queste considerazioni, diviene evidente come esso si possa ripetere più o meno allo stesso
modo per le società di cacciatori-raccoglitori che hanno preceduto
la rivoluzione neolitica o che non sono entrate nel suo meccanismo.
Si tratta anche in questo caso di società che presentano
un’organizzazione della vita basata su comunità e tradizione, e
una divisione del lavoro su base sessuale. Di nuovo, non sembra
possibile evidenziare in tali società decisivi vantaggi di livello
di vita a favore degli uomini [3].
III.
La modernità
Quanto
abbiamo argomentato finora si propone di criticare la tesi femminista
di una oppressione millenaria della donna. Si intende con questo
negare ogni giustificazione storica alle lotte per l’emancipazione
femminile? La necessità di tale emancipazione è una illusione
storica, una chimera? No, la lotta moderna per l’emancipazione
femminile ha una sua ragion d’essere e una sua giustificazione
storica. Ma non sono quelle della narrazione femminista. La lotta per
l’emancipazione femminile nasce nella modernità perché è nella
stessa modernità, non nel passato millenario delle società
premoderne, che si radicano i problemi che giustificano storicamente
tale lotta.
Abbiamo
detto che la società premoderna non contempla il libero sviluppo
della personalità. Questo è appunto lo specifico della modernità.
La modernità nasce con la promessa di emancipare gli esseri umani
dai vincoli delle società tradizionali e di offrire a tutti la
possibilità di costruire in autonomia la propria vita. Questa
promessa non viene realizzata subito, non viene realizzata per tutti.
La storia della modernità è la storia delle lotte per
l’emancipazione di tutti, per la realizzazione universale della
promessa emancipativa. All’inizio della modernità l’autonomia
personale è una conquista di pochi, e occorreranno secoli di lotte
sociali perché le conquiste della modernità vengano via via estese
a chi ne era escluso. Il punto cruciale, per il tema che stiamo
discutendo, è allora questo: le donne all’inizio fanno parte del
gruppo degli esclusi. Mentre gli uomini a poco a poco si liberano dai
vincoli della società tradizionale (all’inizio solo alcuni, poi
via via gruppi sempre più ampi di uomini), la vita delle donne resta
legata agli schemi che gli uomini hanno cominciato a superare. La
donna resta confinata nella famiglia tradizionale, che riproduce le
caratteristiche delle comunità premoderne, mentre quelle stesse
comunità vengono lentamente corrose dagli sviluppi moderni. Tutta la
“questione femminile” sta qui: si tratta non di una oppressione
millenaria, ma di un ritardo, rispetto agli uomini, nella liberazione
dai vincoli delle società tradizionali. Ci si può chiedere il
motivo di tale ritardo, ma non è la questione che mi preme in questo
scritto. Forse una spiegazione può essere il fatto che
l’emancipazione moderna inizialmente nasce nella sfera del lavoro
esterno alla dimensione famigliare, cioè in quella che era la sfera
d’azione tipica degli uomini, mentre la sfera femminile del lavoro
famigliare inizialmente non viene toccata dai grandi cambiamenti
della modernità. E questo fatto potrebbe a sua volta esser legato
alla necessità di un “punto fermo” in una situazione storica di
grandi cambiamenti. Forse nessuna rivoluzione può cambiare tutto
nello stesso tempo, e forse la dimensione tradizionale della famiglia
era necessaria nella prima fase della modernità perché permetteva
una “stabilità antropologica” senza la quale la società, sotto
la pressione di cambiamenti epocali, correva il rischio di
dissolversi. Ma queste sono solo ipotesi, e come ho detto non sono
adesso interessato a trovare una risposta a tale questione. È
importante che sia chiaro il punto fondamentale sopra indicato: la
necessità dell’emancipazione femminile non è il risultato di una
oppressione millenaria ma nasce nella modernità, e nasce come
“esclusione dall’emancipazione”. E come nella modernità nasce
questa “esclusione”, così nella modernità nascono, subito o
quasi subito, anche le lotte per il superamento di questa esclusione.
Allo stesso modo, l’esclusione dall’emancipazione delle classi
lavoratrici ha fatto sorgere, subito o quasi, la lotta per
l’emancipazione dei lavoratori. E le conquiste femminili vanno di
pari passo con le conquiste degli altri gruppi di esclusi, in
particolare, appunto, con quelle della classe lavoratrice. La
questione sarebbe allora di capire se questo processo possa dirsi
concluso, se il “ritardo” nell’emancipazione delle donne sia
stato colmato. È mia opinione che la risposta a questa domanda sia
positiva, ma anche in questo caso non si tratta del tema di questo
scritto. Cercherò di argomentare questa risposta in interventi
prossimi.
Per
completezza di discussione, può essere interessante porsi la domanda
seguente: se le cose stanno come ho argomentato finora, perché è
sorta la leggenda dell’oppressione millenaria delle donne? Si
tratta a mio avviso di un errore intellettuale che aveva una funzione
pratica. L’errore intellettuale consiste nell’anacronismo, o
meglio, per essere più precisi, della proiezione sul passato di
condizioni antropologiche contemporanee. Le donne e gli uomini che
hanno lottato, nella modernità, per l’emancipazione femminile,
hanno correttamente visto che le chiusura della donna nella sfera
domestica rappresentava, nella modernità, una limitazione
all’emancipazione stessa, una negazione di quella dimensione di
libertà e autonomia che è il vessillo della modernità, e quindi un
elemento di discriminazione delle donne rispetto agli uomini. Poiché
questa “restrizione” della donna ad una sfera particolare si
ritrova, come abbiamo detto, in tutta la storia, i teorici moderni
(uomini e donne) dell’emancipazione hanno concluso che anche nelle
società premoderne vi fosse una analoga discriminazione. L’errore
dovrebbe essere evidente, alla luce di quanto fin qui detto: nelle
società premoderne alla “restrizione” della donna in un
determinato ambito fa da contraltare non la libertà moderna
dell’uomo, ma una analoga “restrizione” dell’uomo, solo in un
ambito diverso. Detto altrimenti: nella modernità l’uomo si
emancipa dai vincoli delle società tradizionali mentre la donna
resta soggetta a tali vincoli che si esprimono nella forma della
famiglia tradizionale, mentre nelle società premoderne sia gli
uomini sia le donne sono soggetti a tali vincoli, che hanno forme
diverse dovute ai diversi ambiti di azione di uomini e donne.
L’errore dei teorici dell’oppressione millenaria della donna è
analogo a quello di chi legge le relazioni economico-sociali
dell’antichità con le categorie dell’economia capitalistica, in
sostanza proiettando le categorie che descrivono l’economia
capitalistica su un passato che è essenzialmente diverso.
Questo
errore intellettuale, come si è detto, ha avuto una funzione pratica
nella creazione del movimento di liberazione femminile. Nella
modernità i movimenti di liberazione hanno sempre bisogno di
proiettare la lotta che essi conducono su uno sfondo di oppressioni
millenarie. Vale per il movimento di emancipazione femminile come
pure per il movimento dei lavoratori. In questo modo essi si
costruiscono un’aura “messianica”, presentando la propria lotta
come il riscatto di una ingiustizia smisurata perché proiettata
sull’intera storia umana. È come se l’ingiustizia presente, che
è quella contro la quale si lotta realmente, non fosse sufficiente a
giustificare la lotta stessa. Sarebbe interessante approfondire
queste dinamiche intellettuali ma, di nuovo, si tratta di un’indagine
che fuoriesce dai limiti di questo scritto.
IV.
Uomini e donne nel crepuscolo di civiltà
La
tesi fondamentale di questo scritto è quella argomentata nelle
pagine precedenti. In quest’ultima parte vorrei collegare quanto
finora detto con alcune riflessioni sul prossimo futuro, che nascono
dalla convinzione che l’attuale organizzazione sociale sia avviata
su un percorso irreversibile di declino, che porterà a gravissime
crisi. Tali crisi si svilupperanno su più piani (ecologico,
economico, politico) e porteranno sofferenze e violenze, paragonabili
a quelle che il mondo occidentale ha conosciuto con la crisi e la
caduta dell’organizzazione economica e sociale del mondo antico (ma
probabilmente molto più gravi). Ho cercato di portare
argomentazioni a sostegno di questa tesi in alcuni interventi su
questo blog [4], e non insisterò oltre su questo punto, che è la
base di quanto segue. Questa situazione comporta, a mio avviso, un
cambiamento profondo nelle dinamiche culturali del nostro tempo,
rispetto ai secoli XIX e XX, che sono stati quelli delle lotte di
emancipazione degli “esclusi”. Il grande tentativo del movimento
intellettuale di critica progressiva della modernità è stato
infatti quello di salvare le conquiste emancipative della stessa
modernità (e fra esse l’emancipazione femminile) superando gli
aspetti più feroci e disumani della struttura sociale capitalistica.
La contraddizione qui sta nel fatto che la struttura sociale
capitalistica è pur sempre quella all’interno della quale si sono
dati gli sviluppi emancipativi della modernità. Questa tensione al
compimento emancipativo della modernità verso una società che
superi gli impulsi distruttivi del capitalismo moderno, rappresenta
il tema fondamentale di molta parte della storia spirituale della
modernità stessa, e in particolare il filo rosso che lega la
filosofia classica tedesca a Marx. Se questa è la tradizione della
“critica progressiva” del capitalismo, la situazione attuale si
presenta completamente diversa, e ci indica che siamo entrati in una
costellazione spirituale per certi versi opposta. Oggi dobbiamo
confrontarci non col tema della transizione ad una forma più evoluta
di relazioni umane, ma col tema del prossimo crollo drammatico dell’attuale
società. In questo contesto, il compito non è più quello di
sviluppare le conquiste della modernità ad un livello superiore di
civiltà, ma piuttosto quello di salvare quanto possibile di tali
conquiste attraverso il crollo di una civiltà.
Per
capire come orizzontarci nelle prossime crisi, dobbiamo avere chiaro
che le drammatiche prove che ci attendono colpiranno in modo diverso
le persone ai diversi livelli sociali: chi ha potere e denaro
sicuramente riuscirà a cavarsela meglio o almeno avrà maggiori
opzioni per proteggersi, e maggiori possibilità di riuscirci. Tutti
gli altri, le persone dei ceti medi e bassi, si troveranno in
difficoltà molto maggiori. La principale risorsa dei ceti medi e
bassi, per resistere alle tempeste in arrivo, sarà legata alla
capacità di costruire o ricostruire reti di relazioni o di rapporti
comunitari che supportino forme diffuse di aiuto reciproco. Le
persone dei ceti subalterni dovranno cioè costruire una forma o
l’altra di comunità solidale. Questa non è certo una novità
storica: si tratta esattamente della situazione che abbiamo descritto
nella prima parte di questo intervento. Le comunità premoderne erano
appunto comunità legate da rapporti di aiuto reciproco che
permettevano di sopravvivere in un ambiente che, se non era sempre
completamente ostile, imponeva comunque regole precise e un duro
lavoro, ai fini della sopravvivenza. La famiglia premoderna era il
nucleo di base e il modello di questo tipo di comunità, che offriva
protezione ma imponeva pesanti vincoli alle possibilità di
autonomia.
La
costruzione di reti comunitarie e solidali impone un prezzo, come lo
imponevano le comunità del passato. Non sarà possibile portare in
questa situazione la forma di individualismo che è tipica del nostro
mondo: essa è in contrasto con la dimensione comunitaria, e ha
potuto sorgere solo sulla sua rovina. Ma si può provare a salvarne
alcuni aspetti fondamentali, come la libertà di pensiero o il
rispetto dell’inviolabilità della persona. Per quanto riguarda la
famiglia, il compito sarà probabilmente quello di ricostruirne la
dimensione comunitaria all’interno della nuova situazione, salvando
le conquiste fondamentali del processo emancipativo, cioè la parità
in diritti e dignità di uomini e donne.
L’impressione
è che il femminismo attuale non abbia coscienza della necessità di
porsi su questo piano di problemi. L’azione del femminismo attuale
si esplica come una attività rivendicativa a favore delle donne.
Questo tipo di attività mostra due limiti fondamentali, rispetto ai
problemi cui abbiamo accennato: in primo luogo essa appare del tutto
interna all’orizzonte della società attuale. L’attuale
femminismo rivendicativo è costruito sulla richiesta di sempre
maggiori risorse a favore delle donne. Il problema è che tali risorse sono ovviamente
ottenute attraverso l’organizzazione capitalistica della
produzione, che, noi riteniamo, entrerà in crisi irreversibile nei
prossimi decenni, provocando disastri ecologici su vasta scala e
imponendo scelte tragiche[5].
In secondo luogo, il femminismo attuale sembra impostare la propria azione nei termini di una contrapposizione netta fra uomini e donne, che non sembra il quadro di riferimento più adatto alla creazione di comunità solidali. Per fare un esempio, un aspetto di questo atteggiamento femminista è quello di affermare la necessità di avere sempre più donne ai vertici del potere, e di pensare l’accesso di donne ai vertici del potere come una vittoria di tutte le donne. Se vogliamo ricostruire reti di solidarietà per i ceti subalterni, credo sia bene che le donne di tali ceti comincino a chiedersi in che cosa questo femminismo sarà loro di aiuto, nei tempi che si preparano. Per restare all’esempio appena fatto, in che modo l’accesso di qualche donna in più ai vertici del potere sarà di aiuto alle donne dei ceti subalterni? Come abbiamo già detto, è ovvio che i ceti dominanti avranno la possibilità di usare denaro e potere per sfuggire il più possibile ai disastri futuri. E cosa faranno le donne dominanti, le donne che saranno riuscite ad accedere a denaro e potere? Mi sembra che la risposta sia abbastanza ovvia. Una donna ricca e potente farà lo stesso degli uomini ricchi e potenti, cioè metterà in salvo se stessa e i propri cari (uomini e donne) grazie ai propri soldi e al proprio potere. Quando le persone come noi avranno il problema di vivere una vita decente in una situazione, per esempio, di cibo, acqua, riscaldamento razionati, le donne dei ceti medi e bassi troveranno aiuto non nelle donne dei ceti dominanti, ma nella loro cerchia di relazioni, nelle comunità solidali che saranno riuscite a costruire, e che comprenderanno molto probabilmente uomini e donne. Il modo migliore per prepararci ai tempi bui che aspettano quelli come noi, uomini e donne ai livelli medi e bassi della società, non sta certo nel combattere lotte fra uomini e donne che hanno come effetto quello di recidere i nostri legami ed eventualmente di far salire ai piani alti del potere qualche donna in più, ma sta nel costruire reti di relazioni, di collaborazione, di aiuto reciproco [6].
In secondo luogo, il femminismo attuale sembra impostare la propria azione nei termini di una contrapposizione netta fra uomini e donne, che non sembra il quadro di riferimento più adatto alla creazione di comunità solidali. Per fare un esempio, un aspetto di questo atteggiamento femminista è quello di affermare la necessità di avere sempre più donne ai vertici del potere, e di pensare l’accesso di donne ai vertici del potere come una vittoria di tutte le donne. Se vogliamo ricostruire reti di solidarietà per i ceti subalterni, credo sia bene che le donne di tali ceti comincino a chiedersi in che cosa questo femminismo sarà loro di aiuto, nei tempi che si preparano. Per restare all’esempio appena fatto, in che modo l’accesso di qualche donna in più ai vertici del potere sarà di aiuto alle donne dei ceti subalterni? Come abbiamo già detto, è ovvio che i ceti dominanti avranno la possibilità di usare denaro e potere per sfuggire il più possibile ai disastri futuri. E cosa faranno le donne dominanti, le donne che saranno riuscite ad accedere a denaro e potere? Mi sembra che la risposta sia abbastanza ovvia. Una donna ricca e potente farà lo stesso degli uomini ricchi e potenti, cioè metterà in salvo se stessa e i propri cari (uomini e donne) grazie ai propri soldi e al proprio potere. Quando le persone come noi avranno il problema di vivere una vita decente in una situazione, per esempio, di cibo, acqua, riscaldamento razionati, le donne dei ceti medi e bassi troveranno aiuto non nelle donne dei ceti dominanti, ma nella loro cerchia di relazioni, nelle comunità solidali che saranno riuscite a costruire, e che comprenderanno molto probabilmente uomini e donne. Il modo migliore per prepararci ai tempi bui che aspettano quelli come noi, uomini e donne ai livelli medi e bassi della società, non sta certo nel combattere lotte fra uomini e donne che hanno come effetto quello di recidere i nostri legami ed eventualmente di far salire ai piani alti del potere qualche donna in più, ma sta nel costruire reti di relazioni, di collaborazione, di aiuto reciproco [6].
Concludo
ricordando una parola che ha avuto una certa importanza, nella storia
del XIX e del XX secolo. Si tratta di
“compagno” o “compagna”,
parola che, come è noto,
può avere molti significati diversi: da
quello politico, che indicava i membri dei partiti socialisti e
comunisti, a quello relativo alla scuola o
al lavoro, a quello
affettivo. È anche noto che la sua etimologia rimanda al significato
del condividere il pane.
Il compagno o la compagna sono coloro con i quali si divide il pane.
Penso che si possa concludere questo scritto con un invito rivolto a
tutti, uomini e donne. L’invito è quello a porsi le domande che,
io credo, diventeranno fondamentali in un futuro non troppo lontano:
chi sono i miei compagni e le mie compagne? Su chi posso fare
affidamento? Con chi dividerò il mio pane, chi dividerà
il suo pane con me?
Credo
che a partire da queste domande uomini
e donne dei ceti subalterni possano provare a ripensare in maniera
più serena i propri reciproci rapporti.
Almeno è questo, per quel che può valere, il mio auspicio.
Note.
[1] Il riferimento è
ovviamente al celebre testo di F.Engels su “La situazione della
classe operaia in Inghilterra”.
[2] Si veda in particolare
M.Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani
1980, e Y.N.Hariri, Da animali a Dei. Breve storia dell’umanità,
Bompiani 2014. Osservazioni interessanti sulla rivoluzione neolitica
anche in J.C.Scott, Le origini della civiltà, Einaudi 2018.
[3] Un’analisi simile dei
rapporti tradizionali fra uomo e donna è stata svolta in W.Farrell,
The myth of male power, Simon&Schuster 1993. La nostra
analisi si differenzia da quella di Farrell nella valutazione della
modernità, trattata nei punti seguenti.
[5]
Un intervento molto serio sulla tragicità delle scelte cui l’umanità
si troverà di fronte è il seguente:
https://www.apocalottimismo.it/il-ritorno-della-tragedia/
[6]
Un altro esempio degli aspetti problematici del femminismo
contemporaneo è nel seguente intervento
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