La
Commissione dell’Amore e la fine del capitalismo
Marino
Badiale
I.
Premessa
Lo
stimolo diretto alla stesura di questo scritto viene
dall’istituzione, da parte del Senato della Repubblica Italiana,
della “Commissione
straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza,
razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza”
[1],
ma le riflessioni che lo compongono hanno radici più lontane. Da
molto tempo, infatti, mi sembra di notare nelle
nostre
società
una tendenza alla restrizione della libertà di pensiero e di
espressione, e
ritengo che questo tema meriti
una riflessione specifica. Si
tratta di tendenze notate da vari osservatori, per esempio Massimo
Fini che, intervenendo
a proposito dell’istituzione della Commissione, scrive
che non si possono proibire i sentimenti [2]. La
mia prima reazione, quando si è cominciato a parlarne, è stata
quella di trasformare la dicitura
“Commissione contro l’odio” in “Commissione dell’Amore”,
e associare una tale Commissione al “Ministero dell’Amore” di
orwelliana memoria. Queste sono battute scherzose, naturalmente,
ma
accennano a un problema serio, ovvero al problema se si stiano
lentamente erodendo, nei paesi avanzati, alcuni dei fondamentali
principi della civiltà occidentale, e, se questo è vero, quali ne
siano le cause. A questi problemi sono dedicate le riflessioni che
seguono.
II.
Introduzione
Il
punto di partenza delle mie considerazioni, lo sfondo generale nel
quale devono essere inquadrate, è la convinzione che la civiltà
occidentale stia vivendo gli ultimi anni della sua storia. La sua
organizzazione economica e sociale, che brevemente indichiamo col
termine “capitalismo”, sta ormai distruggendo le basi naturali e
sociali della sua stessa riproduzione. Si tratta di una società
entrata in una fase “autofagica”[3], che porterà alla sua fine
traumatica, probabilmente entro la fine di questo secolo. Ho
delineato uno schizzo di queste dinamiche in alcuni interventi
pubblicati in questo blog [4], interventi che riprenderò brevemente
più avanti. In questo scritto intendo evidenziare un aspetto
particolare ma significativo della crisi generale della civiltà
occidentale, ormai incipiente. È facile infatti prevedere che la
fine della civiltà occidentale coinvolgerà alcuni dei suoi valori
fondamentali, se non tutti. In particolare, la crisi ambientale, che
al momento si manifesta come mutamento climatico ma assumerà
probabilmente forme molteplici, imporrà severe restrizioni sulla
libertà delle scelte di vita individuali alle quali la società
contemporanea ci ha abituati. La lotta politica del futuro sarà
anche una lotta su quali restrizioni accettare e quali rifiutare.
Anche in vista di tali lotte politiche future, in questo scritto
intendo in primo luogo mostrare come alcuni dei valori fondamentali
della civiltà occidentale siano messi in discussione già oggi,
anche se in modi non del tutto espliciti. Intendo poi provare ad
elaborare una spiegazione di tale fenomeno. Alla fine cercherò di
trarre delle conclusioni “politiche” (in senso molto lato)
dall’analisi precedente.
III.
L’erosione della libertà di parola
I
punti critici sui quali mi concentrerò in questo scritto sono due:
il progressivo ridursi, nei paesi occidentali, della libertà di
pensiero e di espressione del pensiero, e il progressivo ridursi
delle garanzie di protezione dell’individuo di sesso maschile nei
processi nati dalle accuse di una donna. Si tratta in entrambi i casi
di effetti di quello “spirito del tempo” che è abituale
denominare “politicamente corretto”. Cercheremo allora in primo
di luogo di individuare tali tendenze, e poi di capire in che modo il
“politicamente corretto” si collega alla dinamica catastrofica
della società contemporanea.
La
realtà culturale delle società occidentali alla fine della Seconda
Guerra Mondiale era segnata dal ricordo delle dittature contro cui si
era combattuto e dalla sfida rappresentata dal “campo socialista”.
Questa situazione rese inevitabile il fatto che il mondo occidentale
rappresentasse se stesso come il campo delle più ampie libertà per
tutti gli individui. Ovviamente in questo c’era una componente di
ideologia: non tutte le libertà individuali formalmente ammesse
erano in realtà concretamente operanti, e in singole situazioni di
crisi il potere statale poteva sempre sospendere alcune libertà. È
però innegabile che per qualche decennio la direzione verso la quale
si muoveva il mondo occidentale è stata quella di assicurare e
ampliare la sfera delle libertà individuali. Verso la fine del
secolo, in tempi diversi nei vari paesi, hanno cominciato a sorgere
tendenze di tipo opposto.
Se
facciamo riferimento a quel diritto fondamentale che è la libertà
di pensiero e di parola, ci pare possibile sostenere che la tendenza
alla restrizione di tali libertà diventi storicamente significativa
quando vengono configurate come reato le opinioni “negazioniste”
sul genocidio ebraico, prima in Francia poi in vari paesi dell’Europa
continentale. A partire da lì si diffondono via via, in maniera
differenziata nei vari paesi, iniziative legislative tese a
configurare come reato l’espressione di varie forme di opinioni e
ideologie rifiutate dalla grande maggioranza della popolazione, per
esempio opinioni razziste, antidemocratiche, omofobe. In paesi come
l’Italia c’è un forte spinta a proibire l’espressione di
posizioni politiche ispirate al fascismo, nei paesi dell’ex-Europa
dell’Est una simmetrica spinta a rendere illegali formazioni
politiche e espressioni ideologiche di ispirazione comunista o
marxista. Questo tipo di impostazione è stata fatta propria anche
dal Parlamento dell’Unione Europea [5]. Ciò che colpisce, e che si
collega a quanto dicevamo all’inizio, è il carattere di
“normalità” che le iniziative di questo tipo hanno assunto negli
ultimi decenni: non nel senso che ogni iniziativa venga approvata, ma
nel senso che la repressione legale delle opinioni sembra diventato
uno strumento legittimo di governo, e non appare più come una
violazione di principi fondamentali della civiltà occidentale.
Cerchiamo allora di capire perché si tratti invece proprio di
questo. Perché la libertà di pensiero e di parola è un elemento
fondamentale della moderna civiltà occidentale? Perché essa è
inscindibilmente connessa ai dati più basilari di tale civiltà.
Pensiero critico, emancipazione dell’individuo dai legami delle
società tradizionali, libertà di parola e di pensiero, democrazia,
sono tutte nozioni che definiscono aspetti imprescindibili della
moderna civiltà occidentale, e sono fra loro intimamente connesse.
Infatti, la moderna civiltà occidentale è quella civiltà che, per
realizzare la piena emancipazione di ogni individuo, il suo diritto a
costruire la propria vita e la propria personalità, deve emanciparsi
dai vincoli delle società tradizionali, nelle quali gli individui,
nella stragrande maggioranza, vivono una vita determinata appunto dai
vincoli della tradizione e dalla casualità della loro nascita. Ma in
questo modo, rifiutando i vincoli della tradizione, viene meno anche
la gestione tradizionale del potere, e si pone il problema di come
gestire il potere nelle nuove condizioni. Individui emancipati e
liberi di scegliere la propria vita si percepiscono come uguali nei
diritti, e quindi, in particolare, con gli stessi diritti alla
partecipazione al potere, e la democrazia appare allora il logico
sviluppo di tale società. Una società che rifiuta i vincoli della
gestione tradizionale del potere, e affida le decisioni politiche a
cittadini liberi e uguali, non può che far emergere tali decisioni
dalla libera discussione razionale dei cittadini. Ma la libera
discussione razionale dei cittadini è possibile, per definizione,
solo con la totale libertà di pensiero e di espressione del
pensiero. La libertà di pensiero e di parola è quindi inscindibile
dalla democrazia e dal progetto emancipativo della modernità.
È
per questo carattere fondativo della civiltà occidentale moderna che
la libertà di pensiero è elencata come uno dei diritti fondamentali
nelle Costituzioni e nelle Dichiarazioni dei Diritti: in questo modo
se ne vuole fare un diritto non legato alle contingenze politiche,
non revocabile al cambiare delle maggioranze.
Quanto
si è fin qui detto dovrebbe essere una banalità, e tale era fino a
qualche tempo addietro. Come dicevamo all’inizio, la libertà di
pensiero e di parola è sempre stata considerata, nei paesi
occidentali, un bene prezioso, e uno dei tratti che
contraddistinguevano l’Occidente rispetto ai suoi antagonisti
storici del Novecento: i regimi reazionari (fascismo e nazismo) e il
socialismo sovietico.
I
fenomeni che abbiamo sopra elencato sembrano indicare che si sono
messi in moto meccanismi che tendono a negare questi principi
fondamentali. Ogni volta le misure di restrizione del campo delle
opinioni ammissibili vengono giustificate con motivi di particolare
insopportabilità delle opinioni proibite, e di particolare
pericolosità. Si fanno spesso a questo proposito gli esempi delle
vicende storiche del fascismo e del nazismo, ma è proprio in
riferimento a tali vicende che mostra la novità delle tendenze
attuali. È infatti vero che in particolari momenti di scontro fra
movimenti politici con valori opposti si può arrivare alla
sospensione dei diritti fondamentali, compreso quello della libertà
di parola. Ma si tratta di momenti nei quali si è in presenza di uno
confronto aspro che sfocia prima o poi nello scontro violento, se già
tale scontro non è in corso. Basti pensare agli scontri fisici fra
fascisti e antifascisti nell’Italia del primo dopoguerra, o agli
scontri fra nazisti e antinazisti nella Germania degli anni ‘20. In
tali casi si è arrivati alla violenza e all’omicidio. Oppure si
pensi alla guerra partigiana: è chiaro che i fascisti non
permettevano la libera espressione del pensiero agli antifascisti,
nei territori da essi controllati, e altrettanto facevano gli
antifascisti.
Questi
esempi servono a chiarire il punto: la sospensione dei diritti
fondamentali, fra i quali la libertà di parola, ha senso solo in
presenza di una situazione eccezionale nella quale è in corso uno
scontro violento, per esempio fra forze che intendono abbattere uno
Stato democratico e instaurare una dittatura e forze che a questo si
oppongono (o viceversa). Una tale situazione è però, ovviamente,
eccezionale e transitoria.
Le
differenze con la situazione attuale sono evidenti: oggi si invoca la
proibizione di opinioni sgradite senza che vi sia il minimo elemento
che possa far temere rivolgimenti violenti dello status quo, e
d’altra parte queste proibizioni non sono pensate come risposte a
situazioni di emergenza destinate a essere rapidamente revocate, ma
come ingredienti permanenti nel futuro delle nostre società.
Queste
misure, concepite appunto come misure permanenti, rappresentano con
ogni evidenza una lesione gravissima dei fondamenti delle nostre
società. Infatti, dire che la libertà di pensiero e di espressione
non è più un diritto fondamentale, ma può essere messa in
questione dalle variabili maggioranze politiche, è lo stesso che
dire che il potere politico (variabile appunto secondo le diverse
maggioranze) ha diritto a stabilire cosa si può pensare e cosa no. E
non vale replicare che tali misure si applicano solo a casi estremi,
perché in ogni caso si lascia al potere la libertà di decidere
quali sono i confini dei “casi estremi”. Basti pensare a cosa
succede in Italia con la parola “fascismo”. Nel nostro paese
esistono piccoli gruppi di ispirazione fascista, ed esistono realtà
virtuali (siti, pagine facebook) che propagandano ideologie di quel
tipo. Tutto questo è privo di qualsiasi rilevanza storico-politica:
i gruppi politici di ispirazione fascista non hanno nessun seguito
effettivo, nessuna capacità di azione politica effettiva, e al più
possono rappresentare, in certe situazioni locali, un limitato
problema di ordine pubblico; quanto a internet, vi si trova il
fascismo come vi si trova qualsiasi altra cosa, dai rettiliani ai
terrapiattisti, esattamente con gli stessi risultati pratici (pari a
zero). Nonostante questa inesistenza pratica del fascismo, esistono
in Italia molte persone che ritengono impellenti la mobilitazione
antifascista e il contrasto di un fascismo inesistente nella realtà
storica effettuale, e che sono favorevoli a misure che restringano la
libertà di propaganda dei fascisti. Il punto è che gli antifascisti
italiani proseguono oggi una pessima abitudine della sinistra
italiana, quella cioè di usare l’appellativo “fascista” come
clava per colpire gli avversari politici. Ciò significa, ed è
questo il punto cruciale, che quando gli antifascisti dicono “i
fascisti non devono parlare” bisogna sempre avere presente il
sottinteso, raramente esplicitato, “chi è fascista lo decido io”.
Ciò che gli attuali antifascisti vorrebbero è dunque poter abolire
la libertà di parola per i “fascisti”, e poi decidere che
“fascista” è, per esempio, la Lega di Salvini, o comunque
l’avversario politico del momento.
Purtroppo
questo tipo di impostazione non si limita all’accusa di “fascismo”.
Il fascismo è una realtà storica e politica ben determinata, quindi
il tentativo di usarlo per screditare qualsiasi avversario si scontra
contro qualche difficoltà. L’accusa di “fascismo” può sempre
essere contestata. Non ci sembra un caso allora che negli ultimi
tempi si sia passati ad accuse molto più generiche, e quindi molto
più difficili da discutere e contestare. L’esempio standard è
l’accusa di “odio”, che è anche il tema da cui siamo partiti.
Si tratta di un’accusa del tutto generica e indeterminata. La
stessa mozione che istituisce la “Commissione contro l’odio”
[6] ripete in più punti che la nozione di “hate speech” non è
ben definita. In effetti è proprio così, e questa vaghezza è
ovviamente molto pericolosa perché può essere il modo per
legittimare ogni arbitrio in tema di restrizione della libertà di
pensiero e parola. Infatti, la politica è scontro di forze in
contrasto, e quindi al suo centro vi è la polemica e la critica
reciproca. Quand’è che una critica è espressione di “odio” e
quando invece no? Chi lo stabilisce? Con quali criteri? Pensiamo al
marxismo: sarebbe un facile esercizio quello di andare a pescare,
all’interno della vasta letteratura marxista, pagine e pagine nelle
quali si esalta la violenza rivoluzionaria, l’odio di classe nei
confronti dell’avversario politico del momento, la necessità di
privare tale avversario di ogni diritto. È chiaro che, in una
temperie nella quale si vuole censurare le espressioni di “odio”,
ci sarebbero tutte le basi per mettere al bando l’intera
letteratura marxista e rendere fuorilegge ogni gruppo politico che ad
essa si ispiri.
Per
fare un ulteriore esempio, pensiamo al movimento politico cosiddetto
delle “sardine”, che a fine 2019-inizio 2020 ha riempito molte
piazze in Italia esprimendo forte opposizione alle politiche e alle
forme comunicative della destra, in particolare della Lega Nord e del
suo leader Salvini, accusate di essere appunto espressione di “odio”.
Quando i leader delle “sardine” hanno provato ad esprimere dei
punti programmatici, si sono espressi quasi esclusivamente in termini
di repressione del pensiero e della parola [7], attirandosi un certo
numero di critiche. In particolare ha suscitato sorpresa e
inquietudine la pretesa di equiparare violenza verbale e violenza
fisica [8], pretesa che è davvero irricevibile in uno Stato che
garantisca i fondamentali diritti individuali. In questo esempio si
vede molto chiaramente come il “rifiuto dell’odio” sia una
espressione del tutto generica, che funziona come grimaldello per
rendere accettabili richieste molto preoccupanti dal punto di vista
dei principi del diritto liberale.
È
probabile che il movimento delle “sardine” si dissolva
rapidamente, e che i suoi “sei punti”
vengano
presto dimenticati. Ciò nonostante, si tratta di un episodio che mi
sembra esprimere
chiaramente tutti i pericoli impliciti nella attuale deriva
“proibizionistica” dei paesi occidentali. Il punto fondamentale,
ripetiamolo
ancora, nel
richiedere che vengano proibiti i “discorsi di odio” sta nel
fatto che poi è il potere del momento a stabilire cosa è odio e
cosa no. Ed è facile prevedere che il potere cercherà si servirsene
per mettere a tacere gli avversari.
Porre la libertà di parola come
principio al fondamento degli ordinamenti dei paesi occidentali serve
appunto ad evitare che il potere politico del momento possa fare
questo: censurare e mettere a tacere gli avversari, reali o
potenziali. Ammettere deroghe al principio della libertà di parola,
specie parlando di concetti vaghi come quello di “odio”,
significa lasciare al potere la libertà di censurare ogni opinione
sgradita.
IV.
La fine dell’uguaglianza
L’altro
elemento di crisi dei valori liberali sul quale volevo soffermarmi è
quello legato alle dinamiche del femminismo contemporaneo. Mi
riferisco alla tendenza, da parte delle sue varie correnti, a
richiedere che le accuse di violenza di una donna nei confronti di un
uomo debbano essere credute “sulla parola”, e debbano portare in
modo automatico alla condanna. “Sorella io ti credo” è lo slogan
di tante manifestazioni femministe relative a processi, in vari paesi
del mondo, nei quali uomini sono accusati da donne di violenza o
molestie (specie di tipo sessuale, ma non solo). Ora, in questo come
in qualsiasi altro processo penale, è ovvio che lo schema del
diritto liberale prevede che ci sia un accusatore che afferma la
colpevolezza dell’imputato, un imputato che quasi sempre proclama
la propria innocenza, una istanza giudicante (chiamiamola “giudice”)
“terza”, cioè neutrale, che deve stabilire chi ha ragione fra le
due parti. Il principio fondamentale, che è una ovvia conseguenza
dell’uguaglianza fra tutti i cittadini, è che accusatore e
accusato sono uguali, quindi a priori, prima del processo, nessuna
delle due parti ha ragione e a nessuna delle due parti il giudice
deve accordare più credito che all’altra. L’altro principio
fondamentale è la presunzione di innocenza: le accuse devono essere
provate, e finché non lo sono l’accusato è innocente; inoltre, è
appunto l’accusa che deve provare la colpevolezza dell’imputato,
non l’imputato che deve provare la propria innocenza.
Ora,
è evidente che la pretesa femminista che l’accusa di una donna nei
confronti di un uomo debba sempre essere creduta, scardina tutti
questi principi: le due parti (donna accusatrice, uomo accusato), non
sono uguali, perché la parola di lei vale più di quella di lui; la
presunzione di innocenza viene abolita perché l’accusa di una
donna nei confronti di un uomo non ha bisogno di altre prove che non
siano appunto la parola della donna.
Questa
appare, dicevo, come una tendenza implicita nel modo in cui il mondo
del femminismo contemporaneo affronta tali problemi. In almeno un
caso, però, tale tendenza è stata resa esplicita. La nota filosofa
femminista Germaine Greer ha dichiarato infatti che è necessario
abbassare la punizione prevista per lo stupro, affinché venga
accettato il fatto che l’accusa di stupro sia automaticamente una
prova [9]: “If we do say that our accusation should stand as
evidence, then we do have to reduce the tariff for rape”.
Questa
idea di Greer può sembrare eccessiva o provocatoria, ma sembra che
in qualche modo essa colga una tendenza del nostro mondo. Vediamo
infatti come qualcosa di simile emerga in ambienti diversi da quello
del femminismo anglosassone. All’inizio del 2020 viene concluso il
processo di primo grado nei confronti di Pietro Costa, un ex
carabiniere accusato, assieme ad un collega, di stupro nei confronti
di due giovani americane a Firenze. Costa viene riconosciuto
colpevole e condannato a 5 anni e 6 mesi. In un sito italiano che si
occupa di problematiche di questo tipo compare un’intervista
all’avvocato Serena Gasperini [10], che aveva difeso l’accusato
nel processo [11]. In riferimento al fatto che la pena comminata
all’imputato è relativamente lieve, trattandosi di un reato grave,
ove provato, l’avvocato Gasperini osserva:
“Ci
sono molti processi dove la prova non viene raggiunta e in questi
casi l’imputato deve essere assolto perché il principio
costituzionale è quello che siamo tutti innocenti fino a prova
contraria e che la prova della colpevolezza deve essere dimostrata
dall’accusa. Se però il reato di cui ci si occupa è un reato
“sensibile” allora scatta qualcosa e il principio fondamentale
del diritto
in
dubio pro reo
si trasforma in un principio inesistente nel diritto ovvero: “poca
prova, poca pena”. È bene ricordare che “poca prova” dovrebbe
equivalere ad assoluzione”
L’opinione
dell’avvocato Gasperini è cioè che nei tribunali italiani si stia
affermando, nei processi di questo tipo, proprio l’impostazione
teorizzata da Germaine Greer: si ritengono valide accuse scarsamente
provate e come “compensazione” si comminano pene meno severe. La
coincidenza mi sembra molto interessante in quanto spia di una
tendenza di fondo: non è ragionevole immaginare che la filosofa
australiana abbia una grande influenza sul comportamento dei giudici
italiani, per cui l’indubbia analogia presente fra la tendenza
descritta dall’avvocato Gasperini e le tesi di Greer, mi sembra
possa essere il risultato, appunto, di dinamiche profonde della
nostra realtà sociale e culturale.
Ammettiamo
ora l’ipotesi che quella che abbiamo descritto sia effettivamente
una tendenza di fondo del nostro tempo. A cosa porterebbe, se potesse
dispiegarsi fino in fondo? Qual è l’esito finale di slogan
femministi come “sorella io ti credo”, o di proposte come quelle
di Germaine Greer?
In
sintesi, mi sembra si possa affermare che l’esito finale sia quello
di abolire la libertà individuale della metà maschile dell’umanità,
che in tale ipotesi sarebbe sottomessa al potere arbitrario della
metà femminile. Se ogni accusa di una donna nei confronti di un uomo
deve essere creduta per principio, qualsiasi donna ha il potere,
arbitrario e assoluto, di mandare in prigione (o ad altra pena,
magari più mite) qualsiasi uomo. Ciò significa che nessun uomo è
più un libero individuo, titolare
dei fondamentali diritti liberali sopra enunciati (eguaglianza,
inviolabilità della persona, presunzione di innocenza), ma è
suddito di un potere arbitrario. È facile immaginare quali possano
essere le violenze e i ricatti che una simile situazione porterebbe
con sé. Si tratta
delle violenze e dei ricatti tipici di quella condizione di
“minorità” dalla quale, come è noto, il movimento spirituale
della modernità voleva far uscire gli esseri umani, uomini e donne.
Il fatto che una realtà come il femminismo, così importante nel
mondo contemporaneo, presenti le forti tendenze, sopra individuate,
verso la messa in mora delle conquiste liberali della modernità
(almeno per la metà maschile dell’umanità), è un altro elemento
di crisi dei principi fondamentali della nostra civiltà.
V.
Livelli di spiegazione: lobby e base sociale
Ci
sembra allora di avere individuato nello “spirito del tempo”
alcune spinte verso il superamento di principi fondamentali della
civiltà occidentale. La cosa più impressionante è che tali
tendenze sembrano dispiegarsi in sostanza senza opposizione. Infatti
è già successo che forze politiche e sociali nate dalla civiltà
occidentale si siano evolute fino a metterne radicalmente in
questione i principi fondamentali: fascismo e nazismo hanno messo in
mora libertà di opinione e diritti alla difesa, come oggi vogliono
fare altri. Ma fascismo e nazismo hanno suscitato enormi forze che ad
essi si sono opposte, fino ad una Guerra Mondiale e alla vittoria
contro le dittature reazionarie. Oggi, gli attacchi ai principi della
civiltà occidentale, del tipo sopra descritto, non generano nessuna
reazione, e sono anzi considerati manifestazioni di progresso. Si
tratta adesso di capire la ragioni profonde di questa situazione.
Cerco di puntualizzare la tesi di fondo: quanto fin qui detto
riguarda dinamiche e linee di tendenza che legittimamente possono
apparire meno centrali, nella comprensione del mondo contemporaneo,
rispetto a fenomeni come i mutamenti geopolitici, la strisciante
crisi economica o gli incombenti disastri ecologici. Quello che però
mi pare possibile sostenere è che quanto abbiamo sopra delineato
indichi un inizio di mutamento profondo delle nostre attuali società.
I diritti individuali dei quali abbiamo prospettato l’erosione sono
davvero aspetti fondamentali della nostra attuale civiltà. La loro
messa in mora, anche solo come tendenza, sembra accennare ad un
mutamento storico di vasta portata. Se le cose stanno così, occorre
chiedersi quali siano le forze fondamentali che operano questo
mutamento. È quanto cercheremo di fare adesso. Nell’indagare
questo punto, cercheremo anche la risposta alla domanda posta sopra,
relativa al fatto che queste dinamiche sembrano non suscitare
opposizioni significative.
Se
davvero siamo di fronte a un grande movimento storico delle nostre
società, dobbiamo ricordare che fenomeni di questo tipo presentano
sempre una pluralità di fattori causali, che occorre comprendere
nella loro articolazione. Ogni livello causale fornisce una
spiegazione parziale, che deve essere integrata con quelle degli
altri livelli per ottenere una visione complessiva.
Ci
sono in primo piano gli attori politici (partiti, movimenti, gruppi
di pressione, lobby), che sono le realtà più visibili. Ci sono poi
le forze sociali che si esprimono tramite quegli attori, e ci sono
infine le dinamiche profonde della struttura sociale nelle quali si
inscrivono le realtà del primo e secondo tipo e rendono possibile e
sensata la loro azione. Occorre quindi esaminare questi tre livelli.
Ovviamente in uno scritto come questo potremo fornire solo lo schizzo
di un’analisi. Cercheremo comunque di delineare uno schizzo il più
possibile adeguato alla realtà.
Il
primo livello è quello in realtà meno interessante, e non ci
soffermeremo su di esso. Quello che vediamo a questo livello sono
varie lobby che lottano, con maggiore o minore efficacia, per
ottenere visibilità, soldi e potere, e realizzare i temi delle loro
diverse agende: la lobby sionista per prevenire ogni politica
contraria agli interessi dello Stato di Israele, la lobby femminista
per ottenere sempre e comunque vantaggi per le donne, la lobby
LBGTeccecc per ottenere analoghi vantaggi per le persone LBGTeccecc.
Il tipo di spiegazione che tale livello di realtà offre è piuttosto
povero: le cose succedono per l’azione delle varie lobby, dei vari
gruppi politici. Se non vogliamo fermarci a queste banalità, la
domanda che dobbiamo porci è perché oggi sia il variegato fronte
delle lobby “politicamente corrette” ad ottenere il favore dei
media e del potere politico, e non le tante altre lobby presenti
nell’agone politico. Ma se vogliamo rispondere a questa domanda,
occorre abbandonare il piano dell’apparenza politico-mediatica e
indagare la realtà sociale. Occorre individuare dove stia, nella
società, la base sociale che dà forza all’azione di queste lobby,
e quindi passare al secondo livello di spiegazione.
È
mia opinione che questa base sociale sia costituita dalla sinistra.
Per essere un po’ più precisi, intendo qui riferirmi ai ceti medi
intellettuali che non fanno parte né dei ceti dominanti (ma
potrebbero accedervi, in certi casi) né dei ceti popolari impoveriti
da neoliberismo e crisi economica. In un testo scritto assieme al
compianto Massimo Bontempelli [12], abbiamo parlato di “ceti
intellettuali subalterni”. Riprenderò qui, in maniera succinta, le
analisi svolte a suo tempo nel testo citato. Una delle
caratteristiche fondamentali del capitalismo moderno (che indichiamo
con termini come “neoliberismo” e “globalizzazione”) sta
nella grande polarizzazione della ricchezza che esso induce, con
aumento delle disuguaglianze sociali e impoverimento e scomparsa dei
ceti medi. I ceti medi intellettuali di cui stiamo parlando, pur non
essendo parte dei vertici dominanti, ne hanno assorbito l’ideologia
fondamentale, la cui base è l’idea che non c’è alternativa al
capitalismo neoliberista, e che mantenersi all’interno delle sue
regole porta ricchezza, benessere e prospettive di arricchimento
personale aperte a tutti. Queste regole prevedono principi come
competizione universale, crescita economica, sviluppo tecnologico,
diminuzione ampia quanto possibile del ruolo dello Stato
nell’economia. Il punto è che una simile impalcatura ideologica
non regge al confronto con la realtà: impoverimento e distruzione
dei ceti medi sono i dati di fatto con i quali questi ceti
intellettuali sono costretti a confrontarsi ormai da decenni. Il
punto cruciale sta nel fatto che il disagio e la protesta contro
queste evoluzioni negative della società non divengono rifiuto del
capitalismo e ricerca di una strategia politica ed economica che
possa portare al suo superamento. Come abbiamo detto, questi ceti
hanno completamente interiorizzato il fatto che “non c’è
alternativa” al capitalismo. Il politicamente corretto rappresenta
la via di fuga ideologica da questo dilemma. Esso infatti si
ricollega ad una tradizione ideologica importante e significativa per
la formazione dei ceti intellettuali, la tradizione ideologica della
sinistra. Riprendendo succintamente l’analisi svolta ne “La
sinistra rivelata”, possiamo caratterizzare la tradizione
ideologica e culturale della sinistra come una tradizione volta
all’emancipazione attraverso lo sviluppo tecnologico ed economico.
La sinistra è stata cioè il settore ideologico, culturale, politico
che negli ultimi due secoli ha lottato per l’emancipazione dei
gruppi subalterni della società (lavoratori salariati, donne,
minoranze etniche e sessuali) considerando lo sviluppo tecnologico ed
economico come condizione necessaria di tale emancipazione.
All’interno delle società capitalistiche questo ha significato
lottare per volgere lo sviluppo a favore dei ceti sopra ricordati. Si
tratta di una impostazione che ha avuto significato e ha portato ad
effettivi risultati per tutta una fase storica. Il punto decisivo è
che il capitalismo, entrato nella sua fase finale, non è più in
grado di aprire quegli spazi di emancipazione che si erano presentati
in passato, e che la sinistra aveva saputo sfruttare e allargare. Lo
sviluppo tecnologico ed economico è oggi diventato compiutamente
de-emancipatorio. Lo sviluppo è sviluppo del capitale, distruttivo
di natura e società. In queste condizioni, la giunzione di sviluppo
ed emancipazione, che era la definizione stessa di sinistra, non è
più possibile. Si dissolve quindi ciò che era la sinistra
emancipativa del passato, e al suo posto restano le orribili maschere
del teatro della politica contemporanea. In questo contesto il ceto
intellettuale subalterno non può trovare nella tradizione della
sinistra un progetto emancipativo, che in quella forma non è più
possibile; non vuole trovare una istanza anticapitalistica, dalla
quale anzi rifugge avendo introiettato l’ideologia dei ceti
dominanti per i quali non c’è alternativa al capitalismo. Ma
allora cosa cerca e trova, nella tradizione intellettuale della
sinistra, che lo possa sostenere ideologicamente di fronte alla crisi
sociale che sempre più lo coinvolge? Cerca e trova, operando
ovviamente una opportuna selezione, una rassicurazione della propria
superiorità intellettuale e morale. Il ceto intellettuale di
sinistra usa alcuni aspetti selezionati della tradizione culturale
della sinistra come compensazione immaginaria della sua impotenza
storica, della sua incapacità di contrastare i fenomeni di
degradazione sociale ed ecologica indotti dal capitalismo. Questa
compensazione immaginaria appare analoga a quella che la religione
forniva ai ceti dominati nel passato, e per essa si può quindi
riprendere la nota espressione di “oppio del popolo”[13]. Si può
a questo proposito suggerire un’altra analogia, più inquietante.
Infatti, per essere superiore, c’è bisogno ovviamente di qualcuno
che sia inferiore. Il ceto intellettuale di sinistra ha bisogno cioè
di costruirsi l’immagine di un Altro sul quale rigettare la
negatività, ha bisogno dell’immagine fantasmatica del proprio
avversario: l’incolto, il nazionalista, il sovranista, il ceto
medio arretrato che non legge libri, che si esprime in modi
aggressivi, che è insofferente alla globalizzazione,
all’immigrazione, all’Unione Europea, il maschilista, e insomma
il fascista o protofascista, secondo l’uso assai disinvolto del
termine “fascista” che è tipico della sinistra, e del quale
abbiamo già parlato. È abbastanza evidente che questo meccanismo
mentale è fondamentalmente analogo a quello del razzismo, dal quale
il ceto intellettuale subalterno si crede immune. Tale ceto disprezza
di un disprezzo di tipo razzista i ceti popolari che non si adeguano
al suo modello di essere umano.
Questa
ceto intellettuale è la base sociale dell’ideologia politicamente
corretta, nelle svariate forme che essa assume. Convinto della
propria superiorità intellettuale e morale, e animato da disprezzo
razzista verso i ceti popolari che rifiutano la sua impalcatura
ideologica, tale ceto è ampiamente favorevole a misure di
limitazione dei diritti individuali, se esse riguardano soprattutto
quei ceti popolari che esso disprezza. Tale ceto appare allora, come
dicevamo all’inizio, la base sociale per le dinamiche illiberali
che abbiamo individuato nella prima parte di questo scritto. A questo
punto possiamo allora dire che tali dinamiche sono agite da alcune
lobby che esprimono la visione del mondo del ceto intellettuale di
sinistra. Adesso dobbiamo spingere la nostra ricerca di spiegazioni
più in profondità.
VI.
Livelli di spiegazione: crisi di una civiltà
Dopo
aver esaminato i primi due livelli di spiegazione (l’azione delle
lobby e la natura della loro base sociale), resta da capire il
fondamento di tutto questo movimento, ovvero la dinamica strutturale
della nostra organizzazione sociale. Abbiamo già accennato qua e là,
nelle righe precedenti, al punto fondamentale, cioè al fatto che ci
troviamo di fronte ad una fase di degenerazione globale di tale
organizzazione, ma adesso dobbiamo esplicare le nostre tesi in
maniera più stringente. Sintetizziamo qui gli interventi sopra
citati (vedi nota [4]), ai quali rimandiamo per qualche maggiore
dettaglio.
La
tesi fondamentale è la seguente: l’attuale organizzazione
economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno
traumatica, nell’arco di qualche decennio [14]. Tale collasso
deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato
del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in
una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a
problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale
ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe
in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra
ragionevole pensare che sarà proprio la loro concomitanza a
innescare il collasso. Le crisi fondamentali che stanno confluendo
assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette:
crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica. Per quanto
riguarda il primo punto, la crisi economica scoppiata nei paesi
occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto
alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di
“stagnazione secolare” [15]. È certo vero che la fase più acuta
della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato
tassi di crescita economica sostenuti. Ma questo non è vero per la
totalità dei paesi avanzati, e, soprattutto, la ripresa, quando è
presente, appare indirizzata sugli stessi binari che hanno portato
alla crisi, cioè quelli dell’abnorme sviluppo di una economia
finanziaria slegata dalla crescita dell’economia materiale. Gli
studiosi che discutono la nozione di “stagnazione secolare” hanno
in mente appunto una dinamica di questo tipo: cioè quella di una
economia reale sostanzialmente stagnante, che viene “ravvivata”
solo dallo sviluppo di bolle finanziarie, che inevitabilmente
scoppiano producendo crisi economica, superata a sua volta solo dallo
sviluppo di una nuova bolla, e così via.
A
queste argomentazioni si potrebbe ribattere interpretando la tesi
della “stagnazione secolare” non come segnale di una crisi
generale dell’attuale organizzazione sociale ma piuttosto come
indice di un possibile avvicendamento ai vertici del potere mondiale,
quindi come una crisi legata ad un passaggio di egemonia (e veniamo
così al secondo punto): l’attuale fase di stagnazione potrebbe
cioè essere vista come una crisi di passaggio da una fase storica di
predominio dei paesi occidentali ad una nuova centralità dei paesi
asiatici e fra questi, ovviamente, in primo luogo la Cina.
Il
riferimento principale è qui al testo di Giovanni Arrighi, “Il
lungo XX secolo”[16], e allo schema dei “cicli sistemici di
accumulazione”, che in esso viene delineato. Ciascun ciclo è
dominato da una nazione egemone che acquista l’egemonia grazie ad
una particolare forma di accumulazione economica, superiore a quella
delle potenze rivali; con la crisi della forma che il capitalismo ha
assunto in tale ciclo, la nazione egemone declina e una nuova nazione
egemone sorge distruggendo
le strutture del vecchio regime per instaurare le proprie; la nazione
egemone guida l’espansione
produttiva,
caratterizzata dalla crescita di produzione e commercio. Il
sistema entra in crisi quando l’investimento produttivo non riesce
più a garantire un profitto accettabile, e di conseguenza il
capitale, alla ricerca di un alto saggio di profitto, si sposta nella
sfera della finanza. Questa “finanziarizzazione” rappresenta però
appunto l’apertura di una fase di crisi per quella particolare
forma di accumulazione capitalistica, e per la nazione egemone. La
fase di crisi viene superata con l’instaurarsi di un nuovo ciclo,
di una nuova forma di accumulazione, e di una nuova nazione egemone.
Arrighi ritrova questo schema in vari momenti della storia moderna, e
applicandolo al mondo contemporaneo si è portati a interpretarne
vari aspetti come segnali del fatto che l’egemonia USA sta
declinando e sta sorgendo il nuovo Stato egemone, la Cina.
Questa
interpretazione farebbe pensare all’approssimarsi di un periodo di
grave crisi della nostra organizzazione sociale, ma non ad una sua
fine prossima. È a questo punto che interviene la terza dimensione
della crisi attuale, quella ecologica. Il punto decisivo è che nelle
precedenti fasi cicliche il capitalismo ha sempre potuto contare, per
la ripresa da una crisi economica minore o per l’instaurarsi di una
nuova fase egemonica, su una ampia base di risorse naturali da
sfruttare, e ottenibili a prezzi relativamente bassi. La ricerca di
risorse (diverse nelle diverse fasi storiche, naturalmente) è la
molla che presiede a secoli e secoli di conquiste coloniali europee.
Il punto decisivo mi sembra questo: a meno di scoperte scientifiche o
innovazioni tecnologiche di vasta portata, delle quali al momento non
si scorge traccia, quello che sembra oggi mancare è proprio un
bacino di risorse a basso prezzo da sfruttare. Sembra, al contrario,
che si stiano esaurendo tutti i bacini di risorse sfruttati negli
ultimi due secoli. È questo che spinge a ipotizzare che la crisi
attuale non sia una semplice crisi ciclica ma rappresenti l’inizio
della fine per l’organizzazione sociale che ha dominato il mondo
negli ultimi due secoli.
Per
quanto riguarda il tema della crisi ecologica, mi limito ad accennare
qui al problema dei cambiamenti climatici e a quello del possibile
esaurirsi delle riserve di risorse a prezzo basso, in primo luogo il
petrolio [17]. In particolare il problema del cambiamento climatico
si sta imponendo come uno dei massimi elementi di grave crisi
dell’attuale organizzazione sociale.
È
necessario naturalmente osservare che le tre modalità di crisi che
ho fin qui rapidamente delineato non possono essere pensate come
evoluzioni fra loro indipendenti. È chiaro che c’è un meccanismo
causale dell’intera dinamica, e può essere indicato nella logica
intrinseca del capitalismo, che spinge le nostre società
all’accumulazione senza fine e senza limiti. È tale logica interna
che porta alle crisi economiche e allo scontro degli imperialismi,
secondo i meccanismi analizzati da Marx e dai marxisti, e porta
altresì alla predazione nei confronti della natura, considerata come
riserva infinita di risorse a costo basso o nullo. Una trattazione
teorica adeguata a questa realtà dovrebbe dunque riuscire a
ricostruire rigorosamente i legami fra la logica di fondo del modo
di produzione capitalistico e le dinamiche delle tre crisi sopra
delineate. Si tratta di un impegno teorico fondamentale, che
ovviamente è al di là degli scopi di un breve scritto come questo
[18].
Per
tornare al tema della crisi di civiltà, il punto fondamentale, come
si diceva sopra, è che la fine dell’attuale organizzazione sociale
non deriverà da uno particolare dei fattori di crisi che ho fin qui
elencato, ma dalla loro interazione. È probabile che i prossimi
decenni siano dominati, dal punto di vista geopolitico, dalla
contrapposizione fra USA e Cina, ciascuna delle due potenze,
presumibilmente, al centro di un sistema di alleanze. È chiaro che
uno scenario simile è il peggiore possibile, dal punto di vista di
una politica efficace di contrasto al cambiamento climatico, perché
una tale politica richiederebbe collaborazione, e non
contrapposizione, fra le grandi potenze. Pensiamo, per fare un
esempio, alla collaborazione internazionale che si è creata attorno
al problema del “buco dell’ozono”, con la messa al bando delle
produzioni industriali responsabili di tale fenomeno. È chiaro che
per rispondere alla massa di problemi che si stanno addensando sul
nostro futuro occorrerebbe un grado analogo di collaborazione. Ma il
problema del cambiamento climatico non riguarda un settore limitato
della vita economica, come nel caso del “buco dell’ozono”, ma
riguarda l’intero complesso dell’economia e in generale della
società. I cambiamenti necessari implicano ovviamente un prezzo da
pagare. E in una realtà di scontro fra potenze, ovviamente ciascuno
cercherà di far pagare il prezzo maggiore all’altro, e in generale
di indirizzare il necessario cambiamento nella direzione di un
accrescimento della propria potenza. In sostanza, come ha fatto
notare A.Ghosh [19], la discussione sui modi per mitigare il
cambiamento climatico e passare ad una economia “post-carbon” è
anche una discussione sulla distribuzione del potere globale. A
maggior ragione se al tema del cambiamento climatico aggiungiamo
tutti gli altri che potranno arrivare al pettine nei prossimi decenni
(esaurimento di una o più risorse fondamentali, grandi migrazioni).
Uno scenario futuro che possiamo immaginare è allora quello in cui
blocchi di paesi contrapposti, sotto la guida di un paese egemone,
sono in lotta per l’egemonia mondiale (magari con episodi bellici
localizzati), in un contesto generale di stagnazione economica,
mentre il cambiamento climatico causa emigrazioni di decine o
centinaia di milioni di persone, e l’esaurimento delle risorse
rende estremamente difficoltoso sostenere l’attuale sistema di
produzione e consumo, d’altra parte necessario per non far crollare
l’economia. E si potrebbero aggiungere altri elementi che ho
trascurato per brevità (crisi idriche, diffusione di malattie).
Probabilmente nessuno di questi problemi, singolarmente preso,
sarebbe tale da causare il crollo della nostra attuale civiltà. Mi
sembra però ragionevole ritenere che il loro accumularsi possa alla
fine provocare una decisiva rottura.
VII.
Una proposta di spiegazione complessiva
Cerchiamo
adesso di sintetizzare quanto fin qui detto in un discorso unitario.
Le attuali società occidentali sono organizzate, da circa tre o
quattro decenni, sulla base di una forma di capitalismo globalizzato
e iperliberista, che provoca la perdita delle conquiste ottenute dai
ceti subalterni nel periodo del capitalismo
“socialdemocratico-keynesiano”. Questo significa impoverimento e
marginalizzazione dei ceti inferiori, scomparsa del ceto medio (una
parte minoritaria del quale riesce però a salire ai piani superiori
della gerarchia sociale), distruzione del legame sociale [20]. I ceti
dominanti hanno provato a far accettare questa situazione con
l’illusione che dopo i necessari sacrifici, il futuro sarebbe stato
migliore per tutti, grazie alla dinamica progressiva dell’economia.
Ma questo futuro migliore per tutti non è mai arrivato, e anzi oggi
siamo posti di fronte alla cupa prospettiva di un crollo drammatico
dell’attuale civiltà. In questa situazione, il disagio sociale
comincia a tradursi in proteste crescenti da parte dei ceti
inferiori, che per il momento vengono convogliate nel voto a varie
formazioni che appartengono alla destra politica. I ceti medi, o quel
che ne rimane, appaiono invece divisi. In particolare, quella
frazione di ceti medi che abbiamo chiamato “ceto intellettuale
subalterno”, invece di combattere la degenerazione attuale delle
società capitalistiche, cerca una compensazione illusoria alle
difficoltà della vita nel capitalismo morente elaborando l’immagine
della propria superiorità intellettuale e morale rispetto ai ceti
inferiori, disprezzati in quanto “fascisti”. I ceti dominanti
condividono con tali ceti intellettuali subalterni alcuni aspetti
fondamentali della visione del mondo: progressismo, individualismo
assoluto, fede nella tecnologia, assolutizzazione del mercato,
politicamente corretto, il tutto con una verniciatura di tipo
“umanistico” che ammette la presenza di difficoltà e problemi ma
senza porre in questione i fondamenti del sistema. La situazione
dunque è la seguente: i ceti dominanti devono gestire una ribellione
strisciante da parte dei ceti inferiori, e possono farlo
essenzialmente con le categorie elaborate dal ceto intellettuale
subalterno di sinistra, dal quale essi in larga parte provengono e
col quale in ogni caso condividono la visione del mondo. Queste
categorie individuano negli strati inferiori in rivolta contro la
globalizzazione e il politicamente corretto una manifestazione di
inferiorità morale e intellettuale. Questi esseri inferiori vengono
caratterizzati come pericolosi e esterni al cerchio della civiltà
contemporanea. In quanto tali, non possono avere gli stessi diritti
riconosciuti a chi è interno a tale civiltà. Appare quindi lecita
l’operazione di progressiva riduzione della libertà di parola, che
colpisce appunto l’espressione di pensieri esterni alla sfera di
ciò che può essere ammesso (cioè, il politicamente corretto).
Anche la diminuzione di diritti nella sfera processuale, implicita
come s’è detto nelle attuali rivendicazioni femministe, appare
funzionale al controllo sociale, non tanto nella forma attuale
(ancora limitata), ma per le sue prospettive future. Come si vede,
si tratta qui di meccanismi che rimettono in auge quel nesso di
razzismo e dominio che è tipico dei rapporti dell’Occidente con il
mondo colonizzato: il nativo non viene riconosciuto come essere umano
allo stesso livello del colonizzatore, e questo permette di non
applicare al nativo stesso i diritti umani che pure sono una delle
fondamentali conquiste della civiltà occidentale. Lo stesso schema
sta cominciando ad essere applicato ai “nativi dell’Occidente”,
ai ceti popolari dei paesi occidentali. Questa è la spiegazione che
mi sembra possibile proporre per la tendenze di cui ho parlato nella
prima parte di questo scritto. Si tratta in sostanza della reazione
di uomini e donne di potere di fronte alle difficoltà che incontra
la gestione e la riproduzione degli attuali rapporti sociali,
difficoltà che diventeranno sempre maggiori, sempre più
ingestibili, e che prefigurano il declino della nostra civiltà.
Mi
sembra che questa spiegazione abbia anche il pregio di rendere
comprensibile il fatto, notato all’inizio, che queste tendenze
sembrano non trovare opposizione. Abbiamo fatto notare il contrasto
con la lotta contro le dittature nazifasciste, che ha mobilitato
enormi energie nella prima metà del secolo scorso. Proprio questo
contrasto può aiutarci a capire. Infatti, il processo storico
culminato nel secondo conflitto mondiale nasce da una crisi generale
del capitalismo (è solo per via di tale crisi, ricordiamolo, che il
nazismo arriva al potere), e rappresenta uno scontro fra due modi
contrastanti e alternativi di rispondere a tale crisi: da una parte
il capitalismo a dominanza USA che si stava organizzando in quella
che verrà chiamata la “regolazione fordista” [21] e che porterà
ai “trent’anni dorati” del secondo dopoguerra; dall’altra il
capitalismo tedesco che col nazismo aveva scelto uno schema di
dominazione imperialista, colonialista e razzista applicata
all’Europa e al mondo slavo. È evidente la differenza con la
situazione attuale: siamo di fronte ad una crisi del capitalismo
probabilmente, in prospettiva, più grave di allora, ma non abbiamo
due progetti contrastanti di risposta a tale crisi, il cui conflitto
porti ad uno scontro. La situazione è che non abbiamo neppure un
solo progetto di uscita dalla crisi. I ceti dirigenti a livello
globale si stanno dimostrando del tutto incapaci di agire per
contrastare le drammatiche linee di tendenza che abbiamo sopra messo
in luce. Il lento tramonto della democrazia, da molti denunciato in
questi anni, e l’erosione dei diritti che abbiamo cercato di
mettere in luce, sono le uniche risposte che i ceti dirigenti
sembrano capaci di dare. Non ci sono contrasti su questo perché
destra e sinistra condividono la stessa incapacità ad affrontare le
crisi che ci sovrastano, ed entrambe tentano di ricorrere alla
delegittimazione del dissenso per mettere a tacere le voci critiche.
È vero, come ho detto, che il politicamente corretto è una
creazione culturale che parte dalla sinistra, ed è vero che la
destra tenta di contrastarne, sul piano del dibattito pubblico,
alcuni degli esiti più inquietanti. Ma anche la destra, quando è il
caso, cede volentieri alla tentazione della repressione del dissenso,
per esempio chiedendo di rendere illegale l’antisionismo
equiparandolo all’antisemitismo. Destra e sinistra non presentano
quindi differenze significative rispetto a tali problemi, perché
entrambe sono accomunate dalla mancanza di una prospettiva realistica
di fuoriuscita dalle crisi di cui abbiamo parlato.
VIII.
Conclusioni
Le
dinamiche sociali, culturali e politiche che abbiamo fin qui
descritte ci sembrano molto preoccupanti. Esse infatti prefigurano un
futuro di gravi conflitti fra una maggioranza della popolazione che
subirà in maniera sempre più pesante la disgregazione e
l’insostenibilità dell’attuale organizzazione economica e
sociale, e i ceti di élite che, incapaci di prefigurare
un’alternativa, appaiono disposti a ricorrere alla sospensione dei
diritti fondamentali nei confronti dei ceti subalterni, quando questi
manifestano la loro insofferenza verso le attuali dinamiche. Uno
degli sbocchi possibili di tali dinamiche potrebbe essere una
“dittatura politicamente corretta”, a livello probabilmente
continentale, che mantenga per quanto possibile le caratteristiche
del capitalismo attuale operando una intrusione via via crescente
nelle vite private, resa necessaria dall’emergere di problemi
sempre più ingestibili a livello ecologico ed economico. Potrebbe
essere, una simile “dittatura politicamente corretta”, qualcosa
di simile al “Leviatano climatico” di cui si discute in un testo
recente [22]. Per esprimerci in una formula, gli attuali ceti
dominanti sono disposti a privarci della libertà pur di conservare
l’attuale capitalismo. Ma non ci riusciranno: questo “Leviatano
politicamente corretto” sarà comunque una realtà instabile,
perché l’acuirsi della crisi renderà impossibile mantenere
un’organizzazione sociale ed economica di tipo capitalistico. Nel
corso della crisi generale del nostro mondo l’umanità, o quel che
ne resterà, si inventerà qualche nuova forma di organizzazione
sociale ed economica. Non possiamo saperne nulla, ovviamente. Si
tratterà sicuramente di un mondo in cui gli esseri umani dovranno
accettare serie restrizioni sul piano dei beni materiali, e vivranno
quindi una vita molto più frugale di quella cui ci siamo abituati.
Non possiamo escludere però che questo mondo sappia conservare
alcune delle grandi conquiste dell’attuale civiltà, e riteniamo
nostro dovere tentare di trasmetterle al futuro. Fra queste, la
libertà di pensiero e di parola, l’uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge, la presunzione di innocenza, ci sembrano
fondamentali. Occorre quindi lottare con fermezza contro le tendenze
alla negazione di tali principi che abbiamo individuato in questo
scritto. Tutte le leggi che prefigurano reati di opinione,
tutte le “Commissioni dell’Amore”, tutte le
pretese femministe di colpevolezza automatica di un uomo accusato da
una donna, devono essere combattute come gravi violazioni dei
principi fondamentali della nostra civiltà, quei principi che oggi
vengono lentamente erosi e che dobbiamo invece preservare integri per
consegnarli al futuro.
Note
[1]
Istituzione approvata dal Senato il 30 ottobre 2019:
[3]
Riprendo l’espressione da A.Jappe, La société
autophage, Éditions La Découverte, 2017.
[9]
https://www.theguardian.com/books/2018/may/30/germaine-greer-calls-for-punishment-for-to-be-reduced
Fra
le altre tesi dell’autrice, segnalo in particolare quella secondo
la quale lo stupro non è necessariamente violenza ma “sex where
there is no communication, no tenderness, no mention of love”, e la
proposta di imprimere una lettera “r” sulle mani, sulle braccia o
sulla guancia dell’accusato (automaticamente colpevole, nella sua
impostazione). Non viene specificato il colore della lettera in
questione, ma ovviamente ci sentiamo di suggerire lo scarlatto.
Discussioni
sulle tesi di Greer si possono trovare al seguente URL:
[11]
Con le considerazioni che seguono non intendo entrare nella questione
dell’innocenza o colpevolezza di Pietro Costa. Mi limito a
commentare alcuni passi dell’intervista all’avvocato Gasperini.
[12]
M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007.
[13]
Qualche interessante intuizione in questo senso in G.Fofi, L’oppio
del popolo, Elèuthera 2019.
[14]
Tesi
di questo tipo sono argomentate in diversi testi, fra i quali:
P.Servigne,
R.Stevens, Comment
tout
peut s’effronder
(Seuil 2015); P.Servigne,
R.Stevens, G.Chapelle, Une
autre fin du monde est possible (Seuil
2018); J.M.Gancille,
Ne
plus se mentir (Rue
de l’échiquier 2019); Y.Cochet,
Devant
l’effondrement (Les
liens qui libèrent 2019); J.M.Greer,
La
lunga discesa,
(LU::CE edizioni 2019).
[15]
S.Das, The
Age of Stagnation
(Prometheus Books 2016); F.Menghini
(cura di), La
stagnazione secolare. Ipotesi a confronto
(goWare 2018).
[16]
G.Arrighi, Il lungo XX secolo (Il Saggiatore 2014).
[17]
Su questi temi la letteratura è ovviamente vastissima, mi limito qui
a citare un testo divulgativo: J.Simonetta, L.Pardi, Picco per
capre (LU::CE Edizioni 2018).
[18]
Vi
sono per fortuna studiosi di grande valore che si occupano di questi
temi, uno di essi è J.Bellamy Foster. Si
vedano per esempio F.Magdoff,
J. Bellamy Foster, What
every environmentalist needs to know about capitalism (Monthly
Review Press 2011);
J.Bellamy
Foster, B.Clark, R.York, The
ecological rift (Monthly
Review Press 2010).
[19]
A.Ghosh, La grande cecità (Neri Pozza 2017).
[20]
Su
questi temi ho
trovato recentemente
molto
efficaci i testi di C.Guilluy:
La
France périférique (Flammarion
2014); No
society (Flammarion
2018) [traduzione
italiana: La
società non esiste,
LUISS University Press, 2019]. La letteratura sul neoliberismo è
ovviamente sterminata.
[21]
L’espressione indica il capitalismo “socialdemocratico” del
primi trent’anni del dopoguerra, e risale alla “scuola della
regolazione” francese, per la quale si possono vedere R.Boyer,
Fordismo
e postfordismo (Università
Bocconi Editore 2007);
M.Aglietta, G.Lunghini Sul
capitalismo contemporaneo (Bollati
Boringhieri 2001).
[22]
G.Mann,
J.Wainwright, Il
nuovo Leviatano
(Treccani 2019). “Leviatano climatico” traduce il titolo
originale del libro: “Climate Leviathan”. Gli
autori pensano ad
una
sorta di
governo mondiale creato dalla necessità di gestire
l’emergenza climatica. L’eventualità mi sembra lontana, mentre
un Leviatano di dimensioni continentali ha
qualche chance maggiore, a mio avviso.
l’Unione
Europea, che fa del politicamente corretto la propria ideologia
ufficiale, è un buon candidato al ruolo.
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