(Riceviamo e volentieri pubblichiamo, M.B.)
Il
disastro della nuova scuola e il compito di restaurare l’istruzione
pubblica
Paolo Di Remigio, Fausto Di Biase
Le
riforme attuate nella scuola italiana ed europea negli ultimi
trent’anni contrastano in modo così risoluto con la natura della
didattica da poter essere comprese soltanto come effetti del
contemporaneo rivolgimento politico. Sconfitto l’«impero del
male», l’oligarchia economica occidentale, quella che ispira i
documenti degli organismi internazionali e parla attraverso i
giornali, ha potuto finalmente rompere l’alleanza più onerosa,
quella con le masse; ha dunque indebolito gli Stati e sottratto loro
il controllo delle banche centrali per indebitarli e abbattere la
spesa sociale, e ha introdotto la mobilità dei capitali, delle merci
e delle persone per colpire il lavoro. Il diffondersi della
disoccupazione ha falcidiato i salari, precarizzato i contratti dei
lavoratori e annientato le loro organizzazioni. Sindacalisti e
politici di sinistra hanno però conservato la loro professione –
cambiando schieramento: li ha captati l’oligarchia perché la loro
influenza sui lavoratori li rendeva utili a sopire le resistenze. Da
allora progressisti e rivoluzionari dissimulano con la lotta contro
l’eterno fascismo e per i diritti umani la loro complicità in un
attacco al lavoro pari soltanto a quello avvenuto durante il vero
fascismo[1].
La
sicurezza economica dei lavoratori per un lato dipende dall’azione
dello Stato per realizzare la piena occupazione, per l’altro è
condizione della famiglia. Le oligarchie non potevano realizzare il
loro piano generale di precarizzazione[2]
senza inserirvi la scuola,
che si colloca tra famiglia e Stato. Così l’hanno separata da
quest’ultimo per assoggettarla agli organismi internazionali,
l’hanno denigrata con la propaganda e demoralizzata con lo
stillicidio delle riforme perché gli abbienti si rivolgessero
all’istruzione privata; inoltre le è stato prescritto di invadere
le competenze della famiglia occidentale votata all’estinzione[3]
e di educare ai valori della nuova società multietnica; infine è
stata costretta a organizzare il tirocinio per il lavoro precario.
Qui come altrove l’esecuzione del piano è stata affidata
soprattutto a progressisti e rivoluzionari affinché la loro sempre
viva ossessione totalitaria di costruire l’uomo
nuovo
desse un aroma di sinistra
alla svolta verso il severo mondo senza famiglia e senza Stato[4].
È quindi attraverso la sinistra che l’oligarchia ha imposto
un’immagine dell’infanzia e della gioventù come se fossero già
adulte,
separate
quindi dal legame essenziale con i genitori: è così che la
riproduzione e l’educazione dei bambini diventano un settore di
investimento profittevole, si allentano inoltre le esigenze familiari
che ostacolano l’impiegabilità incondizionata dei lavoratori e
soprattutto delle lavoratrici, infine si costruisce l’ambiente
adatto a indottrinare sin dalla culla la nuova generazione ai nuovi
valori.
Pensato
senza legame familiare
il bambino cessa di essere figlio e diventa individuo titolare di
diritti personali, cioè un adulto con bisogni specifici ai quali è
bene provvedano, più che il dilettantismo di mamma e papà (sospetti
di povertà educativa), le ben più scientifiche comunità
educanti.
La nuova scuola è concepita come una di esse. Per questo motivo una
nuova pedagogia sensibile alle esigenze delle élite
ha privato i bambini dell’infanzia e i giovani della giovinezza; la
credulità, la sventatezza, la pigrizia, la presunzione che
accompagnano l’età verde e le rendono indispensabili i genitori (i
soli a sentire i loro figli come parte del proprio corpo) sono state
rimosse dalla coscienza e all’improvviso si è sostenuto che il
fanciullo è non meno ricco di conoscenza e saggezza dell’adulto
(Il
bambino della ragione
si intitolava un testo di pedagogia in giro negli anni ’80, agli
inizi della campagna di colonizzazione[5]),
che, anzi, nel campo strategico dell’informatica, dalla diffusione
dei video-giochi in poi, i figli vivono in un futuro avanzato per
sempre precluso ai genitori. Sensibili alle nuove impostazioni
pedagogiche, i riformatori della pubblica istruzione hanno rinominato
esame
di Stato
l’esame di maturità e dopo aver trasformato lo studio delle
discipline in un’elucubrazione sulla loro epistemologia, le hanno
di fatto abolite: se le discipline letterarie, storiche e
scientifiche male si adattano alla nuova concezione, conviene
eliminarle,
così cessano di ferire l’autostima dei frequentatori della nuova
scuola. Congedatasi dalla cultura e dalle scienze, la scuola aspirerà
a dare i natali a una nuova umanità in continua
formazione[6].
In questa aspirazione c’è qualcosa di più dell’ideologia del
precariato universale: la promozione del bambino ad adulto è anche
la retrocessione dell’adulto in bambino; si vuole cioè rendere
l’uomo plasmabile dalla culla alla tomba. Tramite le audaci
innovazioni della loro pedagogia le oligarchie occidentali cercano di
ricreare l’ancien
régime
dell’eterna minorità dell’uomo.
La
prerogativa dell’adulto è prevedere. Si può prevedere solo
dopo che l’esperienza e la scienza hanno scoperto le
leggi (aristotelicamente: le forme) entro cui si muove la casualità
del mondo. Mentre liquida il soggetto rendendo il bambino adulto e
l’adulto bambino, la nuova pedagogia completa il lavoro dalla parte
dell’oggetto, ricalcando sul suo il profilo della scienza: anziché
conoscenza universale e necessaria della natura, una congerie di
saperi in un flusso così rapido come le verità della
certezza sensibile hegeliana; se è così (e come dubitarne se i
documenti degli organismi internazionali lo ribadiscono senza
tentennamenti?), non ha senso impararla, ma semmai tuffarsi in
un punto a caso della sua piena confidando nell’inconsistenza di
ogni verità. La stessa sinistra, mentre professa l’adorazione
della scienza e disprezza il popolo ignorante se le nega il voto,
premuta dal desiderio di servire puntualmente i suoi padroni, si
inebria della continua innovazione dei saperi e si pone così al di
fuori della cultura, che ha sempre spessore storico, e delle scienze
autentiche, che si ampliano consolidando criticamente i propri
principi; iniziare sempre da capo è invece il difetto per cui Kant
negò alla metafisica la dignità di scienza.
Poiché
non ci sono né bambino né adulto, né esperienza né scienza, la
scuola non ha più il compito di far crescere istruendo,
ma è un servizio sociale per indottrinare l’individuo destinato
all’eterna minorità, una palestra per renderlo estraneo al suo
ambiente e abituarlo alla flessibilità.
Che la nuova scuola non
insegni nulla non
è dunque una conseguenza imprevista o sgradevole, è anzi la pars
destruens
dello sforzo di plasmare l’individuo senza la conoscenza delle
leggi naturali e umane, alienato, incapace di prevedere, dunque
limitato a un repertorio di riflessi condizionati. Non è soltanto un
effetto dell’interesse commerciale dei produttori di software
se nella nuova scuola l’informatica di consumo è diventata un
ingrediente obbligato a dispetto dei danni che provoca: premere
pulsanti per evadere su percorsi preordinati è tutta l’istruzione
concessa all’uomo nuovo. Il mondo classico vi avrebbe riconosciuto
il servo;
i portavoce delle oligarchie occidentali[7]
vi colgono l’allusione alla figura definitiva che la soggettività
deve assumere nel mondo della libera circolazione di capitali, merci
e lavoro – quella del migrante
economico.
Al servizio di questo nuovo mondo senza essenze, la nuova scuola
lascia cadere ogni cultura, ogni competenza scientifica, e si attiene
alla formula delle tre ‘i’: l’impresa, ossia l’interesse
degli azionisti come imperativo categorico dell’umanità,
l’informatica come complesso di riflessi controllati e condizionati
dai gestori delle reti, l’inglese come lingua del nomade.
Congedatasi
dal trivio e dal quadrivio la nuova scuola, per quanto alcuni
testardi cerchino di insegnare in clandestinità, si occupa di altro.
La concezione della scienza come esplosione di saperi superfluidi vi
si traduce in un incentivato proliferare di progetti atomistici la
cui casualità non è casuale, ma suscitatrice di capacità di
improvvisazione. In quanto servizio sociale, la nuova
scuola sostituisce poi la famiglia, dunque educa il suo frequentatore
con progetti su affettività, sessualità, odio dell’odio,
comportamento stradale e finanziario, sicurezza sul luogo di lavoro,
ecologia, insomma sui singoli articoli della propaganda oligarchica
secondo le diverse urgenze scandite dalle giornate mondiali. I
nuovi insegnanti operano come assistenti sociali, impegnati ad
assicurare che il ristagno culturale e umano degli alunni si
verifichi in una cornice di ovattata indulgenza. L’attività
programmata è didattica soltanto per accidens; non è dunque
un caso che le scuole elementari trascurino di insegnare come si
tenga in mano la penna, la scrittura in corsivo, a fortiori
gli elementi delle scienze; e che quelle successive neanche prendano
atto della vertiginosa mancanza di basi, e se mai fosse loro
consentito di costruire edificherebbero sulla sabbia.
Questi
elementi confluiscono nella nozione di inclusività
che trasforma ufficialmente la scuola in un centro di accoglienza in
cui le conseguenze della mancata istruzione sono trattate come casi
clinici. La scuola inclusiva non si limita a tenere segregati
l’insegnamento e l’apprendimento, si adopera con energia per
sabotarli. Nelle parole di un’esperta dirigente scolastica:
«Trent’anni fa il Preside si occupava principalmente di didattica.
Oggi il lavoro abbraccia ambiti diversi con conseguente aumento delle
responsabilità e degli obblighi amministrativi e burocratici»[8].
Poiché da una parte tratta l’alunno come se fosse già maturo e
sapesse quello che gli occorre, dall’altra considera inutili o
dannose le conoscenze, la scuola inclusiva bandisce la severità
dell’ascolto,
dell’esercitazione,
della verifica
e della valutazione;
rigetta i programmi di studio (troppo rigidi: potrebbero ricordare il
posto fisso), maledice la lezione frontale e si avventura tra i
metodi in uso nella ricerca scientifica o negli staff
dirigenziali, cioè quelli utilizzabili soltanto da adulti già
istruiti. La legge scritta le impedisce di non promuovere alla classe
successiva nelle sue prime fasi, una legge non scritta, ma conosciuta
dai dirigenti scolastici, lo impedisce nelle fasi successive. Poiché
non si è avuto ancora l’ardire di proibire ufficialmente le
insufficienze, per non correre il rischio di non promuovere, la
scuola inclusiva cessa di valutare: il mero essere
degli alunni, il loro accrescimento fisico e il contesto sociale, il
disagio esistenziale e i problemi familiari, i sentimenti umanitari e
le donazioni di sangue – tutto, meno l’essenziale, concorre a
determinare un quadro soddisfacente. Così negli attuali esami di
Stato le commissioni si limitano ad ascoltare i candidati senza
correggere gli errori nelle loro libere improvvisazioni. Dovendo
limitarsi a promuovere, la scuola inclusiva evita di imporre doveri;
da una parte i compiti a casa sono ormai considerati una violenza e
se ne auspica la proibizione, dall’altra si introduce il trimestre
per abbattere il numero delle verifiche in classe. Se non deve
assegnare compiti, l’insegnante non deve neanche spiegare; quelli
servono infatti a interiorizzare contenuti e procedimenti estranei;
poiché però l’alunno è già saggio e sapiente di suo per quanto
è possibile all’essere umano, non c’è bisogno di contenuti e
procedimenti ulteriori, non c’è bisogno di spiegarli, ma solo di
attuare le potenzialità in un contesto sereno.
Forse
non è superfluo osservare che da una parte l’inclusione è già
contenuta nel concetto stesso di scuola pubblica, perciò è
inutile rilevarla, che dall’altra non può essere il principio
incondizionato della didattica, e non perché essa possa
discriminare, ma perché deve sviluppare e valorizzare le attitudini,
deve quindi orientare; infatti la scuola guida il mondo
infantile dall’omogeneità iniziale, attraverso le competenze
necessarie a tutti, alla specializzazione in una delle diverse
tecniche e discipline; deve quindi indirizzare gli alunni ai
percorsi congeniali a ciascuno, il che implica l’esclusione degli
altri. Che l’inclusività abbia acquisito un ruolo così
centrale indica soprattutto che la macchina delle riforme è in una
nuova fase: attuate suscitando l’aspettativa del miglioramento
della scuola, prima che diventi impossibile glissare sulla loro
responsabilità del disastro attuale, le riforme vengono associate al
sentimento universalistico perché criticarle diventi un delitto
d’odio.
La
distruzione della scuola è stata promossa dalle oligarchie
occidentali. Restaurarla è un’operazione in cui possono impegnarsi
solo parti politiche che prendono sul serio il principio democratico,
responsabili verso il popolo. La restaurazione consiste nel
restituire agli insegnanti la dignità della mediazione scientifica,
sollevandoli dall’attuale abiezione per cui devono dimenticare la
conoscenza disciplinare e porsi come assistenti sociali; consiste
nell’eliminare gli innumerevoli ostacoli che impediscono di
insegnare, così che tornino a fare come dovere professionale ciò
che ora fanno di nascosto: lezione, assegnare i compiti, correggerli,
valutarli; consiste nel riconoscere che, a differenza dell’educazione
che avviene per lo più per imitazione inconsapevole, l’istruzione
implica uno sforzo personale di apprendimento e che
all’insegnante, non meno dell’amore per la sua disciplina con cui
appassiona gli alunni, sono indispensabili il rigore con cui assegna
i compiti e la precisione con cui li corregge e li valuta. Nessuno
può apprendere al posto di un altro, ognuno apprende nella misura in
cui si impegna e solo ad un elevato livello di istruzione è
possibile determinarsi da soli gli esercizi necessari a conseguire la
conoscenza.
Il
superamento della proibizione di insegnare e imparare non solo
farebbe rinascere l’istruzione, ma arricchirebbe la stessa
educazione. La scuola deve rispettare la sovranità della famiglia e
delle leggi dello Stato, dunque non deve mirare all’educazione –
non deve arrogarsi la competenza in valori che non siano quelli
propri della teoresi; ma è innegabile che mirando all’istruzione
essa completa l’educazione. Saper leggere significa aver imparato
l’attenzione silenziosa; sapere scrivere significa aver
interiorizzato le regole; saper dimostrare un teorema matematico
significa essersi innalzati alla sublimità del ragionamento senza
interesse. Sostituire l’istruzione con l’educazione non soltanto
è cedere alla barbarie del disprezzo della conoscenza, non soltanto
è usurpare le prerogative della famiglia e dello Stato, è anche
negare ai giovani le forme superiori di educazione.
[1]
«Deficit
reduction was achieved primarily through a sharp retrenchment in
government expenditure. Social programs were eliminated, and wages
were cut with the help of Fascist unions—real wages fell by about
20 percent between 1921 and 1929». Cfr.
https://threader.app/thread/1228258313227395072
[2]
Cfr. di Padoa Schioppa l’indimenticabile articolo sulla «durezza
del vivere» disponibile al seguente indirizzo:
http://www.tommasopadoaschioppa.eu/europa/berlino-e-parigi-ritorno-alla-realta.html
[3]
Cfr.
le prospettive di Attali nell’intervista al seguente indirizzo:
https://www.repubblica.it/cultura/2014/08/19/news/attali_e_la_coppia_ai_tempi_del_consumismo_addio_monogamia_benvenuto_poliamore_-94065343/
[4]
Si consideri la carriera di Valeria Fedeli che dalla militanza nella
CGIL, attraverso il MIUR, è ascesa al CdA della Fondazione Agnelli,
protagonista delle riforme della scuola. Cfr.:
https://it.wikipedia.org/wiki/Valeria_Fedeli
[5]
Edito nel 1986 dalla Nuova Italia. Sull’ultima pagina della sua
copertina si può leggere: «Ma a queste due condizioni del
cambiamento (cioè adeguare i contenuti ai nuovi programmi e
costruire una capacità professionale nei docenti) … si affianca
la necessità di sostituire un’immagine del bambino radicata nel
senso comune… con una interpretazione più impegnativa, perché
collegata ad una analisi attenta delle condizioni sociali e
culturali che caratterizzano lo sviluppo delle nuove generazioni nel
mondo contemporaneo.» Al di là dei contenuti concreti che qui non
possono essere discussi, si osservino l’ansia acritica di
cambiamento
e il piglio intimidatorio nei confronti del senso comune, cioè dei
genitori, e dei docenti, la cui esperienza e conoscenza sono ridotte
a una vana immagine rispetto all’«interpretazione più
impegnativa» – un sintagma alquanto indeterminato, con cui però
si insinua che i bambini non siano più gli stessi, cioè bambini, o
che se anche lo fossero non dovrebbero
essere più considerati tali.
[6]
Si tratta della società
dell’apprendimento permanente
a cui alludono le tre elle di una nota associazione promotrice delle
riforme della scuola. Cfr.
http://www.treellle.org/associazione-treellle
[7]
Cfr. le nitide dichiarazioni di Laura Boldrini al seguente
indirizzo:
https://www.ilgiornale.it/video/politica/boldrini-stile-vita-dei-migranti-sia-nostro-1164805.html
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