Siamo vicini al collasso?
Marino Badiale
Sono ormai in molti a
sostenere che l’attuale organizzazione economica e sociale è
destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di
qualche decennio. In Francia si parla, forse con un po’ di ironia,
di “collapsologie” come di una nuova disciplina scientifica che
studia appunto il collasso prossimo dell’attuale organizzazione
sociale [1,2,3]. Intendo qui provare a riassumere i termini
fondamentali della questione. Cercherò di sostenere che in effetti
vi sono argomenti ragionevoli a favore della tesi del collasso
prossimo. Questo ovviamente non implica che si possano fissare dei
limiti temporali precisi, né che si possano fare ipotesi ragionevoli
su quale potrà essere la nuova forma di organizzazione sociale che
sostituirà l’attuale.
La tesi fondamentale che
intendo esporre è che il collasso prossimo venturo deriverà dal
concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire
di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase
storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi
sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento
sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale
da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare
che sarà proprio la loro contemporaneità a innescare il collasso.
Le crisi fondamentali che
stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre
grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica.
La crisi economica scoppiata
nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno
spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di
“stagnazione secolare” [4,5]. È certo vero che la fase più
acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno
ritrovato tassi di crescita economica sostenuti. Ma questo non è
vero per la totalità dei paesi avanzati, e, soprattutto, la ripresa,
quando è presente, appare indirizzata sugli stessi binari che hanno
portato alla crisi, cioè quelli dell’abnorme sviluppo di una
economia finanziaria slegata dalla crescita dell’economia
materiale. Gli studiosi che discutono la nozione di “stagnazione
secolare” hanno in mente appunto una dinamica di questo tipo: cioè
quella di una economia reale sostanzialmente stagnante, che viene
“ravvivata” solo dallo sviluppo di bolle finanziarie, che
inevitabilmente scoppiano producendo crisi economica, superata a sua
volta solo dallo sviluppo di una nuova bolla, e così via.
Si può certo osservare che
questa prospettiva di stagnazione sembra riguardare essenzialmente i
paesi sviluppati, mentre in molti dei paesi attualmente in via di
sviluppo si osserva ancora una robusta crescita economica. Si
potrebbe quindi interpretare la tesi della “stagnazione secolare”
non come indice di una crisi generale dell’attuale organizzazione
sociale ma piuttosto come indice di un possibile avvicendamento ai
vertici del potere mondiale; l’attuale fase di stagnazione potrebbe
cioè essere vista come una crisi di passaggio da una fase storica di
predominio dei paesi occidentali ad una nuova centralità dei paesi
attualmente in via di sviluppo, in particolare dei paesi asiatici e
fra questi, ovviamente, in primo luogo la Cina.
Il riferimento principale è
qui al testo di Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”[6]. In
esso l’autore delinea la storia della modernità capitalistica come
una storia di “cicli sistemici di accumulazione”, il cui schema è
il seguente. Ciascun ciclo è dominato da una nazione egemone che
acquista l’egemonia grazie ad una particolare forma di
accumulazione economica, superiore a quella delle potenze rivali; con
la crisi della forma che il capitalismo ha assunto in tale ciclo, la
nazione egemone declina e una nuova nazione egemone
sorge distruggendo le strutture del vecchio regime per
instaurare le proprie; la nazione egemone guida
l’espansione produttiva,
caratterizzata dalla crescita di produzione e commercio. Il
sistema entra in crisi quando l’investimento produttivo non riesce
più a garantire un profitto accettabile, e di conseguenza il
capitale, alla ricerca di un alto saggio di profitto, si sposta nella
sfera della finanza. Questa “finanziarizzazione” rappresenta però
appunto l’apertura di una fase di crisi per quella particolare
forma di accumulazione capitalistica, e per la nazione egemone. La
fase di crisi viene superata con l’instaurarsi di un nuovo ciclo,
di una nuova forma di accumulazione, e di una nuova nazione egemone.
Possiamo ritrovare questo
schema nelle vicende dell’Olanda, che dopo le lotte di indipendenza
dalla Spagna diventa uno dei principali centri del commercio
mondiale, per essere poi sostituita, nella seconda metà del
Settecento, dall’Inghilterra, che diviene la potenza egemone per
tutto l’Ottocento. Il declino dell’egemonia britannica coincide
con la crescita economica dei due principali candidati all’egemonia,
cioè Germania e Stati Uniti. Lo scontro per l’egemonia porterà al
ciclo della “Seconda Guerra dei Trent’anni” (1914-1945) e si
concluderà con la vittoria statunitense e l’affermazione
dell’egemonia USA su tutto il mondo non comunista. Infine, in
questi ultimi anni vi sono forti segnali del fatto che l’egemonia
USA stia declinando e stia sorgendo il nuovo Stato egemone, la Cina.
Questa fra l’altro era anche la convinzione di Arrighi, che si è
dedicato allo studio dell’economia cinese in uno dei suoi ultimi
lavori [7].
Il quadro fin qui delineato
porta argomenti a favore dell’approssimarsi di un periodo di grave
crisi della nostra organizzazione sociale, ma non di una sua fine
prossima. Le dinamiche di crisi che abbiamo schematizzato descrivono
infatti movimenti ciclici del capitalismo, che si sono avuti in
passato e dai quali il capitalismo è uscito più forte di prima. Si
potrebbe quindi pensare che, magari attraverso tensioni, drammi,
guerre, l’attuale crisi economica ed egemonica si risolva con
l’apertura di una nuova fase di forte crescita economica dominata
dalla Cina, magari legata a qualche innovazione tecnologica al
momento imprevedibile. È a questo punto che interviene la terza
dimensione della crisi attuale, quella ecologica. Il punto decisivo è
che nelle precedenti fasi cicliche il capitalismo ha sempre potuto
contare, per la ripresa da una crisi economica minore o per
l’instaurarsi di una nuova fase egemonica, su una ampia base di
risorse naturali da sfruttare, e ottenibili a prezzi relativamente
bassi. La ricerca di risorse (diverse nelle diverse fasi storiche,
naturalmente) è la molla che presiede a secoli e secoli di conquiste
coloniali europee.
Il punto decisivo mi sembra
questo: a meno di scoperte scientifiche o innovazioni tecnologiche di
vasta portata, delle quali al momento non si scorge traccia, quello
che sembra oggi mancare è proprio un bacino di risorse a basso
prezzo da sfruttare. Sembra, al contrario, che si stiano esaurendo
tutti i bacini di risorse sfruttati negli ultimi due secoli. È
questo che spinge a ipotizzare che la crisi attuale non sia una
semplice crisi ciclica ma rappresenti l’inizio della fine per
l’organizzazione sociale che ha dominato il mondo negli ultimi due
secoli.
Il tema della crisi ecologica
è ovviamente vastissimo, e mi limiterò ad accennare a due soli
punti, peraltro molto importanti: il cambiamento climatico e il
problema del possibile esaurimento del petrolio.
Il cambiamento climatico è un
tema che finalmente sta ricevendo dai media l’attenzione che
merita, e quindi non mi soffermerò a farne la storia, che do per
nota. Osserviamo per prima cosa che si tratta di un problema che può
essere classificato nella rubrica “esaurimento delle risorse”. Le
risorse che la natura ci fornisce, infatti, non sono solo le materie
prime che prendiamo e utilizziamo, ma anche i “servizi naturali”
che ci permettono di disfarci degli scarti di produzioni e consumi.
L’atmosfera è stata, negli ultimi questi due secoli, fra le altre
cose, una risorsa di questo tipo: una grande discarica dove abbiamo
buttato uno degli scarti delle nostre produzioni, appunto la CO2 (e
le altre sostanze climalteranti), facendo affidamento sui meccanismi
naturali di riassorbimento. Ora questa risorsa si è esaurita,
abbiamo cioè esaurito la capacità della natura di assorbire le
nostre emissioni senza conseguenze pericolose, e dobbiamo
fronteggiare questo problema sempre più grave. Il punto decisivo, a
mio parere, è che un intervento effettivo sulle cause del
cambiamento climatico significa un intervento massiccio sull’intera
organizzazione economica e sociale del nostro mondo: in sostanza si
tratterebbe di una vera e propria rivoluzione nella produzione, negli
approvvigionamenti, nel consumo, negli stili di vita, nei valori
fondamentali. E non si vede davvero come sia possibile realizzare
tutto questo nel breve tempo che, secondo gli studiosi, ci è dato
prima che il cambiamento climatico diventi irreversibile. È cioè
giocoforza pensare che un serio cambiamento climatico, con tutte le
sue conseguenze devastanti, e largamente imprevedibili, sia ormai
inevitabile.
L’altro grande problema a
cui vorrei accennare è quello del possibile esaurimento del
petrolio. È noto che al momento non si può parlare di esaurimento
di questa risorsa: l’innovazione tecnologica (“fracking”) ha
permesso infatti di sfruttare nuove fonti di idrocarburi (petrolio da
scisto, “shale oil”). Il problema è che queste nuove fonti di
idrocarburi sono mediamente più costose del petrolio “tradizionale”,
e questo fatto è a sua volta il riflesso di un problema di fondo:
occorre una quantità sempre maggiore di energia per estrarre una
quantità fissa di energia (il ben noto “barile di petrolio”).
Questa dinamica viene espressa dalla nozione di EROEI: “Energy
Return On Energy Invested”, che è definito come il rapporto fra
l’energia fornita (da una certa risorsa) e l’energia usata per
ottenerla. In termini di petrolio, indica “quanto petrolio è
necessario consumare per ricavare un barile di petrolio” (per una
introduzione divulgativa si veda [8, pagg.82-86]). Il calcolo
concreto di questo indice non è facile ed è quindi soggetto a
oscillazioni, ma gli studi sul tema sembrano indicare, al di là di
tali oscillazioni, una tendenza alla diminuzione del rapporto, cioè
una tendenza all’aumento dell’energia necessaria per ottenere un
barile di petrolio. Questo fatto è in armonia col principio generale
dei rendimenti decrescenti delle risorse. Tale principio deriva dalla
ovvia considerazione che le prime risorse ad essere sfruttate sono
quelle più facili da ottenere, perché più economiche e quindi più
redditizie. Quando i giacimenti più economici si esauriscono si
passa a quelli più “difficili”, e in questo modo tanto più una
risorsa viene sfruttata tanto più costoso, in termini energetici,
diventa il suo ulteriore sfruttamento. È chiaro che è questo il
punto fondamentale, piuttosto che l’esaurimento del petrolio in
senso stretto: se la tendenza finora rilevata proseguirà, si potrà
arrivare alla situazione nella quale per estrarre un barile di
petrolio sarà necessario consumare un barile di petrolio, e a quel
punto ovviamente il petrolio cesserà di essere una fonte di energia,
anche senza essere arrivati al suo esaurimento.
È necessario naturalmente
osservare che le tre modalità di crisi che ho fin qui rapidamente
delineato non possono essere pensate come evoluzioni fra loro
indipendenti. È chiaro che c’è un meccanismo causale dell’intera
dinamica, e può essere indicato nella logica intrinseca del
capitalismo, che spinge le nostre società all’accumulazione senza
fine e senza limiti. È tale logica interna che porta alle crisi
economiche e allo scontro degli imperialismi, secondo i meccanismi
analizzati da Marx e dai marxisti, e porta altresì alla predazione
nei confronti della natura, considerata come riserva infinita di
risorse a costo basso o nullo. Una trattazione teorica adeguata a
questa realtà dovrebbe dunque riuscire a ricostruire rigorosamente
i legami fra la logica di fondo del modo di produzione capitalistico
e le dinamiche delle tre crisi sopra delineate. Si tratta di un
impegno teorico fondamentale, che ovviamente è al di là degli scopi
di un breve scritto come questo.
Vediamo adesso di riassumere e
concludere.
Il punto fondamentale del mio
intervento è che la fine dell’attuale organizzazione sociale non
deriverà da uno particolare dei fattori di crisi che ho fin qui
elencato, ma dalla loro interazione. Come abbiamo detto, è probabile
che i prossimi decenni siano dominati, dal punto di vista
geopolitico, dalla contrapposizione fra USA e Cina, ciascuna delle
due potenze, presumibilmente, al centro di un sistema di alleanze. È
chiaro che uno scenario simile è il peggiore possibile, dal punto di
vista di una politica efficace di contrasto al cambiamento climatico,
perché una tale politica richiederebbe collaborazione, e non
contrapposizione, fra le grandi potenze. Pensiamo, per fare un
esempio, alla collaborazione internazionale che si è creata attorno
al problema del “buco dell’ozono”, con la messa al bando delle
produzioni industriali responsabili di tale fenomeno. È chiaro che
per rispondere alla massa di problemi che si stanno addensando sul
nostro futuro occorrerebbe un grado analogo di collaborazione. Ma il
problema del cambiamento climatico non riguarda un settore limitato
della vita economica, come nel caso del “buco dell’ozono”, ma,
come si è detto, riguarda l’intero complesso dell’economia e in
generale della società. I cambiamenti necessari implicano ovviamente
un prezzo da pagare. E in una realtà di scontro fra potenze,
ovviamente ciascuno cercherà di far pagare il prezzo maggiore
all’altro, e in generale di indirizzare il necessario cambiamento
nella direzione di un accrescimento della propria potenza. In
sostanza, come ha fatto notare A.Ghosh [9], la discussione sui modi
per mitigare il cambiamento climatico e passare ad una economia
“post-carbon” è anche una discussione sulla distribuzione del
potere globale. A maggior ragione se al tema del cambiamento
climatico aggiungiamo tutti gli altri che potranno arrivare al
pettine nei prossimi decenni (esaurimento di una o più risorse
fondamentali, grandi migrazioni). Uno scenario futuro che possiamo
immaginare è allora quello in cui blocchi di paesi contrapposti,
sotto la guida di un paese egemone, si oppongono nella lotta per
l’egemonia mondiale (magari con episodi bellici localizzati), in un
contesto generale di stagnazione economica, mentre il cambiamento
climatico causa emigrazioni di decine o centinaia di milioni di
persone, e l’esaurimento delle risorse rende estremamente
difficoltoso sostenere l’attuale sistema di produzione e consumo,
d’altra parte necessario per non far crollare l’economia. E si
potrebbero aggiungere altri elementi che ho trascurato per brevità
(crisi idriche, diffusione di malattie). Probabilmente nessuno di
questi problemi, singolarmente preso, sarebbe tale da causare il
crollo della nostra attuale civiltà. Mi sembra però ragionevole
ritenere che il loro accumularsi possa alla fine provocare una
decisiva rottura.
Occorre allora cominciare
seriamente a pensare come possa essere la vita oltre la fine del
capitalismo. Bisogna partire dalla presa di coscienza che tale fine
non sarà lo sbocco rivoluzionario delle lotte della classe sfruttata
che liberando se stessa libererà l’umanità, non sarà il
passaggio ad un livello superiore di civiltà, come aveva sperato il
marxismo. Avverrà come collasso di una civiltà. Occorre quindi
cominciare a riflettere seriamente su come costruire reti di
sopravvivenza che possano permettere il mantenimento di livelli
minimi di civiltà attraverso il collasso, e la loro trasmissione
alle generazioni che affronteranno il mondo dopo il collasso della
odierna organizzazione sociale.
Bibliografia
[1] P.Servigne,
R.Stevens, Comment
tout
peut s’effronder
(Seuil 2015)
[2]
P.Servigne,
R.Stevens, G.Chapelle, Une
autre fin du monde est possible (Seuil
2018)
[3]
J.M.Gancille,
Ne
plus se mentir (Rue
de l’échiquier 2019)
[4]
S.Das, The
Age of Stagnation
(Prometheus Books 2016)
[5] F.Menghini (cura
di), La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto (goWare
2018)
[6] G.Arrighi, Il
lungo XX secolo (Il Saggiatore 2014)
[7] G.Arrighi, Adam
Smith a Pechino (Feltrinelli 2008)
[8] J.Simonetta,
L.Pardi, Picco per capre (LU::CE Edizioni 2018)
[9] A.Ghosh, La
grande cecità (Neri Pozza 2017)
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