Mi hanno colpito molte delle reazioni alla vicenda della giovane che ha ucciso il padre violento e alcolizzato: si va dai commenti, letti in rete, di pura e semplice soddisfazione, all'evidente meccanismo, messo in atto dai media, di creazione di un'eroina nella figura della ragazza parricida.
Ho pensato allora di riproporre un articolo di Fortini del 1978 (tratto dal libro "Insistenze", Garzanti 1985), che parla di un caso simile. Della vicenda specifica discussa da Fortini so solo quello che si deduce dall'articolo: un ragazzo uccide il padre violento, al processo il p.m. chiede una pena pesante, c'è una raccolta di firme a favore dell'assoluzione.
Ho riprodotto il testo originale, nonostante alcuni passaggi che oggi certo suonano invecchiati (il rivolgersi ai "compagni", le allusioni alle multinazionali) perché mi pareva che solo nella sua integrità l'articolo rendesse giustizia al pensiero, spesso ellittico, di Fortini.
So benissimo, riproponendo questo testo, che quanto vi è scritto è, nella situazione spirituale contemporanea, più incomprensibile di una tavoletta d'argilla scritta in caratteri cuneiformi. Ma non credo più di poter influire o convincere. Mi limito a ricopiare antichi manoscritti, sperando nei lettori futuri.
M.B.
Franco Fortini
Un parricida
(Novembre 1978)
Non ho firmato il documento
che chiedeva l’assoluzione per il ragazzo romano che ha ucciso il padre
violento e feroce; perché sono in disaccordo con buona parte delle motivazioni
espresse nel documento. Aggiungo subito che la richiesta del p.m. è vergognosa,
come quella che implica la inevitabile distruzione di un adolescente, qualunque
cosa costui abbia compiuta. Se, come mi dicono gli amici che hanno firmato, già
grandissima è stata l’inadempienza della società e dello stato nei confronti di
quel ragazzo, ancora più grande e intollerabile è l’oltraggio fatto, da quella
richiesta di condanna, al sentimento di giustizia.
E tuttavia non ho dunque
firmato perché credo non si debba indulgenza alla facilità con cui assumiamo il
punto di vista che Dio, se ci fosse, supponiamo dovrebbe avere. Fra l’altro,
nessuno più di chi si dichiara ateo inclina a quella facilità. Tale punto di
vista è globale e sublime. Sì, il punto di vista di Dio è sbagliato, dove tutto
comprendere è tutto perdonare, e altrettanto è quello dell’avvenire liberato e
redento dove non ci saranno colpe né perdono, dove non si sorveglia né si punisce
e nella tenerezza del sogno ci si bacia in fronte l’un l’altro, purché giovani,
quasi come gli angeli del Beato Angelico.
E invece bisogna distinguere. Bisogna compiere questa
penosa operazione.
L’immediatismo, il puntare su
di un particolare come fosse il tutto, il fare la tattica eguale alla strategia
ed esaltare il movimento, che sarebbe tutto, contro il fine che sarebbe nulla,
questo è una politica, lo so bene: ed è un metodo. Ma non l’ho mai condiviso.
Anche perché penso che alle multinazionali vada benissimo, proiettando in
politica e ideologia il “rapido consumo” necessario al mercato
produttivistico.
Il ragazzo è stato indotto
all’assassinio del padre da una intollerabile pressione morale. Si applichino
allora tutte le attenuanti previste dalla legge, si riducano al minimo le
limitazioni della sua libertà, gli sia fornito di che imparare, lavorare, misurarsi.
L’infamia di una società che non si è presa cura di lui, di una cerchia umana
che avrebbe potuto evitare la tragedia e non l’ha fatto, tutto questo va
combattuto alla radice. Ma non a parole né in occasione di questi episodi; e in
forme, quali le dichiarazioni firmate, che servono piuttosto da malta politica
fra gli iniziatori e i firmatari che da reale strumento di pressione sul potere
avverso e ingiusto. La lotta va condotta nelle sedi, nelle connessioni e nella
costanza che la rendono efficace. Vecchia musica, sgradevole a molte orecchie.
Ma non ne conosco di migliori. Non serve correre da una ad altra emozione,
gratificante e veloce operazione di pronto intervento e pronto soccorso.
Il padre di quel ragazzo era
un mostro di malvagità, probabilmente alcolizzato o mentalmente tarato.
Picchiava la moglie come era consuetudine facessero, e forse fanno tutt’oggi, i
contadini russi: come, con analoghe motivazioni, fanno innumerevoli coppie di
genitori in Francia (e in Italia?), torturando e uccidendo i propri bambini nel
silenzio del vicinato. Ma per questi delitti non credo sia stata ancora
accettata da noi la pena di morte per iniziativa privata, come si fa con i cani
idrofobi. La morte di quell’uomo ucciso dal figlio non è né pianta né
considerata da nessuno; ma che la sua
vita e la sua morte non siano state considerate altrettanto importanti di quella
del figlio suo o della nostra, questo è il vero scandalo, terribile e
intollerabile. Da vivo e da morto quell’uomo, invece di essere soltanto
esecrato, ha avuto e ha diritto ad una parte almeno di quell’aiuto e di quella
pietà che oggi rivolgiamo a suo figlio, anche perché è suo figlio.
E ancora (sebbene, cari
compagni, quanto sto per dirvi sia per essere anche più aspro alle vostre
orecchie) c’è un punto sul quale la penso come Simone Weil: quello di essere
puniti è un diritto e non deve essere sottratto a nessuno. Diritto e necessità;
non, come si crede, per la società; ma per colui che viene punito. È questo uno
dei nessi nei quali si incontrano il sapere dei tragici greci, quello cristiano
di Dostoevskij e quello di Freud. Noi dobbiamo volere che i giudici non
condannino all’imbestiamento del carcere il ragazzo parricida perché non
dobbiamo volere che quel suo atto gli sparisca dalla memoria sopraffatto dal
rancore per una condanna iniqua. Ma non dobbiamo nemmeno dargli la buona
coscienza dell’esecutore di alte opere, ossia del carnefice. Dobbiamo volere
che egli non rimuova da sé quella scena sotto i fiori del nostro “progressismo”.
Con quel suo atto, cioè anche con le condizioni che lo hanno reso inevitabile,
egli deve costruire se stesso. Non dobbiamo volere mai dei giustizieri, né
adolescenti né adulti. Ma la giustizia. E non è davvero la stessa cosa.
Alcuni compagni affermano che
i più non amano queste considerazioni, non le capiscono, anzi le considerano
concessioni al nemico. Fosse vero, me ne dispiacerebbe. Scrivo, da sempre, per
chi crede che vi sia un rapporto irrespingibile non solo morale ma politico,
non solo intellettuale ma pratico (e volto a salvare dall’assassinio e dalla
galera i futuri adolescenti) fra una più vera idea del delitti e delle pene
(dunque delle responsabilità personali e di quelle collettive) e il bene
concreto degli oppressi.
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