L'amico Paolo Di Remigio ci ha inviato qualche osservazione su un nostro articolo. Di seguito il suo intervento e la nostra risposta. Ringraziamo Paolo per questa occasione di dialogo. (M.B.)
Qualche
osservazione sull’articolo di Marino Badiale e Fabrizio Tringali (Paolo Di Remigio)
Secondo
Marino e Fabrizio, il capitalismo è crescita, accumulazione oltre
ogni limite, tale dunque da distruggere l’equilibrio ecologico del nostro
pianeta; esso inoltre impedisce che la crescita diffonda i suoi vantaggi ai
ceti subalterni; esso infine distrugge la sovranità degli Stati che altrimenti,
regolando l’accumulazione, avrebbero il potere di salvaguardare l’equilibrio
ecologico e di diffondere i vantaggi della crescita (consentita) ai ceti
subalterni.
Occorrerebbe
dunque un partito con tre obiettivi: la decrescita, la questione sociale, la
sovranità dello Stato.
Questo
partito non c’è e non lo si vede neanche in prospettiva: i movimenti ecologisti,
preoccupandosi soltanto della decrescita, trascurano questione sociale e
sovranità dello Stato; i movimenti socialisti, preoccupandosi
soltanto della questione sociale, trascurano la decrescita e la sovranità dello
Stato; i partiti populisti, in quanto adepti del neoliberalismo, trascurano
la decrescita e la questione sociale.
Siamo
dunque ‘sull’orlo del precipizio’.
Osservazioni.
1. Il
concetto di equilibrio ecologico allude a un’armonia naturale che non
c’è. La natura ha una sua storia, razionale in sé, cioè internamente e
nella lunghissima durata, ma dal punto di vista umano (che si restringe a un
tempo infinitesimo dei tempi della natura) la natura è brutale. Si pensi alla
nullità dell’individuo biologico, che esiste a tal punto soltanto in funzione
della specie, che questa si evolve soprattutto per stermini. La volontà di
salvaguardare la natura non ha un senso umano; unico scopo umano plausibile è
quello di conservare l’ambiente naturale adatto all’uomo, cioè l’abitabilità
della natura dall’uomo. Si tratta quindi non di annullare l’impronta dell’uomo
sulla natura, né di ridurla: l’uomo ha diritto di modificare la natura per la
sua vita; si tratta invece di rispettare la vita dell’uomo. Di questo rispetto
fanno certamente parte la lotta contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua,
del suolo, contro l’esaurimento delle risorse qualunque esse siano, ma non
iniziative drastiche che tengano o respingano nella miseria enormi masse di
esseri umani.
2. Il
capitalismo è accumulazione, certo; ma l’accumulazione non è un sinonimo
di crescita. Accumulazione si riferisce al denaro di cui il
capitale si appropria; crescita si riferisce al valore complessivo
prodotto. Per Marx lo scopo dell’investimento, che egli sintetizza nella
formula D – M – D’, è questo ’, cioè ΔD.
Per amore di ΔD (sacra auri fames), cioè di quella parte del valore
prodotto dall’investimento della quale si può appropriare, il
capitalista può espandere la crescita fino allo spreco più barbarico; ma può altrettanto
contrarla, quando la sua espansione metta in pericolo gli squilibri in cui si
sostanzia il dominio della sua classe. L’accumulazione capitalista, in altri
termini, consiste nell’accumulazione del plusvalore che si realizza o per mezzo
della crescita (dell’ingrandimento della torta) o per mezzo dell’impoverimento
delle classi subalterne (ingrandimento della fetta di torta), può essere dunque
sia crescista sia decrescista.
All’interno
dei ceti capitalisti, l’élite finanziaria è sempre decrescista fino al
malthusianesimo: essa è infatti deflazionista, vuole dunque rallentamento
economico e aumento della disoccupazione per diminuire la domanda, ma anche
guerre che sono crescita direttamente decrescista; alla tesi dell’élite finanziaria
si avvicinano il capitalismo oligopolistico e, entro limiti ristretti, anche la
piccola impresa, qualora la crescita intensa implichi la piena occupazione e
questa implichi la crisi del controllo capitalista sul lavoro. In questo caso
il capitalismo, come aveva avvertito Kalecki parlando della insostenibilità
delle politiche keynesiane nel contesto del capitalismo, abbraccia la via della
decrescita e consente la crescita soltanto nei paesi periferici (la Cina,
l’India, le tigri orientali); qualora poi la crescita periferica metta in
pericolo gli assetti geopolitici, cioè la stabilità dell’impero anglosassone,
il capitalismo si fa più radicalmente decrescista.
3. Sia
la crescita che la decrescita capitalistiche comportano per loro natura
un aumento dell’impatto ambientale; anche la decrescita: se i biscotti cinesi,
a prezzo inferiore dei biscotti prodotti nei forni vicini, sostituiscono questi
ultimi, il PIL diminuisce, ma l’impatto ambientale aumenta. È vero dunque che
‘modo di produzione capitalistico ed ecologia sono essenzialmente in
contraddizione’, ma non nel senso che il modo di produzione sia essenzialmente crescista,
ma nel senso che l’investimento privato si appropria senza scrupoli di tutto
ciò che non comporto un costo, sia in un contesto di crescita che di
decrescita.
4. Non
è dunque un paradosso che i ceti dominanti oltre a non fare nulla per
l’ambiente non permettano che i ceti subalterni traggano vantaggio dalla
crescita: i ceti dominanti usano la decrescita ecologista, che, in quanto loro
decrescita non porta alcun giovamento all’ambiente, come semplice pretesto
per colpire i redditi dei ceti subalterni. Il paese che più si è guadagnato la
fama immeritata dell’attenzione all’ecologia, la Germania, è anche quello della
più scandalosa deflazione salariale, e che ha giustificato questa con quella.
Lo scopo dei ceti dominanti, eccetto che nella fase storica successiva alla
seconda guerra mondiale, è la deflazione: questo è il primo articolo della loro
fede, inciso sulle tavole di bronzo dei loro templi, le banche centrali, e
attuato inesorabilmente dai loro crudeli sacerdoti. Marx ha notato che il
capitalismo, interessato soltanto all’accumulazione del plusvalore, frena la
crescita e ha affidato al socialismo il pieno dispiegamento delle forze
produttive.
5.
Come c’è differenza tra accumulazione e crescita, così c’è differenza tra crescita
e impronta ecologica. Possiamo cioè pensare una crescita illimitata marxiana
perché possiamo pensare che gli oggetti d’uso diminuiscano il loro impatto
ambientale e nel contempo aumentino di valore: un’auto, una caldaia meno
inquinanti possono essere più costose perché incorporano più lavoro, il cibo
biologico può essere più costoso del cibo cosiddetto convenzionale, dunque
aumentare il PIL. Questo è in qualche modo rilevato da Marino e da Fabrizio,
che scrivono: ‘Per imporre i vincoli ecologici è necessario lo Stato; esso è
necessario anche per finanziare l’evoluzione tecnologica da cui dipende il
passaggio all’economia ecologica.’ Anche per loro, dunque, il passaggio
all’economia ecologica implica enormi e lungimiranti investimenti,
necessariamente pubblici, dunque non decrescita, ma crescita.
6.
Quanto alle prospettive politiche, è importante sottolineare che una cosa è un
movimento, altra cosa è un partito; il movimento, non essendo al potere, è
prigioniero della sua unilateralità, e se vi andrà dovrà aprirsi all’altro
principio; il partito lo è già, ma proprio per questo la sua azione dipende non
soltanto dai suoi obiettivi, ma dal contesto in cui opera: essa è dunque lenta
e contraddittoria, ma non per questo inesistente. Non esiterei troppo a qualificare
l’ecologismo e la sinistra come cooptati dalle élite neoliberali. Avrei
della speranza in più nella crisi di queste élite, alle prese con il
gigante cinese che la loro stessa politica di esportazione dei capitali ha
alimentato, e nella possibilità che in questa crisi le questioni importanti (il
superamento delle politiche deflazionistiche, il rilancio di una crescita
umanistica) siano imposte dai fatti.
La nostra risposta
Siamo grati a Paolo Di Remigio perché il suo contributo ci permette di chiarire alcuni passaggi del nostro intervento che abbiamo lasciati in forma un po’ ellittica per esigenze di brevità. In primo luogo, è naturalmente vero che parlare di “equilibrio naturale” è impreciso, per i motivi che egli spiega bene, ma è un’espressione entrata nel linguaggio comune, e abbiamo voluto usarla per farci capire. Con essa intendiamo esattamente quello che ci sembra intenda Paolo: una modalità di rapporti fra essere umano e natura che permetta al primo di vivere una vita degna. Con l’aggiunta che, a nostro avviso, una vita degna è una vita che possa godere, fra gli altri beni di cui necessita, anche la bellezza di una natura il più possibile vitale e autonoma. Intendiamo insomma dire che, per usare un altro noto slogan ecologista, per vivere una buona vita, l’umanità deve “fare pace con la Terra”.
Per quanto riguarda la nozione di crescita e decrescita, le osservazioni di Paolo sono certo interessanti, ma ci sembra indichino soprattutto che da parte nostra c’è stata una difficoltà nel comunicare: quando diciamo che il capitale è necessariamente per la
crescita, stiamo anche noi pensando alla formula marxiana D-M-D’. Ci sembra possibile leggere quella formula nel modo seguente: l’imprenditore parte con un capitale D dal quale spera di ricavare un profitto. Questo vuol dire che parte con 100 e investe in merci che valgono appunto 100 (macchinari, materie prime, stipendi che vengono spesi in merci per il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie). Alla fine della lavorazione ottiene altre merci che rivende e ne ricava più di 100 (se tutto gli va bene). Poiché si tratta di merci che entrano nel PIL, è evidente che c’è stata crescita.
Ora, Paolo sottolinea il fatto che il profitto dell’imprenditore può avvenire in
due modi: o facendo aumentare il PIL (nel suo esempio, la torta che ingrandisce), o facendo aumentare i profitti comprimendo i salari e diminuendo la spesa pubblica (il PIL-torta rimpicciolisce, ma si ingrossa comunque la fetta del capitale). Questa seconda strada è quella attualmente percorsa dai ceti dominanti, il che dimostrerebbe che il capitale può essere decrescista. Ma questa seconda strada in realtà non è affatto decrescista: se è pur vero che la diminuzione dei consumi abbassa il PIL, l’aumento delle esportazioni lo alza. Nei desiderata dei ceti dominanti, a fronte della diminuzione di domanda interna, non c’è la diminuzione della produzione di merci, bensì l’aumento della competitività sull’estero tramite l’abbassamento del costo del lavoro, che alza la domanda estera, la cui soddisfazione entra nel PIL, appunto alla voce delle esportazioni.
Ecco quindi che il capitale non persegue la diminuzione del PIL, ma l'aumento o la diminuzione di questa o quella voce (meno consumi, meno spesa pubblica, più esportazioni), in base a ciò che maggiormente può determinare l'aumento dei profitti, e di conseguenza l'aumento di produzione di merci, al fine di perpetuare il ciclo D-M-D'.
L’elemento che vogliamo portare all’attenzione, è appunto che entrambe le strade sopra indicate passano per l’aumento della produzione di merci. E siccome il capitale ha sempre e comunque l'obbligo dell'aumento della produzione di merci (da vendere magari all'estero) esso può, in sostanza, essere considerato solo ed esclusivamente “crescista”, anche quando opera per diminuire i consumi e la spesa pubblica. Ecco quindi perché riteniamo che non esista possibilità di coniugare gli interessi del capitale con l'equilibrio ecologico, perché questo cozza con la necessità (per il capitale) di aumentare
costantemente la produzione di merci. Probabilmente il termine ‘decrescita’ risulta più chiaro se lo riferiamo alla produzione di merci, piuttosto che al PIL. La decrescita, infatti, non coincide necessariamente in ogni intervallo di tempo con la diminuzione del PIL, ma mira piuttosto alla liberazione dalla necessità di aumentare la produzione di merci, ed è quindi compatibile con il temporaneo aumento del PIL che deriva dall'aumento della spesa pubblica per investimenti per l'occupazione e la conversione ecologica dell'economia. In sostanza l’avviarsi sulla strada della diminuzione della produzione di merci può certo all’inizio comportare un aumento del PIL (per via dell’aumento della spesa pubblica), ma si tratta, nella nostra visione, di un aumento temporaneo.
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