Continuazione del dialogo
Paolo Di Remigio
Il ritardo di questa risposta, di
cui mi scuso, non è dovuto al venir meno dell’interesse, ma alla difficoltà di
trovare la calma necessaria per riflettere con serenità su argomenti così
incalzanti. Sul primo punto siamo d’accordo nella sostanza[1].
Vorrei però riflettere sulle convenzioni terminologiche per tentare di
collocare filosoficamente l’ecologismo. La mia tesi è che esso, oltre a
radicarsi in prospettive politiche conservatrici, abbia una notevole affinità
con la corrente antiumanistica del pensiero del Novecento.
Per tutti noi è ormai ovvio
immaginare la natura come equilibrio armonico e l’uomo come perturbatore, senza
avvertire che si tratta di una visione rovesciata della realtà. L’equilibrio
armonico è un sentimento che nasce non dalla natura, la cui azione ci si fa
avvertire ormai soltanto nelle catastrofi, ma dall’esperienza dell’ordine sociale.
Senza il lavoro, che non solo è il fondamento della società, ma si
riversa sulla natura così da renderla abitabile, la natura, più che l’idillio,
desta il terrore di essere divorati: l’uomo brucia o seppellisce i propri morti
perché non siano il pasto degli animali. Così, mentre l’inesorabilità del mito
nasce dall’uomo ancora in balia del capriccio naturale, la compassione
religiosa è la visione dell’uomo che abita la natura umanizzata. Se si perdona
a Leopardi l’accento esagerato sull’ostilità della natura, è difficile
considerare superficiale la concezione espressa nella Ginestra nei vv.
126-135:
… e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
La visione positiva del lavoro è
propria di tutta la filosofia prima del Novecento, pur con accenti diversi tra
chi, come Aristotele, Platone, ma anche Hegel e Marx, considera il lavoro come fatica
necessaria e quindi come semplice condizione della vita felice,
cioè della vita teoretica, e chi, come il positivismo, mette l’accento sul
lavoro tecnicamente agguerrito come potere in grado di sottomettere la
natura e assicurare direttamente la felicità.
Il sospetto nei confronti del lavoro
inizia nel Novecento, propriamente dal più serio dei suoi filosofi, da Edmund
Husserl e dalla sua polemica contro il mito positivista della tecnica. Egli ha
constatato la tecnicizzazione delle scienze, il fatto che le scienze
particolari siano un repertorio di potenti tecniche di soluzione dei loro
problemi, ma perse in questa strumentalità, cieche perciò di fronte al senso
ultimo.
Non si trattava affatto di una
constatazione nuova; già Platone si era accorto del dogmatismo delle scienze di
fronte ai loro presupposti più generali e l’aveva imputato al carattere assiomatico
dei loro principi. Mentre però Platone ha osservato che la considerazione puramente
logica, la dialettica, sana il limite dell’assiomaticità delle scienze
legandole all’idea del bene, Husserl prende la strada opposta: vuole riscoprire
il senso filosofico delle scienze tecnicizzate non con il dispiegamento
dialettico della loro logica, ma riguadagnando, con l’epoché sulle
scienze, l’accesso a un’esperienza primigenia dei fenomeni, quando non
hanno sofferto ancora la semplificazione che la scienza-tecnica infliggerebbe
loro. Anziché indagare gli assiomi e recuperarne il senso con la dialettica,
Husserl cerca il senso delle scienze negli atti soggettivi corrispondenti all’esperienza
primigenia.
Husserl dà così per scontato che
le scienze, nel sollevarsi tramite l’astrazione sopra l’esperienza
primigenia per accedere all’elemento logico, la tradiscano, che non ne
conservino l’essenza, ma ne perdano il meglio. Poiché l’astrazione appare non
il primo passo per raggiungere il senso, ma lo sviarne, e non può esserci
scienza senza astrazione, importa poco che Husserl continui a cercare il senso
delle scienze negli atti del soggetto trascendentale: sulla stessa scienza, per
il fatto che essa non lascia l’esperienza com’è ma astraendo ne enuclea le
essenze, aleggia ormai il sospetto che le sue verità siano insensate.
Heidegger, l’allievo di Husserl,
trae questa conclusione con irresponsabile cinismo: la logica scientifica
sarebbe incapace di giunge al senso ontologico, è tecnica fine a sé
stessa, violenza, è dunque relegata nell’ontico, tra le cose-strumenti a
disposizione dell’esserci inautentico; la sua pretesa di conoscere l’essere
ontologico, la metafisica occidentale, ne sarebbe anzi l’oblio. Ma escludere lo
strumento dal senso ha effetti rilevanti sul senso stesso: senza logica
scientifica, lontana dalla metafisica, l’ontologia stessa diventa vicinanza a
un essere indeterminato, che si nasconde nel suo manifestarsi, la cui estraneità
alla logica può essere compensata soltanto dall’allusione etimologica.
La tecnicità delle scienze, che Platone, Aristotele, Hegel hanno sanato
attraverso il dispiegamento dialettico della loro logica, mostrando cioè la
pienezza del senso nello stesso strumento logico, diventa in Heidegger
il pretesto per escluderle dal senso e per genuflettersi all’estraneo.
Qualcosa di simile accade
nell’ideologia ecologica: a dispetto della sua etimologia, che allude al
discorso sulla casa dell’uomo, essa trae dai difetti storicamente
determinati della tecnica la concezione della tecnica stessa come violenza
inflitta alla generosità naturale, e come animalismo considera l’uomo
come specie vivente tra le tante specie viventi: la vita naturale nel suo
ottuso riprodurre sé stessa diventa il senso stesso.
Così però è tutto perduto: come
nell’heideggerismo sono perdute scienza e filosofia e l’antiumano è spacciato
come senso, così nell’ecologismo vanno perduti il lavoro e lo sviluppo
produttivo: non è più uno specifico sviluppo e uso della tecnica, quello
capitalistico diretto al profitto anziché al consumo, a costituire una minaccia
per l’ambiente degli uomini e a esigere quindi una severa regolamentazione
statale, ma è il lavoro in sé, la tecnica in sé, che vanno
abbandonati affinché l’armonia naturale sia salvata.
Accolto questo presupposto
antiumano, l’ecologismo non può che restare inerme contro l’inumanità
capitalista, contro il suo malthusianesimo, contro l’idea che le risorse siano
limitate e che molti debbano dunque essere eliminati. È questo il senso del
penoso spettacolo offerto dai media, in cui si combinano allarmismo e inazione
programmata: ci si vuole abituare all’idea che i meccanismi dell’economia
diretta al profitto siano intoccabili e che si possa intervenire soltanto sul
numero e sul tenore di vita del numero.
[1] Quanto al secondo punto, riconosco che si
diano casi in cui la diminuzione dei consumi interni sia compensata ad
abundantiam dall’aumento delle esportazioni; ma a me sembra che si dia
anche il caso diverso, quello della semplice recessione economica, per cui si
vuole la decrescita complessiva. La crisi economica non è un inconveniente per
i grossi capitalisti, ma è l’occasione per fare tante cose: guerre per
eliminare rivali geopolitici, esclusione dal mercato delle imprese rivali in
difficoltà, umiliazione dei lavoratori e dei ceti medi e vanificazione della
democrazia. I capitalisti, come padroni delle banche centrali, dunque della
politica economica, sanno benissimo come non si entri e come si esca da una
recessione; se vi si entra e si tarda a uscirne, lo si vuole. Il New Deal
di Roosevelt trovò a Wall Street nemici irriducibili: i banchieri preferivano
la recessione all’alterazione dei meccanismi che assicuravano i loro privilegi.
Ribadisco poi che la crescita a cui mira il capitale è crescita del valore,
e la crescita del valore può non implicare direttamente la crescita
dell’impronta ecologica.
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