Il ‘GRUPPO
DI FIRENZE per la scuola del merito e della responsabilità’ ha avanzato per le
scuole superiori la proposta di sostituire l’organizzazione in classi con
quella, tratta dal modello finlandese, in corsi disciplinari, così che lo studente ripeta solo quei corsi di cui non
abbia superato l’esame
Nella
maggior parte degli interventi delle persone interpellate sulla proposta, ancor
più nei resoconti giornalistici, si osserva una diffusa incapacità di scorgere
che la proposta nasce dalla constatazione allarmante che molti voti
insufficienti sono spinti truffaldinamente alla sufficienza soltanto perché i
consigli di classe tremano di fronte alla misura draconiana di far ripetere
l’anno scolastico, nasce cioè dalla preoccupazione di restituire serietà
all’istruzione. La diffusa incomprensione del vero intento della proposta
annuncia il pericolo che la sua attuazione possa andare nel senso opposto a
quello per cui era stata avanzata, verso cioè un ulteriore svuotamento
dell’istruzione pubblica – per quanto ormai sia difficile immaginare come si
possa fare peggio.
Qualunque
siano i vantaggi e gli svantaggi della proposta, l’intento del Gruppo di
Firenze può stimolare un dibattito da cui emerga come lo sfascio della scuola
attuale, che della “vecchia” scuola ha ormai spento persino il ricordo, risulti
non dalla mancata o parziale realizzazione della riforma dell’autonomia, ma dal
suo pieno successo. L’autonomia scolastica ha distrutto l’istruzione, e non
poteva non distruggerla, perché, avendo imposto alle scuole una concorrenza per
cui sono migliori quelle che si procacciano più iscritti, è fatale che
l’imperativo categorico di aumentare i clienti le porti a disperdere le energie
in una pletora di attività pubblicitarie prive di ricaduta didattica e alla
pratica di remunerare con la mera parvenza del successo scolastico ogni alunno,
qualunque siano i risultati effettivi del suo percorso.
Ne
segue che nessuna iniziativa di miglioramento dell’istruzione in Italia
può avere successo se prima le scuole non sono liberate dall’ansia delle
iscrizioni indotta dalla riforma dell’autonomia.
1.
Impostato secondo la preoccupazione del Gruppo di Firenze, il dibattito
potrebbe focalizzare la necessità di restituire all’istruzione il suo carattere
etico, per cui l’insegnante non è un manipolatore delle psiche che con
un repertorio di astuzie ‘tecnologiche’ crei motivazioni e modifichi
comportamenti, ma è un depositario di scienza che, appellandosi al senso del dovere
del discente, lo fa lavorare: gli prescrive una meta, lo aiuta con le
spiegazioni e con il dosaggio progressivo delle difficoltà di memorizzazione e
di esercitazione, ne corregge le prove e le valuta. La differenza tra il primo
atteggiamento e il secondo può forse essere resa intuitiva con una similitudine
tratta dalla medicina: alcune terapie, per esempio quelle chirurgiche,
implicano l’anestesia del paziente, altre, per esempio le diete, il suo
impegno. L’insegnamento è simile non alla chirurgia, ma alla dietetica: esige
la docilità del discente, la sua tenacia, la sua volontà
di dotarsi dell’habitus scientifico. Il principio della scuola attuale è
invece simile a quello dell’operazione in anestesia totale; da una
parte, infatti, come i chirurghi rispetto all’eventuale fallimento
dell’operazione, così gli insegnanti sono oggi ritenuti i soli responsabili
dell’insuccesso dei loro alunni, con il risultato di essere spinti a rinunciare
alla valutazione imparziale per evitare ogni rischio; dall’altra, il privilegio
riservato alla progettualità e all’innovazione rispetto al lavoro di routine
dipende dal falso ideale dell’imparare involontariamente, che riduce la
didattica ai contenuti acquisibili per gioco – di fatto solo a quelli afferenti
alla socializzazione.
Dal
dibattito potrebbe emergere il contrasto tra programmazione e programma.
La prima è la forma tecnica della degenerazione psicologistica della scuola;
anziché infatti esigere dall’alunno lo sforzo di raggiungere una meta definita
ufficialmente, la programmazione costruisce un percorso che, preoccupato
soprattutto di adattarsi alle esigenze dell’alunno, si concentra sulle
condizioni di partenza, costruisce un castello di carta di obiettivi intermedi,
e dimentica il raggiungimento della meta, la cui definizione è così diventata
prerogativa, se non de iure almeno de facto, dei singoli
istituti. Inoltre, con il suo accento sulle condizioni d’inizio, la
programmazione ha non solo infarcito di ipocrita burocrazia il lavoro
didattico, ma ha spinto le scuole a un collegamento con il territorio che ha
certo senso per gli istituti professionali e in parte per quelli tecnici, ma è
del tutto assurdo per la scuola di base (in tutte le scuole elementari e medie
si impara l’italiano senza inflessione locale e la matematica di Euclide) e per
i licei.
I programmi
– gli obiettivi da raggiungere – devono dunque tornare il centro della
didattica: deve esserci una definizione pubblica dei risultati minimi e inderogabili
di conoscenza e competenza in tutte le scuole italiane; il loro raggiungimento
deve essere il primo compito della scuola, a cui sono subordinate tutte
le altre esigenze, deve pertanto essere verificato con rigore innanzitutto
dalla scuola, in secondo luogo da ispettori; i modi del loro raggiungimento
devono essere restituiti alla competenza e alla creatività degli insegnanti.
2. Solo a
questo punto può essere affrontato il problema della valutazione e della
ripetenza con meno rischi che le novità proposte possano essere un contributo
al degrado. È probabile che l’attuale meccanismo della ripetenza sia un’eredità
della scuola gentiliana che mirava innanzitutto alla selezione e solo
secondariamente all’istruzione. Per una scuola che deve portare tutti i
giovani almeno al possesso delle competenze essenziali e deve valorizzare le
capacità di lavoro di chi può raggiungere alti obiettivi, può porsi il compito
non solo di restituire rigore alla valutazione dei risultati ma anche quello di
separare parzialmente l’insufficienza del profitto dalla ripetenza
dell’anno, per ricorrervi solo se questa sia uno strumento necessario alla
crescita dell’alunno.
Per
restituire rigore alla valutazione occorrerebbe innanzitutto semplificarla: i
decimi, ma ancor più i quindicesimi, per tacere dei trentacinquesimi, sono la
premessa di valutazioni insincere; introdurre i sesti (1 = risultato
nullo; 2 = scarso; 3 = insicuro; 4 = sufficiente; 5 = buono; 6 = eccellente)
potrebbe essere un incentivo a utilizzare tutti gli estremi della scala e a
rilevare l’essenziale senza perdersi nelle finezze docimologiche – del tutto
estranee all’ambito didattico.
In secondo
luogo potrebbe essere opportuno promuovere alla classe successiva anche chi
presenti insufficienze in materie non fondamentali (quelle fondamentali
sono ovviamente italiano e matematica) e non di indirizzo, con
possibilità di recuperare queste materie nell’anno successivo, e, in caso di
mancato recupero, di conseguire un diploma che precluda l’accesso a indirizzi
in cui predominano le materie trascurate (per esempio chi al liceo classico non
fosse sufficiente in scienze e fisica non potrebbe iscriversi a medicina; chi
non lo fosse in storia e filosofia, non potrebbe iscriversi a giurisprudenza;
chi non lo fosse in matematica e scienze dovrebbe rinunciare a ingegneria). Un
analogo discorso si potrebbe fare per il passaggio dalle medie alle scuole
superiori. Infine, nel primo anno di scuola superiore il cambiamento di
istituto potrebbe sostituire una ripetenza per scarso profitto nelle materie di
indirizzo.
Queste come
altre proposte presentano i loro inconvenienti e al momento della loro
attuazione possono dare adito a comportamenti opportunistici tali da
snaturarle; è anzi inevitabile che ciò accada se prima delle novità nella
meccanica delle valutazioni e delle ripetenze non si sia consumato il distacco
dal principio dell’autonomia e se non si voglia sinceramente resuscitare la
scuola pubblica italiana. Di qui l’importanza di avviare, prima di ogni
iniziativa e come premessa di scelte radicali, un dibattito spregiudicato su
ciò che è accaduto nella scuola italiana negli ultimi venti anni e sul suo
stato attuale.
Marino
Badiale – Università di Torino
Fausto Di
Biase – Università di Pescara
Paolo Di
Remigio – Liceo Classico di Teramo
Lorella
Pistocchi – Scuola Media di Villa Vomano
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