lunedì 21 gennaio 2019

In un mondo senza speranza




I. Queste riflessioni partono da un presupposto che mi limito qui ad esporre rapidamente senza argomentazioni. È mia convinzione che siamo avviati ad un declino di civiltà causato da due elementi fondamentali: da una parte l’emergere sempre più netto del carattere distruttivo, nei confronti di società e natura, dell’attuale organizzazione sociale, dall'altra la totale assenza di una forza sociale che seriamente e concretamente contesti questa distruttività e inizi a costruire vie alternative. Lo scenario globale dei prossimi decenni sarà cioè, a mio modesto avvisto, uno scenario di degrado e fine di una civiltà, senza speranze di un mondo migliore. È questa la situazione in cui ci accade di vivere. Non sto affermando che ci avviamo alla fine definitiva della civiltà umana o addirittura della specie umana. Sto affermando che le persone presenti sulla faccia della terra oggi, inizio 2019, vivranno l'intera loro vita in una fase di crisi e declino e non potranno scorgere nella realtà elementi di una diversa organizzazione sociale. Ammesso che sia così, appare inevitabile porsi il problema del senso da dare alla propria vita, in un mondo senza speranza.


II. Intendo qui sostenere che, in questa situazione, occorre innanzitutto liberarsi dai residui di concezioni del passato. Uno di questi residui da abbandonare è la nozione di comunismo. Svilupperò quindi alcune argomentazioni per la critica dell’idea di società comunista.
Uno degli argomenti usuali contro il comunismo si sviluppa più o meno nel modo seguente: il comunismo è un’utopia che contraddice alcuni dati fondamentali dell’essere umano. Il tentativo di concretizzazione storica dell’utopia comunista in una società determinata, da parte del potere politico, porta quindi necessariamente a difficoltà oggettive e resistenze soggettive. Il potere politico, accecato dall'ideologia e quindi incapace di rendersi conto del carattere utopico delle sue aspirazioni, reagisce con la violenza a difficoltà e resistenze, innestando il meccanismo che porta poi, con altrettanta necessità, al terrore e agli stermini e infine, dopo inenarrabili sofferenze, alla disillusione e all'abbandono dell’utopia.
Questo schema di ragionamento non è in realtà specifico delle critiche (soprattutto novecentesche) al comunismo, perché in sostanza ricalca le critiche dei conservatori europei nei confronti della Rivoluzione Francese. Il punto teoreticamente più alto di questo tipo di argomentazioni è rappresentato probabilmente dalle pagine della “Fenomenologia dello Spirito” in cui Hegel tratta la dialettica del Terrore.
Ritengo, per tornare al comunismo, che lo schema di ragionamento sopra ricordato sintetizzi alcuni aspetti reali della dinamica storica del comunismo novecentesco, ma non sia ancora sufficiente per l’abbandono definitivo di questa ideologia. Qualificare il comunismo come utopia, senza ulteriori specificazioni, permette infatti alcune strategie teoriche di elusione della critica: in primo luogo si può argomentare che una prospettiva utopica appare necessaria come spinta critica nei confronti dei mali del presente, in secondo luogo si può replicare che ciò che oggi appare utopico può divenire una possibilità concreta in un futuro prossimo grazie a opportuni sviluppi storici (per esempio il progresso tecnologico o la crescita materiale e spirituale del proletariato).
Per liberare definitivamente lo spirito dal comunismo occorre quindi qualche ulteriore considerazione. Si tratta di mostrare che esiste un senso nel quale il comunismo non è per nulla un’utopia, ma è anzi una realtà concreta della vita di tutti. Naturalmente per capire cosa intendo dire occorre mettersi d’accordo sul significato della parola “comunismo”. È noto che esistono infinite discussioni su questo punto. Non intendo ripercorrere la storia di questi dibattiti, ma mi limito a riprendere quelle nozioni marxiane che, mi sembra, sono state sempre considerate costitutive del concetto. Mi riferisco ai celebri passi della “Critica del programma di Gotha” nei quali Marx parla della fase superiore della società socialista compendiandola nella nota formula “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. A partire da questa citazione potremmo facilmente ritornare alle discussioni cui alludevo nelle righe precedenti. Infatti se pensiamo a una società umana adeguata ai principi sopra citati, dovremmo pensare ad una società nella quale ciascuno si impegna in ciò che più gli aggrada, ricevendo comunque in cambio il necessario per la vita. E il critico avrebbe gioco facile a denunciare il carattere utopistico di una simile visione, mentre il suo oppositore potrebbe replicare che gli enunciati marxiani si riferiscono a una situazione futura nella quale lo sviluppo economico e tecnologico fornisca le basi di una abbondanza materiale estesa a tutti, e il progresso spirituale abbia portato al superamento dell’egoismo e della rapacità tipici della società borghese.
Si tratta di un dibattito che potrebbe continuare all'infinito. L’intento di questo scritto è quello di suggerire un’altra strada, e dopo queste premesse vengo finalmente al punto. Il punto sta in questo: il comunismo non è un’utopia perché la richiesta “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” è concretamente realizzata in un ambito particolare della società e della vita di ciascuno. Si tratta della famiglia. La famiglia è organizzata precisamente su quei principi. In una famiglia, ciascuno fornisce alla famiglia stessa ciò che è in grado di dare, e riceve ciò che gli serve per l’esistenza, ovviamente al di fuori di ogni scambio di tipo commerciale.
Il comunismo non è dunque un’utopia astratta, lontana dalla realtà degli esseri umani, perché è invece una parte fondamentale del percorso di crescita di ciascun individuo umano. Ma prendere coscienza del fatto che la famiglia è il comunismo, significa abbandonare definitivamente l’idea del comunismo come prospettiva politica per la società umana. Per capire questo punto, basta interrogarsi sul perché il “comunismo della famiglia” sfugga alle impossibilità che, secondo i critici, inficiano il progetto di una società comunista, rendendolo utopistico. La critica principale è quella legata alla necessità, perché una società comunista possa funzionare, di superare le distanze e le fratture fra gli esseri umani; in una società comunista ci si deve poter fidare dell’altro, si deve sapere che ciascuno farà la sua parte dell’interesse del bene comune, che nessuno userà la libertà possibile per prevaricare sull'altro, in un modo o nell'altro. Nel comunismo l’altro non deve essere un semplice estraneo. L’altro deve essere un fratello, e non a caso la fraternità con l’intero genere umano è uno degli ideali rivendicati dai rivoluzionari, a partire dalla Rivoluzione Francese. Ora, questa non-estraneità è esattamente quello che si realizza nella famiglia. All'interno di una famiglia ci si conosce in profondità e, se la famiglia funziona, si sa di potersi fidare, si sa cosa ci si può aspettare. Questa conoscenza reciproca all'interno della famiglia è ciò che costituisce il punto di partenza della vita di ogni individuo. Per chi arriva al mondo in una famiglia i suoi membri non sono estranei ma sono individui conosciuti da sempre, individui che fanno parte dell’identità stessa del nuovo individuo; così accade fra fratelli e sorelle, così accade per il figlio o la figlia nei confronti di genitori e nonni, e in generale degli adulti, di coloro che erano già lì al momento della sua nascita. Diverso è il caso del legame della coppia, nel quale l’essere assieme, la fiducia reciproca, non è un qualcosa già da sempre lì, come nel caso dei figli. Qui la non-estraneità è ovviamente dovuta al legame creato dall'unione sessuale, che, come sa la Bibbia, stabilisce una forma di “conoscenza” assolutamente unica.
Se questi sono allora i fondamenti di possibilità del comunismo della famiglia (l’unico comunismo realmente esistente), appare facile capire perché l’unica società comunista pensabile è in sostanza una piccola tribù formata al più da poche centinaia di individui legati fra loro da vincoli di sangue. La fiducia, il non sentire l’altro come un estraneo, sono possibili solo sulla base di una lunga conoscenza reciproca, a sua volta possibile solo nella famiglia o in una tribù che sia in sostanza una specie di famiglia allargata. E questo perché tale fiducia richiede conoscenza reciproca, e la conoscenza reciproca richiede tempo, tempo per vivere assieme, per parlare, per ridere, per costruire l’amore, per litigare e poi fare la pace. La fraternità universale degli esseri umani è allora davvero un’illusione. L’umanità non può essere pensata come una famiglia di fratelli o sorelle perché i limiti del tempo della nostra vita lo proibiscono. Non potremo mai conoscere ogni individuo umano, e fidarci di lui o di lei, come conosciamo coloro che hanno accompagnato la nostra vita fin dalla nascita. Tanto meno possiamo immaginare di superare le distanze fra gli esseri umani grazie alla generalizzazione del rapporto sessuale. È interessante osservare il fatto che l’utopia di una umanità futura pensata come una comune di libero amore sessuale abbia accompagnato come un’ombra la storia del pensiero progressista, da Charles Fourier al ‘68. Ma su questo punto il pensiero conservatore ha sempre avuto ragione nei confronti del pensiero progressista e delle sue utopie. L’essere umano ha in sé il bene e il male, e più si toccano strati profondi del nostro essere più è facile che ne emergano bene e male. Ma la sessualità è appunto la dimensione dei rapporti nella quale emerge con immediatezza il nostro essere profondo, e si espone indifeso allo sguardo dell’altro. Per questo dalla sessualità può nascere molto bene ma anche molto male. Tutte le culture umane lo hanno sempre saputo, e per questo hanno costruito elaborate cinture protettive attorno a questa sfera, che manifesta con forza radicale l’ambiguità del nostro essere. Immaginare allora che la conoscenza e la fiducia reciproche che la coppia genitoriale costruisce con fatica, tempo, attenzione, cura reciproca, a partire dal rapporto sessuale, immaginare che tale conoscenza e fiducia possano essere estese all'intera umanità “libera dai tabù” è davvero la povera utopia di chi non sa nulla dell’essere umano.
Riassumendo: il comunismo della famiglia, l’unico comunismo realmente esistente dal neolitico in poi, esiste grazie alla fiducia e alla conoscenza reciproca basate su specifici rapporti umani (il rapporto dei componenti la coppia genitoriale, il rapporto fra genitori e figli, il rapporto fra fratelli e sorelle, e così via) che sono possibili solo grazie al pieno coinvolgimento reciproco del tempo di vita. Ma questo non è possibile con gli altri membri di una società che non sia una piccola tribù. In definitiva, una volta che è chiaro come la famiglia sia l’unico comunismo realmente esistente, e perché può esserlo, appare anche chiaro che un’intera società appena più ampia di una piccola tribù, non potrà mai essere una società comunista.
Il meglio che possiamo sperare è dunque di vivere una vita familiare improntata all'affetto e alla fiducia, per chi ci riesce, e di regolare i rapporti umani al di fuori della famiglia secondo le regole di cortesia e correttezza di volta in volta stabilite dal costume e dalle leggi. Così si sono organizzate tutte le società umane dal neolitico in poi, ed anche l’ultima arrivata, la società borghese. In mancanza di meglio, non c’è motivo per cambiare questo schema. Questo non significa accettare l’esistente o perorare il ritorno della famiglia tradizionale (qualunque essa sia). Il modello di vita borghese, con la sua scoperta della libera soggettività individuale, è una grande conquista rispetto alla quale non si vedono al momento prospettive di superamento rivoluzionario, ma questo non significa che al suo interno non siano possibili miglioramenti. In particolare, i rapporti umani nella società civile e nella famiglia stessa possono certamente migliorare moltissimo grazie al miglioramento delle condizioni di vita: è stata soprattutto la lotta per la sopravvivenza a rendere l’uomo un lupo per l’uomo, e il suo superamento grazie al benessere diffuso nella seconda metà del Novecento ha permesso drastici miglioramenti nei rapporti fra le persone, come il raggiungimento di una sostanziale parità di diritti fra uomo e donna e di una maggiore vicinanza fra genitori e figli.
Riassumendo: non ci sarà mai il comunismo, ma è possibile pensare a una società dove i rapporti fra gli esseri umani siano sempre meno conflittuali. È possibile pensare di fare a meno del comunismo e vivere sereni.

III. Questa possibilità sembra però negata dagli sviluppi attuali del capitalismo ormai mondializzato, cioè dalla incipiente crisi di civiltà della quale abbiamo parlato all'inizio. Da una parte il capitalismo contemporaneo ha ritrattato il “compromesso socialdemocratico” del “trentennio dorato” seguito alla Seconda Guerra Mondiale, secondo il quale i ceti subalterni ottenevano un livello accettabile e crescente di benessere e sicurezza in cambio della rinuncia ad ogni velleità anticapitalistica. Il compromesso entra in crisi negli anni Settanta, e a questa crisi i ceti dirigenti rispondono con globalizzazione e neoliberismo, che in pratica significano distruzione del benessere e della sicurezza per larghe fasce della popolazione, aumento senza fine delle disuguaglianze, erosione del legame sociale. A questo si aggiunge il fatto che le nostre società hanno ormai raggiunto e superato i limiti ecologici del pianeta, e le conseguenze di questo, a partire dal cambiamento climatico, stanno ormai diventando evidenti a tutti. In sostanza l’attuale organizzazione sociale ed economica del mondo ha imboccato la strada della distruzione della società e della natura. Tutto ciò configura, come si diceva all'inizio, uno scenario di declino di civiltà, rispetto al quale non sembrano visibili forze in grado di imporre il drastico cambiamento di direzione che sarebbe necessario.
Bisogna allora chiedersi se sia possibile una vita decente sapendo di vivere in un crepuscolo paragonabile alla fine del mondo classico, e sapendo che nessun radioso futuro comunista riscatterà il grigio presente che viviamo. Per riflettere su questo, può forse avere interesse ricordare le vicende di Severino Boezio e Aurelio Cassiodoro. Intellettuali di formazione classica, latini e cristiani nei tempi ferrigni che seguono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, cercano entrambi di innestare il loro retaggio culturale nella nuova realtà dei regni romano-barbarici, e per questo collaborano con il re goto Teodorico, assumendo alte cariche nello Stato. Ma Boezio sarà coinvolto nelle trame di corte e ne verrà stritolato: accusato di congiurare contro il re finirà in carcere per essere poi giustiziato. In carcere, in attesa della fine, scriverà quel “De consolatione philosophiae” che diventerà uno dei testi più noti del nostro medioevo, e adempirà quindi, nonostante la fine tragica, al suo compito di conservare e trasmettere elementi della cultura antica nei tempi nuovi. Cassiodoro avrà invece una vita lunghissima, attraverserà quasi tutto il VI secolo sempre svolgendo incarichi politici e diplomatici, sopravviverà alle congiure di palazzo del regno gotico e alle devastanti guerre greco-gotiche, per ritirarsi infine nel monastero di Vivarium, in Calabria, dedicandosi con gli altri monaci ad una proficua attività di ricopiatura di manoscritti. Ed è anche questo un modo di assolvere il proprio compito.
Nei tempi bui che ci aspettano noi possiamo cercare di svolgere un compito analogo. In primo luogo sperare di non essere travolti, di salvarci la vita. Che non vuol dire banalmente sopravvivere, ma sopravvivere rimanendo persone decenti. In secondo luogo, “ricopiare antichi manoscritti”, che è metafora dello sforzo di portare al futuro elementi di civiltà. Sperando e pregando di non essere sottoposti alla prova atroce di Boezio, ma di vivere una vita operosa come quella di Cassiodoro. Ed è questa, alla fine, la speranza che ci sembra lecito mantenere accesa, in un mondo senza speranza.



Marino Badiale, Genova, gennaio 2019


Nota: L’idea fondamentale dell’identità fra comunismo e famiglia la devo all’amico Paolo Di Remigio





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