In
questi giorni si sono accese vivaci discussioni sulla riforma
dell’affido condiviso (“d.d.l. Pillon”). Una analisi
approfondita sarebbe molto lunga, perché bisognerebbe esaminare sia
gli aspetti relazionali sia quelli economici. Non intendo farlo, per
mancanza di tempo e anche perché in rete si trovano ben argomentate
molte delle considerazioni che potrei fare io, per esempio nel sito di Davide Stasi o sulla pagina facebook di Mantenimento Diretto. Mi
limito qui ad alcune brevi osservazioni che riguardano esclusivamente
il lato economico, perché non le ho trovate in altri interventi (non
tutte, almeno) e mi pare meritino di essere prese in considerazione.
Mi
sembra che nelle discussioni sul d.d.l. Pillon faccia fatica ad
emergere una verità molto semplice: nelle odierne condizioni del
nostro paese, fra crisi economica e difficoltà a trovare un lavoro
decente, il divorzio è roba da ricchi. Eppure è del tutto ovvio
capirlo: basta pensare ad una famiglia nella quale entrano, diciamo,
1800 euro al mese, e a cosa significa, a partire da un tale reddito,
dover mantenere due abitazioni invece di una. È ovviamente
impossibile farlo vivendo una vita decorosa. Se questa verità non è
emersa nei decenni seguiti all’approvazione della legge sul
divorzio, è per un motivo molto semplice: si è occultata questa
impossibilità economica scaricandola per intero sul “soggetto più
forte economicamente”, cioè, quasi sempre nella pratica, sul
padre. Si è cioè deciso che, nella grande maggioranza dei casi, i
figli venivano affidati alla madre (esplicitamente prima della legge
del 2006 sull’affido condiviso, col sotterfugio del “genitore
collocatario” dopo) e che il padre continuava a provvedere per
larga parte del suo reddito al mantenimento di una famiglia dalla
quale era escluso. Di questo meccanismo faceva parte il fatto che la
casa coniugale rimaneva quasi sempre alla madre e il padre era
costretto a pagarsi un affitto. Fatto questo, se ciò che rimaneva
del suo reddito era sufficiente per vivere decentemente, bene per
lui, se non lo era peggio per lui. Notoriamente, dei padri separati
in difficoltà economiche non è mai importato nulla a nessuno.
Questo
meccanismo è chiaramente ingiusto, e non perché, ovviamente, le
madri separate non siano in difficoltà. Ma perché l’onere di
provvedere a questa difficoltà viene caricato interamente sulle
spalle dei padri separati, che spesso non sono in grado di reggerlo.
L’assegno alle madri separate è in sostanza un pezzo del Welfare
State, è una forma di assistenza a persone in difficoltà: ma allora
deve essere, come tutto il resto del Welfare, a carico della
fiscalità generale. Deve essere lo Stato a provvedere a queste
persone in difficoltà, non singoli individui che magari possono
trovarsi anch’essi in condizioni difficili.
Il
meccanismo attuale, che la riforma vuole cambiare, sarebbe
equivalente alla situazione seguente: immaginiamo un paese con
disparità sociali (esistono i ricchi e i poveri) nel quale non
esiste un sistema di assistenza sanitaria pubblica e gratuita.
Ovviamente, in questa situazione i poveri non possono curarsi. Che si
fa? Invece di provvedere ad istituire un servizio sanitario pubblico
e gratuito, i governanti dividono la popolazione in due (per esempio
quelli più alti della media e quelli più bassi) e stabiliscono che
i Bassi devono versare una parte del proprio reddito per garantire le
cure mediche agli Alti. In questo modo in effetti metà dei poveri
(quelli alti) riusciranno a curarsi, mentre ovviamente i Bassi poveri
non solo non riusciranno a curarsi ma saranno più poveri di prima, e
magari non riusciranno più neppure a mangiare.
Questo
sistema folle e ingiusto è quello attualmente in vigore in Italia
per quanto riguarda separazioni e divorzi.
Il
d.d.l. Pillon è un tentativo di ristabilire equità dove finora aveva
regnato l’ingiustizia. Esso deve però essere affiancato da un
provvedimento per l’aiuto economico alle madri separate. Lega e M5S
hanno in programma il reddito di cittadinanza? Ebbene, comincino
intanto con le madri separate.
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