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martedì 1 maggio 2018

Sul concetto di verità (P.Di Remigio)


(Riceviamo da Paolo Di Remigio, e volentieri pubblichiamo, questo articolo, già apparso in "Appello al popolo". M.B.)




Sul concetto di verità

Paolo Di Remigio

Da almeno due secoli, anziché offrire la forma definitiva della conoscenza, la filosofia rassicura che la verità sia inopportuna, e in parte escogita labirinti di pensiero alternativi al percorso logico, in parte la diffama pretendendo di scorgervi il proposito di un atteggiamento totalitario – da una parte una scuola europea legata a una filosofia della storia sempre più esangue rifiuta la verità come superficiale, dall’altra una filosofia nord-atlantica legata a una concezione sempre più oscurantista della scienza la ritiene incompatibile con la democrazia-liberale, che si attiene alla diversità delle opinioni come dato ultimo legittimo.
La verità è il linguaggio umano che si trova in accordo con la realtà – adaequatio rei et intellectus è la splendida definizione scolastica: non soltanto res ma accordo tra la res e l’intellectus. La sua immagine mitica sono i nomi che Adamo assegna alle creature. Il rifiuto della verità è dunque il rifiuto dell’accordo tra soggetto e oggetto: il soggetto può preferire la sua insufficienza e tenersi estraneo l’oggetto. Il soggetto può scegliere il falso.
L’essere una scelta pone la falsità nella sfera dell’etica; le sue forme possono essere ricavate da questa. Tre sono le forme giuridiche dell’illecito: quella per cui si vuole il diritto in generale, ma ci si attribuisce un diritto particolare altrui, l’inganno con cui si lede la sostanza del diritto altrui rispettandone l’apparenza, il delitto che annulla l’essenza e l’apparenza del diritto. A queste tre forme giuridiche corrispondono solo due forme morali – volere il diritto in generale è infatti l’essenza della morale : l’ipocrisia e la coscienza assoluta che trasforma in legge il suo arbitrio[1]. Poiché la verità non dipende soltanto dall’intenzione del soggetto, la falsità ha di nuovo tre forme: l’errore, se senza intenzione si è fuorviati da un’apparenza; la menzogna, se si svia con intenzione, cioè se ci si riserva una verità e si comunica agli altri un’apparenza; l’idealismo soggettivo, quando si squalifica la realtà necessaria rispetto al possibile. Mentre gli errori non chiedono di meglio che di essere corretti e sono anzi un momento della stessa esposizione della verità, la menzogna è il mezzo usuale della strategia manipolativa; molto del disprezzo attuale che si mostra alla verità, l’abitudine a considerarla impotente, è generato dalla rassegnazione o dalla condiscendenza alla menzogna universale che soffoca la modernità: emancipandosi dalla religione medievale disprezzata come impostura dei preti, l’illuminismo ha creato il giornalismo, ossia la comunicazione come merce, che mente programmaticamente per timore di perdere il committente o il cliente. Il vertice estremo del falso, l’idealismo soggettivo, è la sovranità del soggetto che si tiene alla sua idea per evitare la fatica dell’imparare, che dice di preferire il suo percorso di ricerca alla meta della scoperta, che sostituisce il godimento dell’accordo con l’oggetto con il sentimento di onnipotenza suscitato dal cosciente discordare da sé. Il suo principio è il disprezzo della logica.

La logica, come pensiero oggettivo, è l’insieme delle scoperte dell’umanità, l’ambito delle verità ereditate, il compendio di tutti gli accordi già raggiunti tra il soggetto e l’oggetto. Una prima forma di disprezzo della logica è contenuta dunque nel rifiuto della tradizione, nella superstizione del nuovo che cancella il vecchio senza averlo assorbito; questo disprezzo ha sempre in bocca la parola rivoluzione e domina la pedagogia moderna, al punto che le nostre scuole innovative non insegnano l’analisi logica, si estraniano dal pensiero in generale e dalle scienze particolari e si dedicano alle attività, ricreative o lavorative. Un disprezzo della logica più nascosto, e quindi più insidioso, è in ogni empirismo, nel concepirla cioè come tautologia, come soggetto puro che non va oltre la tabula rasa della ripetizione del suo io; già la natura non di semplice pensiero, ma di pensiero oggettivo, ne smentisce invece il carattere tautologico e ne evidenzia la natura sintetica.
Dei tre principi riflessivi, l’empirismo affida il primo, l’identità, A = A, al soggetto, che così si svuota in una tabula rasa; il secondo, la differenza, A ≠ B, alle cose, risparmiandosi così di pensarla e di scorgervi l’identità; per il terzo, la ragione sufficiente, A = B, l’empirismo non ha più spazio: non accorgendosi di aver concepito le differenti impressioni come identiche a se stesse, di aver dunque implicitamente posto nell’esperienza non solo la differenza, ma anche l’identità, Hume dovette escluderne a fortiori il principio di ragione sufficiente (nella forma più concreta della categoria di causalità), nel quale identità e differenza sono esplicitamente poste.
Se la logica è tautologia e le cose una pura differenza, lo stesso atto particolare del conoscere, la formazione di verità particolari propria dell’attività scientifica, si trasforma in un compito insolvibile: come può accordarsi alle cose un soggetto vuoto, dunque privo delle forme logiche in cui l’accordo è già realizzato in generale? Concedendo questa privazione e vantandola come libertà, parte dell’epistemologia del Novecento ha finito col fare della scienza un mito tra gli altri, si è cioè adattata alla barbarie. Poiché le forme logiche non sono intese quali sono, cioè accordi tra soggetto e oggetto, dunque antichi atti d’amore, è accaduto anche che altre correnti di pensiero abbiano scambiato la scienza per una sopraffazione del soggetto a danno dell’oggetto; il suo legame con la tecnica ha permesso di demonizzarla e di scaricare su di essa le responsabilità politiche, così da assolvere Truman dal lancio delle bombe atomiche e il dogma del profitto degli azionisti dalla distruzione dell’ambiente.
La strada della filosofia speculativa è opposta al sospetto nei confronti della logica e della sua particolarizzazione scientifica: scoprendo nella moltitudine delle forme logiche la vicenda in cui l’eros platonico perde il suo oggetto per recuperalo sempre di nuovo, la filosofia speculativa giustifica la loro efficacia applicativa con il loro potere di esprimere il senso della verità.




[1]     G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 140: “Poiché appartiene al progetto dell’agire concreto effettivo, la finalità dell’autocoscienza ha necessariamente un lato positivo; sapendolo enfatizzare come dovere e intenzione eccellente, l’autocoscienza riesce ad affermare come buona per altri e per se stessa l’azione il cui contenuto essenziale negativo è nel contempo in lei che è riflessa dentro di sé e dunque consapevole dell’universale della volontà – per altri, così è l’ipocrisia, per se stessa, così è il vertice ancora più alto della soggettività affermantesi come l’assoluto.”

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