(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Paolo DI Remigio sulle radici storiche dell'attuale situazione coreana M.B.)
LA GUERRA DI COREA
Paolo Di Remigio
I contorni che la stampa
delinea della Corea del Nord compongono un’immagine univoca: uno ‘Stato
canaglia’, cioè uno Stato di troppo, con una popolazione affamata e
disumanizzata da un regime terroristico, che riconosce come guida suprema la
versione orientale dello stereotipo hollywoodiano dell’imperatore Nerone. Che
sia vero, esagerato o falso, questo quadro non dispensa dalla spiegazione
storica; tanto più che i recenti avvenimenti testimoniano con chiarezza una
sorprendente volontà di pacificazione tra le due Coree e atteggiamenti di
inesorabile intransigenza negli esponenti dell’amministrazione statunitense. La
spiegazione di questi fenomeni è ciò che i libri di storia, con un termine che
in realtà ne pregiudica la comprensione, chiamano ‘guerra di Corea’.
La democratizzazione
verificatasi dagli anni ‘90 in Corea del Sud, tra gli altri risultati, ha
consentito di istituire una Commissione coreana per la verità e per la
riconciliazione[1],
i cui lavori, insieme a quelli di una nuova leva di storici sudcoreani,
hanno ricostruito un’immagine della guerra di Corea del tutto differente
rispetto al racconto e alle spiegazioni che gli americani avevano finora
proposto. Nel 1950 questi avevano parlato di un’azione di polizia
internazionale; poi, negli anni ‘60, di guerra limitata; negli anni ‘70-80, di
guerra sconosciuta o dimenticata; negli anni ‘90, con l’accesso ai documenti
dell’ex Unione Sovietica, hanno riproposto la versione dell’espansionismo del
comunismo internazionale. Secondo la ricostruzione storica recente, la guerra
di Corea nasce invece nel contesto dell’imperialismo giapponese in Estremo
Oriente.
Nel 1910 i giapponesi
trasformano in colonialismo il loro protettorato sulla Corea acquisito nel 1905
e con il motto Nae-son-il-chae (letteralmente:
Giappone Corea un corpo) impongono il genocidio culturale dei coreani. Non
tarda a manifestarsi una resistenza coreana al colonialismo giapponese;
duramente repressa dai giapponesi, è costretta a sconfinare in Manciuria; così,
quando nel 1931 i giapponesi la strappano alla Cina creandovi lo Stato
fantoccio del Manciukuò, dell’estesa guerriglia contro l’occupazione giapponese
sono protagonisti non soltanto i cinesi ma anche i coreani guidati da Kim
Il-sung.
Con lo scoppio della
seconda guerra mondiale i giapponesi esasperano il genocidio culturale e
inaugurano uno schiavismo senza ipocrisie: più di due milioni di coreani sono
deportati in Giappone per essere sostituiti ai lavoratori giapponesi arruolati
(è tale la presenza coatta coreana in Giappone che 40.000 delle 140.000 vittime
di Hiroshima e Nagasaki sono coreane), da 50000 a 300000 ragazze
(l’imprecisione del numero è una responsabilità dei governi giapponesi che
rifiutano di aprire gli archivi), per lo più coreane, sono reclutate come
‘donne di conforto’ da stuprare nei bordelli militari al fronte.
Nel ‘45, mentre i
giapponesi si avviano alla sconfitta finale, un esercito sovietico sconfigge le
loro poderose armate in Manciuria, ma si ferma sul confine coreano perché
Stalin accontenta la richiesta giunta dagli Stati Uniti di occupare con le loro
truppe il territorio sotto il 38º parallelo. Prima di allora il 38° parallelo
non è mai stato una frontiera; si tratta dunque di una linea convenzionale che
taglia in due un popolo singolarmente omogeneo per lingua, costumi e vicende
storiche. Gli americani vogliono la divisione perché pensano di fare del
Giappone sconfitto il loro avamposto in Asia e una Corea sotto il loro
controllo è una condizione per la sua sicurezza e il suo sviluppo economico.
Dopo la prima
forzatura di imporre un confine dove non c’era mai stato, gli americani ne
commettono una seconda: mentre i sovietici permettono al popolare Kim
Il-sung, eroe della resistenza anti-giapponese in Manciuria, di arrivare al
governo della Corea del Nord, in quella che è diventata la Corea del Sud gli
americani impongono come capo il feroce anti-comunista Syngman Rhee[2] e lo
circondano di un ceto dirigente formato da coreani ex collaborazionisti
del passato regime giapponese. A questo regime imposto dall’esterno e che
perpetua il colonialismo giapponese, si oppongono nel Sud centri
spontanei di autogoverno: sono le commissioni del popolo, la cui
esistenza, a lungo dimenticata, è riemersa a partire dagli anni ‘90. Non sono
composte solo di comunisti; ci sono però anche comunisti e questo è
sufficiente agli americani per aizzare il governo di Syngman Rhee a una
repressione selvaggia che dal ‘45 al ‘50 provoca almeno 100mila morti[3].
Queste pratiche che gli
americani non solo permettono ma anche praticano, e certo non soltanto in Corea[4], sono una
conseguenza del profondo razzismo di cui gli Stati Uniti sono imbevuti; non è
superfluo ricordare che il loro mito costitutivo, il mito della frontiera,
è un sinonimo di ‘sterminio dei popoli indiani’, che la discriminazione
razziale è sancita dalle legislazioni e completata dalla legge di Linch fino
agli anni ‘60, che in molti loro stati sono proibiti i matrimoni misti, i non
bianchi sono privi del diritto alla proprietà privata e così via. Per
l’esercito americano i coreani, non meno di come lo erano stati i filippini a
inizio secolo, non meno di come lo saranno i vietnamiti nel decennio
successivo, sono gook, “musi gialli”, nemici per natura e a un livello
inferiore di umanità, come i pellerossa, come i neri; non a caso i prigionieri
coreani sono fatti sfilare nudi con le mani sopra la testa; non a caso l’operazione
che dal ‘48 al ‘55 reprime ogni ribellione nel Sud con altre 100000 vittime
porta il nome di Rat-Killer, “Ammazza-ratti”. Peraltro in Corea il
razzismo statunitense riceve quella patina tecnologica che ha ispirato a
qualcuno il termine di ‘tecnoguerra’ e che avrà poi in McNamara il suo soggetto
operativo ideale e nel Vietnam il suo oggetto di applicazione definitivo:
l’istituzione militare è assimilata a una grande azienda che prende decisioni
in base a dati quantitativi, e, confidando sulla superiorità dei suoi
mezzi, pratica una guerra di logoramento: la vittoria arriva quando il numero
dei nemici uccisi supera il numero dei sostituti disponibili. L’assurdità
dell’ipotesi è evidente: presuppone valido il criterio aziendalistico
costi-benefici nell’ambito squisitamente etico del patriottismo; le sue
conseguenze operative sono ancora più evidenti: lo scopo dei combattenti non è
sconfiggere l’esercito nemico, ma uccidere il maggior numero possibile di
nemici per contarne i cadaveri; il body count è l’essenza della
tecnoguerra; e se un intero popolo non indispensabile è dichiarato
nemico, diventa obiettivo militare sterminare un intero popolo[5].
La Corea del Nord inizia la
guerra per tre motivi: non accetta la divisione della nazione in due Stati, né
la prospettiva di una nuova egemonia giapponese, né che i collaboratori dei
colonialisti giapponesi, anziché finire davanti ai plotoni di esecuzione, si
conservino come classe dirigente. Benché la propaganda del tempo abbia
favoleggiato un espansionismo internazionalista sovietico che si sarebbe
servito di diverse marionette comuniste in diverse regioni, la decisione di Kim
Il-sung è presa in modo autonomo (Mosca e Pechino, l’una dissanguata dalla
guerra contro la Germania, l’altra dalla guerra civile, temono di essere
coinvolte negli sviluppi del conflitto e tentano di frenare il leader coreano)
e come tutte le lotte contro l’imperialismo nel secondo Novecento ha un
significato essenzialmente nazionale. Egli sottovaluta però la volontà
imperiale degli statunitensi; poiché fino al ‘49 interi reggimenti coreani
hanno combattuto con i comunisti cinesi nella guerra civile contro Chiang
Kai-shek, Kim conta sugli obblighi di riconoscenza che legano Mao ai comunisti
coreani e pensa che l’alleanza con la Cina sia un deterrente sufficiente a far
desistere gli americani dall’intervento.
Kim non attacca un nemico
pacifico o inerme; negli anni precedenti al 1950 ci sono stati frequenti
sconfinamenti da parte dell’esercito di Rhee, la cui aggressività si spiega non
con il morale dei soldati[6], ma con la
sicurezza dell’appoggio americano. Rientrati in Corea alla fine ‘49 i primi
reggimenti dalla Manciuria e all’inizio del ‘50 il grosso delle truppe,
l’invasione nord coreana inizia tra il 24 e il 25 giugno del ‘50. Alle divisioni
che hanno combattuto in Cina, composte da veterani con un alto grado di
addestramento, le divisioni sudcoreane, accozzate insieme da un governo
fantoccio, non riescono ad opporre resistenza e si disfano. Seul, la capitale
del Sud, vicina al 38º parallelo, è occupata immediatamente; l’avanzata
continua rapida durante l’estate, così che a fine agosto ai sudcoreani e ai
contingenti statunitensi resta soltanto il piccolo ‘perimetro di Pusan’ a
sud-est.
Gli Stati Uniti, dove
influenti circoli imperialistici non attendono altro che un attacco comunista
per completare il loro piano di egemonia mondiale piegando la Cina e l’Unione
Sovietica, approfittano dell’assenza dell’ambasciatore sovietico e ottengono
che il Consiglio di Sicurezza dichiari la Corea del Nord paese aggressore e
autorizzi l’Onu a inviare le sue truppe per respingerla dietro il 38°
parallelo. Quindi l’esercito che sbarca nella Corea del Sud è formalmente un
esercito dell’ONU, di fatto è composto per la maggior parte da americani,
insieme a piccoli contingenti inglesi, francesi, australiani. L’incarico di
contrattaccare è affidato al generale MacArthur, vincitore della guerra contro
il Giappone e ormai suo proconsole.
MacArthur è sprezzante nei
confronti del nemico: dichiara di poter risolvere la questione con un braccio
legato dietro la schiena; poi però chiede sempre nuove divisioni, cosicché,
dopo poche settimane, l’intero esercito americano è schierato in Corea.
Il contrattacco è portato a settembre da Pusan, nell’estremo lembo della Corea
del sud e da Inchon, nei pressi del 38º parallelo dove gli americani sono
sbarcati. I nord coreani non possono fronteggiare la manovra per inferiorità di
mezzi e di uomini e devono ritirarsi a nord subendo perdite spaventose.
Avendo il dominio dei cieli
già a pochi giorni dall’inizio della guerra, gli Stati Uniti possono bombardare
a tappeto la Corea del Nord; i loro B 29 lanciano una quantità di bombe che
supera quelle sul Giappone in tutta la seconda guerra mondiale, e non solo
bombe esplosive ma anche bombe incendiarie, il terrificante napalm,
appena sperimentato nella seconda guerra mondiale. Delle città e dei villaggi
della Corea del Nord restano in piedi solo i camini; sono colpite le dighe
perché siano devastati i campi e distrutti i raccolti. La strage dei civili è
immensa: alla fine della guerra, si conteranno tre milioni di morti, un numero
superiore ai morti giapponesi della seconda guerra mondiale. Per scampare ai
bombardamenti, la popolazione si rifugia in caverne e scava tunnel: questa
attività, proseguita anche dopo il conflitto, fa dell’odierna Corea del Nord
uno stato caserma che vive più sottoterra che sulla superficie.
Arrivati gli americani al
38º parallelo, il mandato dell’Onu sarebbe adempiuto e ciò comporterebbe la
cessazione delle ostilità; invece Truman e il segretario di stato Dean Acheson,
esaltati dalla vittoria, superano il principio del contenimento di Kennan e
passano al roll back: ricacciare indietro il comunismo. Si scatena così
un’offensiva contro il Nord che nei circoli imperialisti deve rappresentare
l’inizio di un’offensiva generale contro l’ultimo ostacolo all’egemonia
mondiale. L’esercito coreano, nel ritirarsi, ha ottenuto però un vantaggio
strategico: è riuscito a separare in due tronconi i nemici; così gli americani,
occupata quasi tutta la Corea del Nord e giunti al confine cinese, sono
diventati vulnerabili. Supplicato da Kim Il-sung, Mao consente a un esercito
cinese di 180mila uomini di unirsi ai resti dell’esercito nordcoreano per un
contrattacco; gli statunitensi sono colti di sorpresa e subiscono gravi
sconfitte, tanto più umilianti in quanto inflitte da popolazioni considerate
inferiori ai loro migliori generali che avevano appena vinto la guerra sul
Pacifico. Lo sgomento è tale che MacArthur pretende che Truman lo autorizzi a
gettare bombe atomiche in Manciuria contro i cinesi; ma dal 1949 gli americani
non hanno più il monopolio della bomba atomica; così il presidente rifiuta e lo
licenzia.
Il contrattacco cinese e
nordcoreano avanza fino al 38º parallelo; qui la guerra di movimento si
trasforma in guerra di posizione. Truman, la cui popolarità è devastata dalla
sconfitta patita in Corea del Nord, rinuncia a ricandidarsi; la Cina, d’altra
parte, non può sostenere il costo di una guerra per riunificare la penisola;
così dalla guerra di posizione si passa alle trattative per l’armistizio che
viene siglato nel 1953. L’armistizio però non è una pace, lo stato di guerra
dura quindi ancora oggi.
Le conseguenze della guerra
sono enormi: per gli americani essa è la prima della serie ininterrotta di
guerre iniziate, trasformate in genocidio ma non vinte; crescono poi a
dismisura negli Stati Uniti le dimensioni economiche e il peso politico del
complesso industriale militare. Se finita la seconda guerra mondiale Truman
aveva smobilitato l’esercito e ridotto di 10 volte il bilancio della marina, se
a detta di Kennan la dottrina del contenimento non implicava l’impegno militare
diretto quanto l’assistenza economica e militare a chi combattesse il
comunismo, con la sconfitta in Corea, il bilancio della difesa si moltiplica
senza misura e gli Stati Uniti diventano uno Stato in cui l’apparato militare e
di sicurezza ha un’egemonia completa sulla società, rendendola molto diversa da
come i suoi fondatori l’avevano immaginata e molto simile a quella che
osserviamo oggi. Della differenza si accorge addirittura il successivo
presidente degli Stati Uniti Eisenhower, non a caso un generale: pur avendo
permesso durante i suoi 8 anni di mandato l’aumento della misura e
dell’importanza del complesso militare industriale, nel momento di congedarsi,
nel suo discorso finale, egli sottolinea la pericolosità di questa situazione
per la democrazia americana. Un’ultima conseguenza è l’ondata di paranoia
anticomunista. Essa è iniziata già nel ‘49, dopo che i sovietici hanno
sperimentato, con successo, la loro bomba atomica e Mao ha proclamato la
Repubblica Popolare Cinese; ma è la sconfitta in Corea a rendere onnipotente un
personaggio allucinato come il senatore McCarthy che vede comunisti ovunque e
che con la sua Commissione per le attività antiamericane colpisce gli individui
sospetti dell’amministrazione pubblica, del mondo politico e del mondo dello
spettacolo.
In Asia le conseguenze sono
altrettanto importanti: in Giappone, che negli anni della guerra di Corea funge
da base logistica delle operazioni, affluiscono una quantità enorme di
finanziamenti dagli Stati Uniti che avviano un processo rapidissimo di
rinascita economica. La Corea del Sud resta sotto il giogo dei dittatori; essi
però vi avviano uno sviluppo economico che negli anni ‘80 diventerà dirompente.
La Corea del Nord diventa l’attuale stato caserma ossessionato dalla volontà di
punire gli americani e di riunificare la nazione.
[1] Per la Commissione e le sue attività cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Truth_and_Reconciliation_Commission_(South_Korea)
.
[2] Per una biografia non troppo addolcita del
personaggio cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Syngman_Rhee
.
[3] Per la repressione della rivolta nell’isola
di Jeju cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Jeju_uprising
. Nella sola isola di Jeju la Commissione per la verità e la riconciliazione
“ha documentato 14.373 vittime, l’86% per mano delle forze di sicurezza e il
14% per mano dei ribelli armati, e ha stimato che il numero totale dei morti
ammonta a circa 30.000. Circa il 70 % dei 230 villaggi dell’isola furono
completamente bruciati e furono distrutte più di 39.000 case. Dei 400 villaggi
esistenti prima della rivolta ne restarono solo 170.”
[4] La cosiddetta teoria del totalitarismo
poggia sulla convinzione che, a differenza del nazismo e del comunismo, il
‘mondo libero’, quello della società aperta e democratica in virtù del libero
mercato, sia estraneo all’orrore; eppure la voce del secondo novecento è
accompagnata dal sinistro contrappunto dei genocidi che l’impero americano ha
avviato in Corea.
[5] Cfr. il secondo capitolo dello sconvolgente libro di Nick Turse, Kill anything that moves. The real American war in
Vietnam. Picador USA 2014.
Nessun commento:
Posta un commento