venerdì 30 marzo 2018

L’eredità del 10 febbraio 1947 (P. Di Remigio)


(Riceviamo da Paolo Di Remigio, e volentieri pubblichiamo, questo articolo che appare anche su "Appello al popolo").




L’eredità del 10 febbraio 1947

Paolo Di Remigio


Non sappiamo se il nuovo Parlamento sarà in grado di esprimere e sostenere un governo. Non sappiamo neanche se l’eventuale governo sarà in grado di incontrare l’aspettativa generale di uscire dal degrado economico e culturale a cui vent’anni di dittatura mondialista ci hanno condannato. In ogni caso le ultime elezioni hanno avuto un risultato esplicito: il ceto politico che ha rovinato l’Italia per conto del potere mondialista ha perso per sempre la fiducia degli italiani.
Di cosa abbia bisogno l’Italia non è affatto chiaro, perché spesso manca la consapevolezza della posizione dell’Italia nel mondo. Si tratta di un fatto troppo banale per essere percepito e diventare presupposto di ogni considerazione politica: l’Italia in cui siamo nati e vissuti è basata sì sulla Costituzione del 1948, ma anche sul Trattato di pace del 10 febbraio 1947; e tra i due documenti è aperto il più amaro contrasto. Per la Costituzione del ‘48 siamo infatti un popolo sovrano, per il Trattato di pace del ‘47 siamo una nazione sconfitta, colpevole, senza forze armate, senza politica estera, senza controllo del territorio, senza magistratura indipendente. Una nazione indotta a dividersi in partiti inesorabilmente ostili, che si appoggiano a potenze straniere e si nutrono di esterofilia.
Evitata la ruralizzazione dell’Italia nei disegni della Gran Bretagna, i nostri padri hanno con tenacia riconquistato l’emancipazione economica, ma non quella quella politica e culturale. È stato dunque fatale che alla prima svolta storica finissimo nelle mani di un ceto politico e culturale così supino agli interessi stranieri da lasciar distruggere la stessa emancipazione economica.
Negli anni ‘80 l’agonia dell’URSS, anziché condurre a un ripensamento dell’essenza della guerra fredda, a un riesame dell’ossessione anticomunista – come le recenti vicende internazionali dimostrano: non un confronto del bene con il male, ma una strategia per vincolare i vassalli al carro anglosassone –, esasperò questa ossessione in un delirio. Ci fu allora chi squalificò la Resistenza come un fenomeno marginale e inopportuno, chi sostenne l’equivalenza tra repubblichini e partigiani; si dimenticò che la giustificazione più nobile che i “ragazzi di Salò” avevano saputo dare alla loro scelta consisteva nel desiderio di non tradire l’alleanza con i tedeschi, dunque in un’adesione alla “Neue Ordnung” per cui l’Italia sarebbe stata schiacciata nei ranghi inferiori del Reich millenario germanico; si sorvolò sul fatto che con la Resistenza partigiana l’Italia acquisì almeno l’esigenza di sovranità rispetto alle potenze occupanti. Enrico Mattei, partigiano ed eroe dell’emancipazione economica dell’Italia, è il simbolo di questa esigenza. Negli anni ‘80 un ceto politico e intellettuale che ossessionato dall’anticomunismo si era lasciato irregimentare nell’esercito combattente per il ‘Manifest destiny” non poté trattenersi dall’insultare chi aveva preferito reagire all’invasione. Il disprezzo della Resistenza si estese alla Costituzione elaborata dai partiti del CLN e alla sovranità che essa comportava. Non fu un nuovo inizio; la seconda Repubblica che disprezzò il documento del 1 gennaio 1948, si illuse di essersi inserita nel nuovo ordine mondiale in una posizione di forza, quella di membro della UE, ma in effetti era regredita al Trattato del 10 febbraio 1947. A proposito del quale Benedetto Croce, nel suo discorso alla Costituente, paventò: “E non vi dirò che … le generazioni future dell’Italia … ci terranno responsabili ... di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso”[1].


[1]          Intervento all’Assemblea Costituente durante la discussione sulla ratifica del trattato di pace. Consultabile al seguente indirizzo: http://www.camera.it/_dati/Costituente/Lavori/Assemblea/sed200/sed200.pdf

sabato 10 marzo 2018

La guerra di Corea (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Paolo DI Remigio sulle radici storiche dell'attuale situazione coreana M.B.) 






LA GUERRA DI COREA
Paolo Di Remigio

I contorni che la stampa delinea della Corea del Nord compongono un’immagine univoca: uno ‘Stato canaglia’, cioè uno Stato di troppo, con una popolazione affamata e disumanizzata da un regime terroristico, che riconosce come guida suprema la versione orientale dello stereotipo hollywoodiano dell’imperatore Nerone. Che sia vero, esagerato o falso, questo quadro non dispensa dalla spiegazione storica; tanto più che i recenti avvenimenti testimoniano con chiarezza una sorprendente volontà di pacificazione tra le due Coree e atteggiamenti di inesorabile intransigenza negli esponenti dell’amministrazione statunitense. La spiegazione di questi fenomeni è ciò che i libri di storia, con un termine che in realtà ne pregiudica la comprensione, chiamano ‘guerra di Corea’.
La democratizzazione verificatasi dagli anni ‘90 in Corea del Sud, tra gli altri risultati, ha consentito di istituire una Commissione coreana per la verità e per la riconciliazione[1], i cui lavori, insieme a quelli di una nuova leva di storici sudcoreani, hanno ricostruito un’immagine della guerra di Corea del tutto differente rispetto al racconto e alle spiegazioni che gli americani avevano finora proposto. Nel 1950 questi avevano parlato di un’azione di polizia internazionale; poi, negli anni ‘60, di guerra limitata; negli anni ‘70-80, di guerra sconosciuta o dimenticata; negli anni ‘90, con l’accesso ai documenti dell’ex Unione Sovietica, hanno riproposto la versione dell’espansionismo del comunismo internazionale. Secondo la ricostruzione storica recente, la guerra di Corea nasce invece nel contesto dell’imperialismo giapponese in Estremo Oriente.
Nel 1910 i giapponesi trasformano in colonialismo il loro protettorato sulla Corea acquisito nel 1905 e con il motto Nae-son-il-chae (letteralmente: Giappone Corea un corpo) impongono il genocidio culturale dei coreani. Non tarda a manifestarsi una resistenza coreana al colonialismo giapponese; duramente repressa dai giapponesi, è costretta a sconfinare in Manciuria; così, quando nel 1931 i giapponesi la strappano alla Cina creandovi lo Stato fantoccio del Manciukuò, dell’estesa guerriglia contro l’occupazione giapponese sono protagonisti non soltanto i cinesi ma anche i coreani guidati da Kim Il-sung.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale i giapponesi esasperano il genocidio culturale e inaugurano uno schiavismo senza ipocrisie: più di due milioni di coreani sono deportati in Giappone per essere sostituiti ai lavoratori giapponesi arruolati (è tale la presenza coatta coreana in Giappone che 40.000 delle 140.000 vittime di Hiroshima e Nagasaki sono coreane), da 50000 a 300000 ragazze (l’imprecisione del numero è una responsabilità dei governi giapponesi che rifiutano di aprire gli archivi), per lo più coreane, sono reclutate come ‘donne di conforto’ da stuprare nei bordelli militari al fronte.

martedì 6 marzo 2018

lunedì 5 marzo 2018

Un filo di razionalità

Non c'era molto da aspettarsi da queste elezioni, però quel poco che si poteva sperare in effetti è accaduto davvero: il PD ha ricevuto una sonora batosta, la sinistra in generale è ridotta a poca cosa. Questo è un dato positivo, forse l'unico di queste elezioni. Non tanto per quello che adesso potrà succedere (su questo non mi azzardo a fare previsioni) quanto perché la disintegrazione della sinistra sembra indicare che sta emergendo negli elettori un filo di razionalità. Ovvero, se per decenni continui a massacrare la tua base sociale, non puoi sperare che continuino in eterno a votarti. C'è voluto un sacco di tempo, la base sociale popolare della sinistra ha dimostrato davvero una pazienza infinita, ma adesso finalmente i ceti politici della sinistra stanno ricevendo il giusto compenso per le politiche antipopolari da essi perseguite per decenni.
Un discorso diverso va fatto, ovviamente, per "Potere al popolo", che rappresenta piuttosto l'ennesima dimostrazione dell'assoluta incapacità della sinistra radicale di uscire dal proprio ghetto. Si tratta di realtà (partitini, centri sociali e cose simili) che hanno fatto della marginalità e dell'irrilevanza una scelta di vita, e meritatamente ottengono ciò a cui aspirano.
Alla fine ognuna delle varie anime della sinistra riceve ciò che merita. Requiescant.