(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio, che appare anche su "Appello al popolo". M.B.)
LA MORALITÀ NELLA GUERRA
Paolo Di Remigio
Paolo Di Remigio
Viviamo una fase storica di pericolosa intensità ma da una
posizione periferica; ancora incapaci di fare storia, dobbiamo almeno
riscattarci con lo sforzo di osservarne il movimento dal punto di vista della
migliore tradizione europea. L’egemonia anglosassone, fondata su una forza
militare inaudita, sul potere di emettere a volontà la moneta di riserva
internazionale, sul controllo delle risorse energetiche mondiali, sembra andare
verso la crisi; la Cina e la Russia sembrano in grado di scoraggiarne l’illimitata
aggressività, costruiscono un sistema monetario alternativo e dispongono di un
accesso autonomo alle risorse energetiche; esse stanno costituendo un’alleanza
mondiale eterogenea, senza prospettive millenaristiche, al solo scopo di
porsi fuori dalla portata delle armi brandite dagli Stati Uniti, realizzando
quell’indipendenza dall’impero che altri tentarono senza riuscirvi per
debolezza militare.
Tanto più asfissianti diventano, con la decadenza
dell’egemonia anglosassone, i vapori della sua ideologia sugli Stati vassalli.
Si tratta di un’ideologia imperiale, fondata dunque su un universalismo
e su un pacifismo entrambi contraddittori: a differenza dell’universalismo
autentico, che è un nesso cooperativo delle nazioni nella loro sovranità,
l’universalismo imperiale contiene l’affermazione di un primato di una
nazione sulle altre, l’idea che una sola nazione sia necessaria; il pacifismo
imperiale contiene il facile ricorso a una violenza illimitata che non è
guerra, ma operazione internazionale di polizia decisa a livello di
esecutivo.
L’ideologia dell’impero anglosassone che pervade i mezzi di
comunicazione, la scuola e la cosiddetta cultura comporta una condanna senza
processo delle nozioni di Stato sovrano e di guerra; esse sono trattate come
residui di un passato tenebroso, un’eredità del fascismo, da cui ci si è
staccati per entrare in un presente radioso e ridondante di speranze. Quanto
però al presente, mai come ora gli Stati Uniti accarezzano la tentazione di
incenerire la maggior parte degli uomini in un’orrenda ecatombe nucleare; mai
come ora i diritti a cui è legata la dignità della persona – la famiglia, il
lavoro, la proprietà – sono negati e addirittura diffamati: la prima
dall’enfasi sulla volubilità del desiderio, il secondo dalla precarietà e dalla
disoccupazione, la terza dall’onnipotenza delle banche too big to fail.
La confutazione che i fatti oppongono all’ideologia imperiale induce a
un’indagine per riscoprire in cosa consista la nozione di sovranità –
un’indagine radicale che non tema di affrontare il suo legame con il
fenomeno della guerra.
Esporremo il concetto di sovranità attraverso la lettura dei
§§ 321, 322, 323, 324 dei “Lineamenti dei filosofia del diritto” di Hegel[1].
La sovranità è l’indipendenza di uno Stato. Hegel distingue
tra sovranità rispetto all’interno e sovranità rispetto all’esterno;
mentre questa è l’indipendenza da altri Stati, quella è l’indipendenza dello
Stato dalla particolarità delle persone che ne sono membri; è dunque assurdo
confonderla con il dispotismo, o con il fascismo; è vero il contrario:
sovranità interna dello Stato significa che nessuno esercita il potere pubblico
a titolo privato, ma solo in quanto vi è autorizzato dalle leggi e secondo le
leggi. Scrive Hegel nel § 321:
La
sovranità rispetto all’interno è questa idealità [del tutto] in quanto i
momenti dello spirito e della sua effettività, cioè dello Stato, sono sviluppati
nella loro necessità e sussistono come suoi membri.
Idealità è sinonimo di dipendenza
dell’accidente dalla sostanziale: i momenti dello Stato, ossia la famiglia con
i suoi componenti, la società civile con le sue persone, le stesse istituzioni
politiche e le loro autorità, si sviluppano e si danno esistenza autonoma; ma
in questa autonomia non diventano indipendenti e addirittura ostili, restano membri
di un’unità. L’unità che ritorna in sé dal dividersi in momenti autonomi è il
significato proprio di spirito. Poiché l’ideologia imperiale fa spesso
riferimento all’ideale popperiano della società aperta, e questo ideale
è usato in senso antistatale, è opportuno osservare che lo Stato, e soltanto lo
Stato, è società aperta: nella divisione dei suoi momenti e nel loro
costituirsi in autonomia, nel fatto dunque che lo Stato non sia una grande
famiglia o una tribù stretta da legami di sangue, ma un insieme di cittadini
che sono anche persone autonome con una dimensione privata fuori dalla
competenza pubblica, lo Stato si manifesta come aperto; nel fatto che
l’autonomia dei momenti è ideale, cioè che i momenti tutti restano
membri di una unità, lo Stato si manifesta come società, come comunità
solidale. Affermare un’apertura della società contro la sovranità
statale significa dunque ignorare ciò di cui si parla: la persona ha ottenuto
l’autonomia della sfera privata, in cui consiste la società aperta, attraverso
l’evoluzione dello Stato, con l’affermazione moderna della sovranità interna
contro il potere paternalistico che caratterizzava le sue forme primitive[2].
Ma
lo spirito, essendo nella libertà riferimento a sé infinitamente negativo,
è anche essenzialmente essere-per-sé, che ha consumato dentro di sé
la differenza sussistente, ed è quindi escludente.
Riferimento a sé infinitamente negativo è
un’espressione che deriva dalla forma logica della doppia negazione. La
negazione finita del qualcosa è il suo altro, dunque il riferimento
positivo del qualcosa all’altro, da cui viene a dipendere; la negazione infinita
è la negazione seconda, diretta contro il riferimento positivo all’altro. La
negazione del riferimento all’altro (il consumare dentro di sé la
differenza sussistente) equivale ad escluderlo; l’esclusione dell’altro è
l’essere-per-sé, forma elementare della libertà: ciò che è libero
esclude l’altro e la dipendenza da altro. In altri termini, poiché l’altro è la
negazione prima, l’esclusione dell’altro è negazione della negazione, non
negazione prima, finita, ma negazione seconda, infinita, propria di tutto ciò
che, come essere-per-sé, ha libera individualità. Lo spirito (di cui lo Stato è
la forma effettiva) è essenzialmente negazione della negazione: si nega
dividendosi nei suoi momenti finiti, e torna a negare questa sua negazione
prima rendendo ideali i momenti finiti; il suo essere non è dunque né
semplicemente positivo, né un essere in riferimento ad altro, ma essere-per-sé,
un essere esclusivo, un riferirsi a sé tramite la negazione seconda, infinita,
dell’altro.
In
questa determinazione [come essere-per-sé] lo Stato ha individualità;
l’individualità è essenzialmente come individuo e nel sovrano è come individuo
effettivo, immediato.
L’essere che si riferisce a sé mediante negazione del
riferimento ad altro è l’essere individuale. In quanto negandosi una prima
volta si divide, ma questa divisione non scade in separazione perché è a sua
volta negata e dunque tenuta in unità, lo Stato è una individualità,
ossia è un individuo immediato rappresentato dal sovrano.
§
322 Come essere-per-sé escludente,
l’individualità si manifesta come rapporto con altri Stati, ciascuno dei
quali è indipendente dagli altri.
Nella Scienza della logica Hegel ha mostrato che
l’individuo, escludendo ogni essere, esclude anche il proprio essere. Per
questa negazione di sé, l’individuo è la repulsione in una moltitudine
di individualità. I molti sono l’individualità nella forma dell’esistenza
esterna. Lo Stato, che per la sua sovranità interna è individuo, esiste
esternamente come un rapporto tra Stati sovrani. Viceversa, la mancanza di
sovranità all’interno, il fatto che il dividersi dello Stato nelle sue
articolazioni non è negato e trattenuto nell’unità, ma si degrada nella
separazione, è anche incapacità di sostenere la sovranità esterna, la rinuncia
all’indipendenza.
Poiché
l’essere-per-sé dello spirito effettivo vi ha il suo esistere, questa
indipendenza è la prima libertà e l’onore supremo di un popolo.
La sovranità dello Stato (l’essere-per-sé dello spirito
effettivo) non è l’unica libertà di un popolo, ma è quella alla base delle
altre: senza di essa la libertà della persona, i diritti, la democrazia
diventano esigenze soggettive senza realtà effettiva; l’indipendenza dello
Stato è dunque l’onore supremo di un popolo; onore è infatti l’anteporre
la libertà ad ogni cosa, il preferire il pericolo mortale al rinunciarvi.
Nella nota Hegel prosegue:
Della
natura di una collettività e del sentimento di sé che un popolo ha nella sua
indipendenza sa poco chi, a una collettività che costituisce uno Stato più o
meno indipendente e ha un centro, attribuisce il desiderio di perdere questo
centro e la sua indipendenza, per costituire un tutto con un altro.
Una collettività è costituita come Stato se ciascuno sente
la propria indipendenza fondata su una volontà generale stabile.
Quell’indipendenza è il momento consapevole dell’appartenenza allo Stato, la
volontà generale è invece sedimentata dalla storia e dalla geografia come
costume e linguaggio comune, ed è una seconda natura, più determinante della
prima, che nella sua stabilità non è oggetto di scelta: la familiarità con un
costume significa l’estraneità ad altri costumi, parlare la propria lingua
implica il parlare male le altre. Poiché costume e linguaggio non sono scelti,
ma sono seconda natura, e la loro assimilazione costituisce la condizione di
accesso ad altri costumi e ad altri linguaggi, la fusione tra collettività
indipendenti, non una semplice alleanza, poiché implica la degradazione
dell’intimità della seconda natura a semplice stereotipo esterno, quindi lo
svuotamento dell’identità dell’individuo, può essere imposta solo a quelle
collettività cui una sconfitta catastrofica ha insinuato la disistima della
propria particolarità. L’unione degli Stati europei è un effetto della seconda
guerra mondiale: ciò vale non solo per la Germania e per l’Italia, entrambe
sconfitte, ma anche per la Francia, che non ebbe la volontà di contrastare fino
in fondo l’occupazione tedesca e aspettò che fossero altri a liberarla; in
senso opposto ciò vale anche per la Gran Bretagna, vincitrice del conflitto,
per la quale la fusione nell’Unione Europea non è stata mai all’ordine del
giorno e che vi ha partecipato in vista del suo interesse nazionale. Talmente
forte è il senso dell’onore nazionale di cui Hegel parla che la stessa Unione
Europea, nata come zerbino dell’impero americano, non ha potuto fare a meno di
accreditarsi davanti ai sudditi spacciandosi per il proprio contrario: anziché
come triste tramonto degli Stati europei, come affermazione di indipendenza
contro l’Unione Sovietica prima, poi addirittura contro l’impero americano,
infine, caduta ogni illusione con la guerra iugoslava, contro la Cina e le
tempeste del mondo globalizzato.
Il
primo potere in cui gli Stati si presentano nella storia è dunque
quest’indipendenza generica, quantunque del tutto astratta e senza ulteriore
sviluppo; da questo dato originario dipende perciò che al loro vertice ci sia
un individuo, un patriarca, un capostipite ecc.
È l’indipendenza collettiva ad essere originaria rispetto
all’indipendenza del singolo; la prima sovranità è quella esterna; quella
interna, per cui l’individuo obbedisce a leggi e istituzioni anziché a volontà
particolari, è risultato dello sviluppo millenario dell’altra.
§
323 Nell’esistere questo
riferimento negativo a sé dello Stato appare così come riferimento di un
altro a un altro e come se il negativo fosse un esterno.
L’esistenza di questo riferimento negativo ha perciò la forma di un’eventualità
e del coinvolgimento in avvenimenti casuali che vengono dall’esterno.
Lo Stato è individuo universale che emerge dalla negazione
della sua particolarità: esso la lascia sviluppare, ma nel contempo ne è la
sostanza rispetto alla quale la particolarità è come accidente. Per questa sua
sovranità interna, come si è visto sopra, l’essere dello Stato è negatività
infinita, essere-per-sé (riferimento negativo a sé), individualità.
Essendo individuo, entra nell’esistere, cioè nel rapporto escludente con
altri Stati; ma nell’esteriorità dell’esistere il riferimento negativo a sé,
che è immanente allo Stato ed è sinonimo del suo libero essere-per-sé, appare
esso stesso esteriore. Sembrerebbe così un caso dovuto alla malignità
particolare dei governanti o dei popoli che gli Stati abbiano tra loro un
riferimento negativo (l’esclusione o addirittura l’ostilità); così però non è:
l’esclusione è il manifestarsi del libero essere-per-sé e può essere
evitata soltanto con la rinuncia alla libertà. Se anche fosse vero che
l’Unione Europea ha dato agli europei la pace, è certamente vero che gli
europei, come Glauco che scambiò le sue armi d’oro con le armi di bronzo di
Diomede, l’hanno pagata molto più del
suo valore.
Esso
(il riferimento negativo a sé) è invece il momento supremo suo proprio,
- la sua infinità effettiva come idealità di ogni finito al suo interno, - il
lato in cui la sostanza, essendo la potenza assoluta contro ogni singolo e ogni
particolare, contro la vita, la proprietà e i suoi diritti, come pure contro
gli ambiti ulteriori, fa emergere la loro nullità nell’esistere e nella
coscienza.
Lo Stato non è un contratto casuale tra persone indifferenti
in vista del proprio vantaggio esteriore; anzi, non esiste Stato se i singoli,
in virtù dell’intimità del costume e del linguaggio in cui si sostanzia la loro
identità, non sono disposti a sacrificare la propria particolarità, la
proprietà e in definitiva la stessa vita. Questa negatività dello Stato
rispetto alla particolarità dei singoli resta implicita nell’ambito
della sovranità rispetto all’interno. Che nell’ambito del rapporto tra gli
Stati, ciò che è interno si manifesti esternamente, dunque entri in commistione
con la casualità, non implica che la negazione della sfera particolare
nell’ambito della sovranità esterna sia un semplice evento casuale. Lo Stato è
idealità dei suoi momenti finiti, cioè negazione virtuale della particolarità
degli individui; nel rapporto tra gli Stati la negazione diventa, da virtuale,
reale, cioè posta come esistente per la coscienza.
Lo stesso nesso appare in negativo nel legame tra anarchismo
e pacifismo: il rifiuto di accettare il carattere infinito (negazione seconda)
della libertà, ossia l’illusione che si possa essere buoni per natura e non
negando la negazione, cioè la naturalità immediata, è anche l’illusione che la
libertà altrui sia innocua, che dunque, rimossi i casi di cattiveria, non ci
sia nulla da cui occorra difendere la libertà anche sacrificando la propria
vita. L’incapacità di percepire quanto sia severa la libertà è anche la base
della degenerazione dell’attuale discorso politico, tanto reticente
sull’essenziale quanto diffuso sulla difesa della volubilità del desiderio. Sottomessa
a un impero che finora ha conosciuto il pericolo soltanto come un inconveniente
da risolvere tecnologicamente come in un videogioco, anziché come condizione di
superamento dell’animalità dell’uomo, la cultura occidentale ha perso l’onore e
insieme la capacità di vergognarsi.
§
324 Questa determinazione con cui
l’interesse e il diritto del singolo sono posti come un momento evanescente è
nel contempo il positivo della sua individualità non casuale e volubile,
ma essente in sé e per sé.
La soppressione della singolarità nella sua particolarità
non ha soltanto un significato negativo, è anzi, come negazione di una
negazione, affermare la libertà essenziale del singolo: la sua universalità
effettiva che la morale kantiana invano cerca di fissare come volontà della
forma pura. Dare a Cesare quello che è di Cesare è così il modo effettivo di
dare a Dio quello che è di Dio.
Questo
rapporto e il riconoscerlo sono dunque il dovere sostanziale dell’individualità
– il dovere di conservare questa individualità sostanziale, l’indipendenza e la
sovranità dello Stato, attraverso il pericolo e il sacrificio della proprietà e
della vita, tanto più dell’opinare e di tutto ciò che è compreso nell’ambito
della vita.
Poiché l’uomo è sostanziale come cittadino, il suo dovere
supremo è la conservazione del fondamento della sua sostanzialità. Sarebbe però
erroneo leggere queste pagine come se la guerra fosse lo stato essenziale
dell’umanità, come se gli Stati e i partiti bellicosi fossero più autentici
degli Stati e dei partiti pacifici; non si tratta di valutare cosa sia più
essenziale, chi sia più autentico; si tratta invece di riconoscere che pace e
guerra sono interni alla libertà, dunque all’essere dell’uomo, e che la
dimenticanza di sé in favore dell’universale, in cui consiste la moralità,
trova la sua espressione più inequivocabile nel pericolo implicato dalla difesa
dello Stato. In questo la guerra assume un significato morale.
[1] La traduzione è nostra; il lettore può
agevolmente controllarla con l’originale o con altra traduzione per mezzo del
numero di paragrafo.
[2] All’errore di credere che la sovranità,
anziché processo per cui un’unica volontà riconosciuta scaturisce
dall’idealità di diversi poteri, sia il dispotismo di un capo o di un
partito, contribuisce non poco la nota definizione di Carl Schmitt, per cui
sovrano sarebbe chi decide nello stato d’eccezione; è evidente però
l’insensatezza di questa definizione: lo stato di eccezione è proprio quello in
cui non c’è la volontà generale che permette la decisione politica, ed è dunque
dominio della violenza e della casualità: lo stato d’eccezione è quello in cui
manca la possibilità della decisione sovrana.
Nessun commento:
Posta un commento