(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo. M.B.)
Il Fronte Sovranista Italiano e la
scuola pubblica italiana
(Paolo Di Remigio)
1. Ciò che
resta della scuola pubblica è uno dei risultati del programma di trasformazione
sociale perseguito con lungimirante tenacia e studiata lentezza dalle
oligarchie liberali anglosassoni: a partire dagli anni '80, esse hanno riavviato la guerra
fredda contro l'URSS e in un decennio l'hanno spinta al tracollo; poi hanno
imposto in tutto il mondo le liberalizzazioni,
cioè l'abolizione delle leggi (lacci e laccioli) che frenavano l'iniziativa economica, e le privatizzazioni, cioè l'acquisizione dei beni pubblici da
parte dei monopolisti privati. L'emarginazione dello Stato dall'economia che ha reso onnipotenti le
grandi concentrazioni capitalistiche transnazionali è indicata con il nome
asettico di globalizzazione. Soppresse
le regole con cui gli Stati regolavano il mercato così da attutirne le
asimmetrie e le disfunzioni, i capitali si sono precipitati dove il costo del
lavoro era più basso; chiuse le aziende in Occidente e riaperte in Oriente,
incoraggiata l'immigrazione dei lavoratori dal Meridione, i lavoratori relativamente
garantiti in Occidente sono stati esposti alla concorrenza di quelli non
garantiti in Oriente; la disoccupazione montante cancellando la loro forza
contrattuale li ha condannati alla precarietà e al pauperismo.
In Europa
artefici della globalizzazione sono state le burocrazie della UE. Nel documento
del Fronte Sovranista Italiano dedicato alla scuola[1]
è riportata una dichiarazione della
Commissione Europea secondo cui «la UE si trova di fronte a una svolta
formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a un'economia fondata sulla conoscenza». Si
noti come la globalizzazione appaia qui non come un programma di un soggetto
politico, non come storia, ma come una
fase storico-filosofica, a cui non
resta che adeguarsi. Si noti ancora l'oscurità del carattere della nuova
fase: ‘economia fondata sulla conoscenza’. In realtà l'economia è sempre fondata sulla conoscenza: in ogni caso raccogliere,
cacciare, produrre consistono nell'applicare tecniche e le tecniche
implicano la disponibilità di conoscenze. Il contesto della delocalizzazione produttiva
suggerisce il significato nascosto di questa espressione impropria: poiché la
tecnica si divide in una fase ideativa e in una applicativa, in un sapere e in
un fare, l'espressione rivela l'intenzione di mantenere in Occidente il sapere e di dislocare in Oriente il fare.
La frase
successiva, per cui l'Europa deve diventare «l’economia della conoscenza più competitiva
e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura», intesa in
riferimento esterno al mondo, oltre a
denunciare la velleità imperialistica della UE, le attribuisce la volontà di un'asimmetria anziché l'obiettivo dell'equilibrio generale; ma l'asimmetria economica, lungi dal poter
consentire la desiderata crescita duratura, induce le amarissime crisi. Intesa
in riferimento interno, la frase annuncia
la volontà di scatenare una concorrenza tra i lavoratori che producono conoscenza,
per abbassare i costi delle loro retribuzioni, così da aumentare i profitti. La
scuola deve provvedere al capillare
assoggettamento al capitale dei lavoratori della conoscenza, così da
perfezionare la proletarizzazione del ceto medio di cui sono parte.
Applicata
alla scuola, la retorica dell’economia della conoscenza provoca però una
contraddizione non meno grave dell'attendersi la crescita duratura dall'intensificazione della competitività.
La scuola funzionale all'economia della conoscenza dovrebbe essere più licealizzata e meno professionalizzante,
orientarsi, anziché all'applicazione particolare, alla teoria generale; è il generale
infatti, in virtù della sua astrazione dal particolare, ad essere flessibile e
applicabile ai più differenti ambiti empirici; dunque più grammatica per
facilitare l'apprendimento delle lingue e procurare agilità logica, più matematica per
sviluppare le capacità di astrazione e di rigore dimostrativo, più storia per
sviluppare il senso della complessità, più filosofia per sviluppare il senso
critico.
Nulla di
tutto ciò. Ignorando il significato di ciò che dichiara, la Commissione europea
pretende che il ruolo della scuola sia quello di «dare la priorità allo
sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento
dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro (CEE 1997)». Una pretesa contraddittoria:
se il mercato del lavoro si evolve, se ogni tecnica particolare diventa subito
obsoleta ed è sostituita da un'altra tecnica particolare, è necessario insegnare meno tecniche particolari
professionalizzanti condannate all'effimero, e più principi generali che restano stabili nell'evolversi della tecnologia: meno tornio,
meno fresa, più matematica, più fisica, meno competenze concrete (professionali
e sociali), più competenze universali,
valide cioè in ogni situazione.
La UE vuole
intelligenze flessibili, cioè universali, ma vuole educare i giovani europei
irrigidendoli al particolare. La confusione aumenta al summit di Lisbona del marzo
2000. Racconta il documento FSI che vi «si invocano competenze di base relative
alla tecnologia dell'informazione, alla comunicazione nella lingua madre e nelle
lingue straniere, e una cultura tecnologica, allo spirito d'impresa e alle attitudini sociali e
si precisa che non si tratta di discipline come le abbiamo conosciute a scuola,
bensì di ‘vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari’».
L'idea, in verità piuttosto
totalitaria, è che ogni alunno deve diventare un imprenditore. Di quale forza
lavoro? È ovvio: di quella del terzo mondo in cui è emigrato il fare. Ma è un
errore credere che le capacità interdisciplinari possano essere conseguite prima e indipendentemente dalle capacità disciplinari, che in didattica la
sintesi possa precedere le analisi. Saltare gli aridi elementi iniziali per affrettarsi
al rigoglioso risultato definisce l'impazienza che impedisce l'apprendimento autentico e genera il
dilettantismo improduttivo e imitativo.
Questo
mettere il carro davanti ai buoi, questo volere
il fine ultimo rifiutando i fini intermedi che ne sono i mezzi indispensabili manifesta il liberalismo dilettantesco
di ogni riforma della scuola ispirata dalla UE – un po' come la stessa UE che impone alle
economie europee il fine ultimo dell'unione monetaria prima del fine
intermedio della loro convergenza, provocandone proprio per questo una
disastrosa divergenza: nell'uno e nell'altro caso si è di fronte a dilettanti che mettono a
repentaglio tutto ciò che toccano con le loro manacce maldestre. Si vogliono
gli obiettivi tipici dell'educazione superiore: adattabilità, flessibilità, formazione
permanente (chi aveva studiato nel liceo classico di una volta frequentava con
successo ingegneria non meno di chi aveva studiato all'istituto tecnico – perché sapeva
studiare), si raccomanda il mezzo loro contrario della professionalizzazione,
che induce rigidità, esecutività, refrattarietà alla formazione continua.
Dietro questa
contraddizione si agitano più pensieri latenti. C'è innanzitutto la grettezza del
liberalismo come ideologia del grande capitale che rifugge dagli investimenti a lungo e a lunghissimo termine, perché ai
loro pericoli preferisce i facili
guadagni di borsa o quelli sicuri di monopolio. La formazione teorica e la
scienza sono molto più di un investimento: non servono a fare soldi, anzi, il
rapporto giusto è che il fine ultimo della vita
activa è la vita contemplativa e
che questa vada garantita innanzitutto per se stessa e solo secondariamente
perché fornisce i mezzi del progresso della vita
activa. Poiché sono al di là di ciò che si chiama ‘razionalità’ economica,
cioè della cieca avidità, e sono da sempre il frutto della cultura
interdisciplinare che Aristotele chiamava σχολή
e i latini otium, la scienza e la
teoria sono sempre state obiettivi dello Stato. Il liberalismo, orientato all'accumulazione della ricchezza, è
talmente lontano dalla vita contemplativa
da calunniarla come improduttiva quando vi si imbatte; viceversa, quando senza
rendersene conto la raccomanda, la irrigidisce in una disciplina particolare
insegnabile direttamente e in alternativa alle altre; così l'interdisciplinarità di cui parla la Commissione
Europea, come disciplina da insegnare prima e in sostituzione delle discipline,
è la sapienza dell'insipiente, il dilettantismo in cui si risolve da sempre l'essenza della didattica liberale.
Dietro la
contraddizione di cogliere il frutto dell'interdisciplinarità senza
arrampicarsi sui rami delle discipline, dietro l'ipocrisia di una didattica che
promette altissimi obiettivi evitando la fatica dell'apprendere[2],
riducendo quindi la scuola a paese dei balocchi, c'è però un secondo pensiero latente,
propriamente un interesse. Il liberalismo consiste nel liberalizzare e nel
privatizzare l'attività economica; liberalizzare
significa abolire le leggi che frenano l'iniziativa del privato; ma le leggi
sono il contenuto proprio della scienza; liberalizzare l'istruzione equivale dunque ad espellere
la scienza dalla scuola, a umiliarla culturalmente e a sottometterla alla
soggettività privata. Poiché privatizzare
significa invece cedere una funzione pubblica ai privati così che sia finalizzata
al loro profitto, ne segue che l'umiliazione del rigore
scientifico della scuola pubblica tramite la sua liberalizzazione, annullandola
come scuola e trasformandola in ospizio, stronca un agguerritissimo concorrente
della scuola privata e permette di privatizzare l'istruzione. Con la distruzione scientifica e
culturale della scuola pubblica il bisogno di istruzione di qualità è infatti costretto
a trasformarsi in domanda solvibile,
che genera a sua volta la relativa offerta e la relativa possibilità di
profitto. La liberalizzazione della scuola, la cosiddetta autonomia, ha lasciato sbizzarrire lo sperimentalismo didattico più
dilettantesco perché l'esito peggiore, il suo fallimento e il determinarsi di una
situazione di sconsolato degrado culturale, era in fondo l'esito sperato, quello più in armonia con l'utopia liberale di una società in cui
ogni attività pubblica è privatizzata. Poiché il fine ultimo dell'intervento liberale era il
divaricarsi della scuola tra un'istruzione pubblica umiliata e un'istruzione privata d'eccellenza, il modello di ogni
riforma scolastica è stato trovato nella scuola
anglosassone, che da sempre è divisa in miserevoli scuole di stato e in
costosissime public school, fonte di
profitto per chi vi investe e di interessi per le banche che finanziano le
famiglie del ceto medio che vi iscrivono i figli.
2. In Italia
la scuola liberale con tutto il suo carico contraddittorio si afferma in
modalità particolari e contestualmente a una cessione della sovranità che
equivale al suo tramonto: ad attuarla non sono i moderati, ma personaggi venuti
su dall'estrema sinistra rivoluzionaria, come Berlinguer e De Mauro, che aggrovigliano l'individualismo liberale e la sua
retorica produttivista, di cui sono al servizio, con l'individualismo libertario nel
contenuto e dogmatico nella forma, che forma la loro retorica.
Il groviglio
di liberalismo e retorica rivoluzionaria è diventato inestricabile nel concetto
di uguaglianza, attualmente
radicalizzatosi nella retorica dell'inclusione, con
cui si consentono ridimensionamenti degli obiettivi a chi certifichi
particolari difficoltà cognitive. Gli esseri umani sono uguali nella loro
umanità, nella loro essenza, che si procurano riconoscendosi; per il resto sono disuguali. E non soltanto nel
senso che sono diversi e magari complementari, ma anche nel senso quantitativo dell'essere più o meno intelligenti, più o
meno laboriosi, più o meno forti, più o meno favoriti dalle circostanze. Di
fronte a questa doppia realtà Aristotele osserva che la giustizia consiste nel
trattare in modo uguale gli uguali, in modo disuguale i disuguali. Così la
legge, che pure è uguale per tutti, riconosce ai più deboli maggiori
protezioni. Nella scuola il principio dell'uguaglianza non ha applicazione
sensata: le differenze tra gli alunni all'inizio dell'azione didattica impongono di dare di
più a chi o per natura o per circostanze sociali ha più difficoltà, in modo che
sia soddisfatto l'interesse di ciascuno di acquisire almeno le competenze
teoriche minime e l'interesse sociale alla diffusione della conoscenza e dell'educazione. In questo senso la scuola
agisce in modo da accorciare le distanze nella situazione iniziale. Proprio il
contrario fa la prassi dell'inclusione: anziché dare di più, essa consente di chiedere
meno a chi affronta più difficoltà.
L'ideale dell'uguaglianza non ha senso neanche
rispetto ai risultati dell'azione didattica. È una tautologia
che chi è più dotato arriva ad obiettivi più elevati in meno tempo e con meno
fatica; la scuola non ha alcun diritto di rallentarlo perché gli altri non si
sentano umiliati: tutti devono incoraggiare chi può raggiungere risultati
eccellenti e capire che il raggiungimento di questi risultati è un vantaggio
per ognuno.
La scuola
viola dunque giustamente il principio dell'uguaglianza sia all'inizio, quando si adopera in favore
dei meno capaci affinché raggiungano gli obiettivi essenziali, sia alla fine,
quando ha accresciuto la distanza tra chi è più capace e chi lo è meno. La
scuola di un tempo era in torto in quanto trascurava la prima violazione,
mirava dunque a escludere i meno favoriti, anziché ad incoraggiarli ed
aiutarli; ma la scuola dell'autonomia è in torto su entrambi
i fronti, in quanto nel nome dell'uguaglianza rinuncia ad insegnare e
fa torto tanto ai meno dotati, che
lascia uscire indisciplinati e privi di mezzi intellettuali, quanto ai più dotati, che fa uscire sostanzialmente
ignoranti, scettici se non presuntuosi; differenziando inoltre gli obiettivi
didattici rilascia un attestato di studi che equivale a un attestato di frequenza.
Le aporie
del principio di uguaglianza caro ai rivoluzionari li rendono un alleato
decisivo in favore della disuguaglianza liberale. Se infatti l'uguaglianza diventa il criterio
ultimo ed essa può essere raggiunta soltanto attraverso la rinuncia alla
didattica, chi frequenta la scuola pubblica ugualitaria, dotato o meno che sia,
è privato di istruzione. Per procurarsela dovrebbe frequentare la scuola
privata, ma può farlo solo se dispone di un reddito elevato. L'uguaglianza scolastica diventa blocco
di chi è povero ma capace e meritevole, e una serrata dell'oligarchia a cui le scuole migliori e
i migliori posti che esse procurano diventano accessibili in base non alla
capacità e al merito ma alla ricchezza. È quanto accade nei paesi anglosassoni
dove la scuola pubblica è profondamente degradata: non vi si studia e non vi si
impara nulla; chi voglia istruirsi e avere accesso alla classe dirigente deve
iscriversi alla scuola privata (in Inghilterra le public school) e pagare rette intorno ai 25000 € annui. Queste
scuole sono dunque precluse al ceto medio, a meno che non si indebiti.
Il ministro
Berlinguer presentò la sua riforma come finalizzata all'«esigenza di ciascun individuo di
cambiare più volte la sua attività nel corso dell’esistenza»; «… di fronte a
queste necessità – sosteneva il ministro – la scuola non deve più porsi con la
pretesa di consegnare saperi abilità e capacità definitive, ma puntare invece
sullo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di
cooperare, di risolvere problemi». Nella retorica di Berlinguer il
dilettantismo della pedagogia liberale che scambia i fini ultimi dell'educazione
per mezzi e dunque rifiuta i mezzi per raggiungere i fini, acquisisce tratti di
grottesco irrazionalismo: le categorie,
le leggi universali, che sono il contenuto della scienza e che permettono l'orientamento in ogni situazione, dunque il dominio di ogni cambiamento, sono scambiate per effimeri espedienti pratici. Se
non esistesse scienza, se le regole grammaticali, i teoremi della matematica,
le leggi della fisica e della chimica, le norme dell'etica fossero non la base stabile di
ogni cambiamento e di ogni creatività ma materiali trascinati via dall'alluvione del divenire, insegnare sarebbe
impossibile, quindi propriamente non ci sarebbe neanche l'esigenza di una riforma della scuola,
resterebbe soltanto la necessità di sopprimerla. In effetti la liberalizzazione
che Berlinguer ha imposto alla scuola pubblica, la riforma dell'autonomia già introdotta in Francia
un decennio prima con esiti catastrofici, equivale all'averla distrutta come scuola.
Gli
insegnanti italiani, tutti gli
insegnanti, sono stati squalificati perché, chiusi nella loro scienza, non
saprebbero insegnare – ma è evidente che conoscere la scienza è condizione
minima dell'insegnarla, e non implica affatto che non la si sappia insegnare con
efficacia. I riformatori volevano però liberalizzare
la scuola pubblica, escluderne cioè i lacci e laccioli delle scienza; perciò
volevano sopprimere l'insegnante scienziato e creare un insegnante nuovo, che sapesse insegnare ignorando la scienza, che
cioè fosse, come alcuni pedagogisti lo chiamano senza arrossire, ‘animatore’. D'altra parte, squalificare un'intera generazione di insegnanti
inducendoli alla sfiducia in se stessi era in armonia tanto con la diffamazione
liberale del settore pubblico quanto con la critica ‘rivoluzionaria’ del potere
statale. Berlinguer riformava infatti una scuola pubblica in cui l'onda libertaria del Sessantotto aveva
già soffocato l'esigenza del rigore nello studio delle discipline decisive
sul piano delle competenze superiori: il greco, il latino, persino la
grammatica; per questo nella sua riforma la contraddizione liberale di volere il
fine della competenza senza il mezzo dello studio viene a coincidere con la contraddizione
plebea di volere il fine della promozione sociale senza il mezzo della
disciplina.
La liberalizzazione
ha costretto lo Stato a rinunciare alla determinazione dei programmi delle
scuole e a limitarsi alla semplice indicazioni di contenuti non vincolanti.
Soppressi i programmi, le competenze,
che sono il risultato ultimo delle faticose esercitazioni disciplinari
necessarie a innalzarsi allo spirito delle scienze, sono diventate l'obiettivo facile e diretto di minime
unità didattiche che abborracciavano pochi contenuti ridotti a pretesti. La
nullificazione della didattica è stata mascherata con la diffusione della cura
ossessiva dei procedimenti e la cinica negligenza dei risultati. Nessuno ha più
voluto verificare se i programmi fossero stati completati e se gli alunni
avessero effettivamente acquisito le conoscenze e le competenze implicate: come
diceva Eduard Bernstein, «il fine, qualunque esso sia, è nulla; il movimento è
tutto»[3].
Innovazioni, sperimentazioni, laboratori, strumenti informatici, uscite
didattiche, viaggi d'istruzione si risolvono dunque in attività ricreative animate dagli insegnanti, e assumono l'apparenza dell'attività didattica soltanto nella
documentazione con cui sono proposte e relazionate. Così l'autonomia didattica, mentre voleva
far esplodere i lacci e i laccioli scientifici e burocratici che irrigidivano
la creatività didattica, si è ridotta a un'esplosione di ipocrite incombenze
burocratiche.
All'insegnante come animatore doveva
corrispondere una nuova figura di studente che imparava ad imparare prima di aver imparato qualcosa. Se è
evidente l'importanza di imparare ad imparare, se è questo propriamente l'habitus
scientifico che è obiettivo ultimo dell'insegnamento e che Aristotele,
concependolo come massima virtù dianoetica, identificava con la felicità, è
altrettanto evidente che non si tratta di un obiettivo da cogliere
direttamente, bensì del sovrappiù che si aggiunge a chi ha imparato molto: chi ha risolto molti problemi ha a disposizione un
ampio ventaglio di risorse (fiducia in sé, capacità di orientamento, intuito,
ispirazione, strategie, tecniche) che gli consentono di porsi in modo efficace
rispetto a tutti i problemi. Per
risolvere i molti problemi non c'è però altro mezzo che la fatica dell'imparare: memorizzare, esercitarsi,
dapprima guidati, poi da soli. La scuola liberalizzata è però la scuola che ha
in odio ogni fatica, a partire dalla memoria. Così nasce il paradosso di una
generazione di italiani ed europei completamente estranea allo spessore storico
dell'ambiente in cui vive – come se fosse
dispersa tra le Montagne Rocciose.
Quest'odio per la fatica dell'imparare, così in contrasto con il
moralismo liberale che non si fa scrupolo di raccomandare ai poveri la ‘durezza
del vivere’, è un effetto secondario della liberalizzazione. L'autonomia scolastica è stata
introdotta secondo l'ideologia che la concorrenza tra gli istituti li costringa ad
aumentare la qualità dell'offerta formativa. Anche a voler trascurare che un'effettiva concorrenza si poteva
instaurare solo nella scuola primaria, in cui ci sono istituti omogenei, non
nelle scuole secondarie che hanno curricoli diversi, e che essa si risolve
sempre in pubblicità ingannevole, la concorrenza tra gli istituti implica che
essi si trasformino in venditori di formazione e gli alunni in loro clienti. Proprio
la trasformazione dell'alunno in cliente, ciò che la sinistra scambia per
esaltazione della sua libera spontaneità, comporta tuttavia la fine del rapporto
didattico. Chi si vuole istruire cerca un docente autorevole, che non racconta
le sue opinioni, ma espone i contenuti della scienza di cui è competente, li
espone secondo la propedeutica necessaria, assegna le esercitazioni, le
corregge e le valuta. Rispetto a questo docente il discente ha e vuole avere sempre torto. Mentre è
nella natura del discente avere sempre torto rispetto al docente, è però della
natura del cliente avere sempre ragione. Lo studente-cliente è dunque un
tiranno che va divertito e approvato, che ha sempre ragione, che non può essere
costretto a studiare, ma impara giocando, senza accorgersene, che non può essere
umiliato da una valutazione negativa. Meno che mai può essere costretto a
ripetere l'anno. La situazione della scuola dell'autonomia su questo punto è imbarazzante.
Il mezzo valido nella maggioranza dei casi per evitare di far ripetere l'anno è permettere una mobilità tra
gli istituti. Proprio la concorrenza tra loro lo impedisce: poiché restano
aperte e sono finanziate secondo il numero degli iscritti, le scuole concorrono
con i mezzi più miserevoli per massimizzare i clienti; adescatili, per nessun
motivo al mondo consentirebbero loro di proseguire la carriera scolastica mal
indirizzata in un istituto più adatto alle loro capacità e ai loro interessi.
Così chi va male in greco e latino al ginnasio è senz'altro spinto al liceo; chi va male in
matematica nel biennio scientifico è mandato senz'altro al triennio, dove prosegue per
il semplice motivo che è incluso tra i clienti dell'offerta formativa. Facile valutare cosa
resti della serietà della valutazione in questo contesto. Così si compie la
distruzione della scuola pubblica in favore di quella privata.
Che non ci
sia stata resistenza all'abbandono degli studenti alla loro pigrizia naturale è però un
frutto della convergenza tra retorica liberale e retorica rivoluzionaria. Nel
Novecento l'illusione rousseauiana di una soggettività spontaneamente socievole e
creativa, che il ‘Potere’ reprime in modo brutale o subdolo, che dunque va
liberata dai vincoli e inibizioni perché esprima le sue insondate potenzialità,
si è ripresentata nell'armamentario della guerra fredda psicologica organizzata
dalla CIA, la cui propaganda opponeva la libertà occidentale al totalitarismo
orientale. La contestazione del Sessantotto se n'è appropriata inconsapevole della sua
origine e l'ha insinuata in ogni settore della società, dalla cultura accademica a
quella di massa. È stato dunque facile ai contestatori invecchiati insinuarsi
nel ‘Potere’ e lavorare per conto delle oligarchie liberali: un identico
feticismo della soggettività spinge liberali e contestatori a mettere in
discussione la legittimità stessa dell'educazione e tollera soltanto l'insegnante che non insegna nulla. Già
la contestazione aveva messo insieme il prototipo di insegnante quale lo
raccomanda il liberalismo, quello che nella scuola dell'autonomia deve animare i discenti,
stimolarli, discutere, sommergerli di rinforzi positivi per svilupparne l'autostima, riconoscere la validità
della loro cultura spontanea, magari non scolastica, ma proprio perciò più
calata nell'attualità, più utile; quello che non dà lezioni, né compiti, che non
semina, innaffia il terreno con le lodi e osserva crescere le erbacce.
3. Come gran
parte dei piani sulla scuola, soprattutto quelli provenienti da ‘sinistra’, il
documento del Fronte Sovranista Italiano vuole una scuola pubblica che fornisca
a tutti gli alunni gli strumenti
minimi necessari all'esercizio della cittadinanza e al lavoro e li promuova verso i
massimi obiettivi raggiungibili da ciascuno. A differenza di ogni altro gruppo,
il Fronte Sovranista Italiano ha però individuato con chiarezza nel liberalismo la causa prima della
corruzione della scuola; dunque crede che per attuare gli obiettivi su cui
tutti possono dichiararsi concordi siano necessari la fine dell’autonomia scolastica e il
ritorno delle competenze didattiche allo Stato costituzionale e democratico.
Lo Stato dovrà garantire ampi finanziamenti per l'edilizia scolastica ormai fatiscente
e insicura, per la strumentazione didattica, per la remunerazione del personale
scolastico; dovrà fissare i programmi minimi,
le competenze minime, lasciando agli
insegnanti il compito di integrarli a partire dalla loro preparazione e di
attuarli secondo i metodi loro congeniali; dovrà infine verificare il raggiungimento degli obiettivi fissati e sostenere le
situazioni di criticità. Senza queste trasformazioni la scuola e la società italiana
sono condannate a una triste regressione umana e culturale.
[1]
Consultabile al seguente indirizzo: http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/documento-sulla-scuola-approvato-dallassemblea-nazionale-dellars-16-giugno-2013
[3] Citato
in Bontempelli, Bruni, Storia e coscienza
storica, Milano 1983, p. 419.
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