Wittgenstein, logica, nichilismo
Paolo Di Remigio
Benché appaia come un discorso sulla logica e sul linguaggio, il pensiero di Wittgenstein è profondamente nichilista. Il suo presupposto culturale è la logica-matematica sviluppatasi nel corso del 1800, che sostituisce il linguaggio naturale con un sistema di segni convenzionali, al fine di rendere inequivoche le dimostrazioni matematiche. La matematica ne ebbe bisogno da quando, con il sorgere delle geometrie non-euclidee, l'esperienza non le offriva più un riscontro percettivo; ma la verità consiste proprio in questo riscontro: la crisi della verità matematica provocò una reazione nel senso del rafforzamento della certezza. Nella scienza, infatti, non conta soltanto la verità; non meno importante è la necessità, la dimostrazione con cui si ottiene la certezza. Insomma l'importanza del rigore nelle dimostrazioni, che nei secoli moderni precedenti l'Ottocento ero stato piuttosto trascurato, fu riscoperta con la crisi della verità e questa riscoperta incoraggiò la costruzione di linguaggi artificiali che evitassero le ambiguità dei linguaggi naturali. Con questi sistemi di simboli artificiali si andò a rigorizzare la matematica, ossia a dedurne tutti i teoremi da pochi assiomi, quello che aveva già fatto Euclide nel III secolo a. C. con la matematica greca - con una differenza peggiorativa, però: gli assiomi da cui dipende la matematica moderna non hanno immediata verità, non hanno un'evidenza percettiva come lo spazio, il punto, la retta, hanno con la verità un rapporto soltanto problematico; di per sé rappresentano soltanto le ipotesi necessarie alla validità dei teoremi accettati.
La logica-matematica esaspera dunque il carattere formale della logica classica. Come la logica classica, assume contenuti non logici (di solito indicati con lettere) e si limita a esaminare i movimenti che essi assumono nelle operazioni loro esterne, che per questa esteriorità sono formali. Nella logica-matematica, cui Wittgenstein fa riferimento, i contenuti sono le proposizioni, per lo più indicate con p e q; i loro movimenti sono le operazioni esterne di negazione, congiunzione, disgiunzione, implicazione. Che le proposizioni siano assunte come contenuti non logici, spinge la logica-matematica a una formalità ancora più profonda di quella aristotelica. Questa infatti partiva non dalla proposizione, ma dal termine, e il termine elementare, cioè l'ousia (sostanza) non era affatto concepito come pura identità insondabile, ma come energheia, come attività, come movimento finalistico. Poggiando il formalismo logico, che consiste nell'esteriorità tra contenuto e operazione, su un contenuto che è anche operazione (appunto il movimento finalistico), Aristotele riesce a connettere la logica formale a principi non formali, ontologici, in cui verità e certezza si congiungono in quello che Wittgenstein chiamerebbe 'valore'. Il formalismo matematico cui Wittgenstein fa riferimento non è funzionale a questa congiunzione, è una tecnica per la dimostrazione matematica e non ha spessore filosofico. L'operazione di Wittgenstein consiste nell'attribuire un paradossale spessore filosofico alla logica-matematica; questo equivale a considerare il senza-valore come dotato di valore, ossia equivale a dire che l'unico valore è la mancanza di valore. Il mondo appare quindi come un insieme di fatti privi di valore che il linguaggio può esprimere in infiniti modi equivalenti; qualora nelle operazioni tautologiche, che permettono il passaggio da un modo proposizionale a un altro per mezzo dell'applicazione degli operatori logici, si generasse un valore (Wittgenstein non determina che cosa esso sia, ma noi possiamo farlo sulla scorta della ousia aristotelica: è un fatto che è operazione), allora si è verificato un errore logico e la proposizione ottenuta è assurda. Dunque sono privi di valore il mondo e il linguaggio (la logica) che lo raffigura. Questo di Wittgenstein è però un nichilismo consapevole - ciò lo rende interessante: che il mondo e il linguaggio siano privi di valore non implica che il valore sia in ogni caso un assurdo. Non lo è quando si rifugia nel silenzio. L'ultima tesi del trattato, la 7., 'Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere', ha il significato positivo che come il mondo ha un limite in cui confina nel non mondo, cioè nel valore, così il linguaggio ha un limiti in cui confina con il non linguaggio, ossia nel silenzio; dunque è il silenzio l'espressione del valore.
Ma Badiale non era un matematico?
RispondiEliminaLo è ancora.
Elimina''La matematica ne ebbe bisogno da quando, con il sorgere delle geometrie non-euclidee, l'esperienza non le offriva più un riscontro percettivo''
RispondiEliminascrive Di Remigio.
Non ne sono del tutto convinto.
La geometria euclidea era nata come superamento di uno stadio ad essa precedente, in cui ci si fidava totalmente delle figure.
Nella geometria pre-euclidea
(che è quella che traspare dal famoso dialogo in cui il Socrate, che ci è stato trasmesso da Platone, mostra che uno schiavo può capire la geometria)
l'esistenza del quadrato era una verità evidente, che non veniva messa in discussione. Invece, nella geometria euclidea questa evidenza percettiva viene messa in discussione, nel senso che si sente il bisogno di dimostrare l'esistenza del quadrato. L'esistenza del quadrato è una prerogativa della geometria euclidea (nelle altre, non esiste).
Fonte: Euclide: il I libro degli Elementi, nuova traduzione di Lucio Russo, Giuseppina Pirro, Emanuela Salsiccia
Un'altra fonte che vorrei citare a sostegno della mia perplessità è la storia della matematica di Bourbaki, nella parte in cui parla delle geometrie non euclidee.
'' Con questi sistemi di simboli artificiali si andò a rigorizzare la matematica, ossia a dedurne tutti i teoremi da pochi assiomi, quello che aveva già fatto Euclide nel III secolo a. C. con la matematica greca - con una differenza peggiorativa, però: gli assiomi da cui dipende la matematica moderna non hanno immediata verità, non hanno un'evidenza percettiva come lo spazio, il punto, la retta, hanno con la verità un rapporto soltanto problematico; di per sé rappresentano soltanto le ipotesi necessarie alla validità dei teoremi accettati.''
scrive Di Remigio.
Anche qui si sottovaluta il fatto che già con Euclidea la evidenza percettiva non era stata data per buona.
I matematici impegnati nella ricerca sono generalmente platonizzanti, nel senso che credono che gli enti di cui si occupano siano realmente esistenti in un mondo delle idee o qualche altro posto simile. Cioè, mi sembra che siano molto lontani dall'essere nichilisti. Direi al contrario che i matematici siano, seppur in modo non consapevole, credenti, nel senso che credono in qualcosa: credono nella esistenza degli enti di cui si occupano. In somma, l'associazione del nichilismo alla matematica non mi convince.
Dico ''in modo non consapevole'' perché è noto che in genere i matematici hanno molta diffidenza per la riflessione filosofica, che anzi vedono come una perdita di tempo futile e forse anche dannosa. A riprova di questa mia affermazione, potrei citare la reazione di non ricordo quale matematico, di fronte alla scoperta di Paul Cohen, della indipendenza da ZFC della ''congettura di Cantor'', o ''ipotesi del continuo''. Un altro esempio è descritto nella mia memoria dal titolo ''True or False? a case in the study of harmonic functions'', pubblicata su Topoi. Un terzo esempio è dato da un brano molto importante, secondo me, di un famoso articolo divulgativo di K. Goedel, che viene citato nella mia memoria.
Nel mio commento precedente, non ho spiegato bene quello che volevo dire quando ho scritto che
RispondiElimina''A riprova di questa mia affermazione, potrei citare la reazione di non ricordo quale matematico, di fronte alla scoperta di Paul Cohen, della indipendenza da ZFC della ''congettura di Cantor'', o ''ipotesi del continuo''.''
Non ho detto qual è stata quella reazione.
La reazione di questo matematico (non riesco a ritrovare la citazione precisa) esprimeva il convincimento che gli oggetti che studiava da anni esistono e si comportano in un modo ben preciso, per cui questa storia che in un modello di ZFC succede una cosa e in un altro ne succede un'altra è ben strana, ci deve essere qualcosa di sbagliato.
Un'altra reazione è quella di un matematico che, alla fine di una mia conferenza, mi ha chiesto ''ma cosa succede nel nostro modelo abituale?''. Il fatto è che non esiste un ''nostro modello abituale di ZFC''. A riprova di ciò vorrei citare il fatto che i matematici impegnati nella ricerca matematica, a parte i logici, nemmeno sanno cosa sia un modello di ZFC: essi vivono nel convincimento che gli oggetti che studiano da anni abbiano una esistenza concreta e definitiva nel mondo delle idee (quindi, cosa potrebbe mai significare per loro ''il nostro modello abituale''?). Per inciso, anche io condivido questo convincimento, e credo che noi inventiamo il linguaggio che usiamo per parlare delle cose matematiche, ma le cose matematiche già esistono per conto loro. Questo convincimento è stato espresso anche da Goedel, nella memoria che ho menzionato nel mio primo commento, nel seguente brano:
''Only someone who […] denies that the concepts and axioms of classical set theory have any meaning (or any well-defined meaning) could be satisfied with such a solution, not someone who believes them to describe some well-determined reality. For in this reality Cantor's conjecture must be either true or false, and its undecidability from the axioms as knows today can only mean that these axioms do not contain a complete description of this reality; and such a belief is by no means chimerical, since it is possible to point out ways in which a decision of the question, even if it is undecidable from the axioms in their present form, might nevertheless be obtained.''
Non so se ho capito bene quello che scrive di Biase; la mia risposta valga almeno come inizio di una migliore comprensione. Forse è opportuno che determini meglio cosa intendessi per ‘verità’ e per ‘necessità’ nel contesto in questione. Mentre il termine non è né vero né falso, la proposizione è vera o falsa (corrisponde o non corrisponde all’intuizione), la deduzione è non solo vera o falsa, ma anche corretta o scorretta. Le proposizioni in un sillogismo (sia quelle che fanno da premesse che quella che sta come conclusione) sono tutte vere o false, il seguire della conclusione dalle premesse (la necessità) può essere corretto o scorretto (dunque conclusioni vere possono derivare da premesse false mediante una scorrettezza). Platone ed Aristotele hanno riproposto la differenza tra giudizi veri e sillogismi nella differenza tra conoscenza empirica (in Platone: retta opinione) e scienza: il loro contenuto di verità è il medesimo, la scienza ha in più l’evidenza (ciò che nel testo chiamavo ‘certezza’) che la dimostrazione trasmette dalle proposizioni-principi alle proposizioni-teoremi. Che la matematica fino all’Ottocento si sia attenuta più alla verità che alla necessità significa che per risolvere i suoi problemi ha usato proposizioni senza averle dimostrate, che ha usato proposizioni che non erano teoremi; un modo di procedere empirico, anziché scientifico. Che dall’Ottocento la matematica si sia preoccupata del suo rigore dimostrativo è dunque non solo un merito, ma di per sé non pregiudica affatto la verità delle sue proposizioni; se è stato il venire meno del carattere intuitivo dei principi la spinta verso il rigore dimostrativo, questa problematicità è una felix culpa. Quanto infine alla verità dei principi sono d’accordo con ciò che scrive di Biase (se ho ben capito): si tratta in ogni caso di astrazioni, ma che siano astrazioni non implica affatto che siano estranei all’essere. - Altro discorso è quello del nichilismo. Non lo attribuivo affatto alla matematica e al suo metodo, lo attribuivo (ma anche qui: non stavo valutando, esponevo a grossi capi il punto di vista del ‘Tractatus’) all’introduzione della logica matematica nella filosofia. Non è la prima volta che accade: l’autore di un altro ‘Tractatus’ applicò il ‘mos geometricus’ alla filosofia e ne venne fuori l’annullamento della libertà nella necessità; come nel caso di Wittgenstein, il nichilismo (un nichilismo meno eclatante, nondimeno Hegel ha definito la filosofia spinoziana ‘acosmica’) non fu un effetto dell’applicazione, ma al contrario: l’applicazione doveva razionalizzare a posteriori una scelta. In filosofia non esiste logica deduttiva, perché la filosofia non ha principi, ma soltanto inizi, e non trasporta l’evidenza da essi ai teoremi, ma procede per confutazioni.
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