(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di P.Di Remigio. M.B.)
L’epistemologia
falsificazionista come oscurantismo
A Mauro Orlandi
Dopo la grande
fioritura tra inizio Settecento e inizio Ottocento, la filosofia,
anche dove essa professa di legarsi alla scienza e prende il nome di
epistemologia, si è inabissata in un oscurantismo che trova
inopportuna la verità e si sforza di eluderla senza neanche più
comprendere cosa essa indichi. Eppure «verità» ha un significato
preciso e universalmente noto, quello di accordo tra concetto e
realtà. Che essa sia un accordo tra il diritto del soggetto e quello
dell’oggetto determina a priori le forme in cui la si rifiuta: da
una parte il torto contro il soggetto, che consiste nel sacrificarne
la libertà, dall’altra il torto contro l'oggetto,
che consiste nel sacrificarne l'essere.
Questa doppia forma di aspirazione al falso illumina i possibili
conflitti tra le scuole filosofiche degli ultimi due secoli. Il
rifiuto del diritto dell’oggetto è trasparente in ogni
atteggiamento idealistico che lo riduce a fenomeno soggettivo;
qui la filosofia si condanna a una regressione narcisista per cui il
soggetto è il senso, l’oggetto è l'insensato,
il meccanico, il semplicemente modificabile dall'arbitrio.
Questa strada, in fondo già predeterminata nella distinzione
cartesiana tra res cogitans e res extensa, è
abbracciata nel 1800 non solo da vari idealismi, ma anche da
Schopenhauer e Kierkegaard e seguita dai loro discepoli: Nietzsche da
una parte, l'esistenzialismo,
compresa la sua versione ontologica che squalifica l'oggetto
empirico come ‘ontico’ di contro al vero oggetto. La seconda
strada per l’inferno, quella che disconosce il diritto del
soggetto, si manifesta nel disprezzo del linguaggio e della
teoria, dunque nel crederli mezzi artificiosi ed essenzialmente
inadatti per raggiungere l’oggetto: nel positivismo, in particolare
nella sua versione novecentesca, l’oggetto è come la cosa in sé
kantiana; il soggetto getta reti nel suo mare, le teorie; esse però
non possono abbracciarlo, ma solo sottrargli qualche pesce.
Mentre il
cosiddetto idealismo tedesco perseguì con accanimento una filosofia
della natura in cui le teorie scientifiche particolari, dalla
matematica al diritto, fossero valorizzate come momenti della verità
complessiva, il positivismo ottocentesco disconobbe l’intimo
rapporto tra filosofia e scienze. Nella sua legge dei tre stadi Comte
ha stabilì una differenza tra metafisica orientata alle essenze e
scienza orientata alle leggi sulla base dell'ignoranza
dell’identità tra universale e legge. È sempre stato ovvio che
l’universale non significhi soltanto il quantificatore
‘ogni’ o ‘tutti’: per Aristotele l’universale è
innanzitutto ciò che si predica di più oggetti, non di
tutti, dunque un termine definibile. Poiché ogni definizione è una
legge, universale è innanzitutto un oggetto determinato da
una legalità; i quantificatori universali, ‘ogni’ ‘tutti’,
sono invece determinazioni ulteriori della prima
universalità1.
Ogni nome comune, prima ancora della sua eventuale forma
universale o particolare, è dunque universale: triangolo, a
prescindere che se ne consideri uno, qualche o tutti, è un oggetto
universale: definito cioè secondo qualità e quantità da una legge.
E l'universalità della
legge, estesa su più singoli, che precede dunque la forma
universale del tutti, è l’essenza a cui mira la
scienza. La separazione tra essenza e legge, posta da Comte e seguita
dai positivisti, si riduce dunque a un fraintendimento indotto dalla
volontà di rompere i ponti con la tradizione2.
Le conseguenze della separazione sono importanti. Mentre l’essenza,
essendo il nucleo razionale dell’oggetto, comunica
necessariamente un senso al soggetto, e questa comunicazione è la
verità, la legge positivista, che rifiuta di essere essenza, che
dunque non vuole avere nessun senso, deve essere raffigurazione della
cosa nella sua estraneità insensata; la legge, la cui formulazione è
la vittoria sull’estraneità della cosa e l’evidenza della verità
come armonia tra il soggetto e l’oggetto, nell’ottica del
positivismo è degradata a raffigurazione insensata dell’empiria
percettiva insensata, del fatto, utile ormai solo alla
trasformazione della natura ai bisogni contingenti dell’uomo.
L’evoluzione
delle scienze è andata però nella direzione opposta a quella del
placido ampliamento empirico previsto nel positivismo: non solo la
matematica dell’Ottocento si popolò di teorie lontane dall'empiria
percettiva, la fisica del tardo Ottocento ruppe con la metafisica
elementare sottesa alla fisica newtoniana, si allontanò
dall'empirismo comune e
tornò ad accostarsi virtualmente alla filosofia. La filosofia non fu
però in grado di rigenerarsi in questa convergenza: il venir meno
del paradigma di Newton (beninteso non della sua fisica) non fu la
ricostruzione di una filosofia della natura adeguata alle evoluzioni
della scienza, ma la genesi di una polemica antiscientifica
nobilitata dalla sigla di neoidealismo. Per esempio Bergson
considera il tempo della scienza un artificiale irrigidimento del
tempo vero, della durée; Klages considera lo spirito
scientifico come antagonista dell'immagine
psichica. Nulla può però mostrare la distanza, anzi il contrasto
radicale, tra neoidealismo e filosofia hegeliana a cui esso diceva di
ispirarsi, quanto il contrasto tra il termine ‘pseudoconcetto’,
con cui Croce ha indicato i termini delle scienze empiriche, e questo
passo dell'«Enciclopedia
delle scienze filosofiche»: «In riferimento alla prima universalità
astratta del pensiero, ha un senso esatto e profondo osservare che lo
sviluppo della filosofia è dovuto all'esperienza.
Da un lato le scienze empiriche non si arrestano alla percezione di
singolarità fenomeniche, ma tramite il lavoro del pensiero
avvicinano la materia alla filosofia trovando le determinazioni
universali, generi e leggi; così preparano quel contenuto del
particolare in modo che possa essere assunto nella filosofia. D'altro
lato esse contengono anche l'impulso
per il pensiero a procedere verso queste determinazioni concrete.
Nell'assumere questo
contenuto il pensiero sopprime l'immediatezza
ancora presente e l'essere-dato,
e insieme si sviluppa da se stesso. In questo modo, mentre è
debitrice del suo sviluppo alle scienze empiriche, la filosofia
conferisce al loro contenuto, al posto della certificazione del
constatare e del fatto empirico, la forma essenzialissima della
libertà (dell'apriori)
del pensiero e la conferma della necessità, così che
il fatto esponga e riproduca l'attività
originaria e completamente indipendente del pensiero»3.
Il neoidealismo, anziché contrastare il positivismo criticando i
suoi equivoci, gli ha concesso l’insensatezza della scienza e ha
sperato di riguadagnare una visione teorica del senso cercandola al
di qua o al di là della scienza, in qualche oggetto
originario che sarebbe precluso allo scienziato e accessibile solo al
filosofo – ad assicurarlo una intuizione primigenia, come nel caso
di Bergson, di Husserl o di Heidegger, oppure l'empiria
storica, come nel caso di Croce e di tanto marxismo. La filosofia si
inabissa così nella regressione narcisistica o nell'adesione
alla brutale fattualità.
Contro
l’onnipotenza del soggetto neoidealista insorge il neopositivismo.
Il suo terreno di coltura è la disfatta che la Mitteleuropa subisce
nella prima guerra mondiale, dunque un pressante bisogno di rottura
con il passato, un desiderio di iniziare tutto da capo. Da questo
terreno così arido non può che nascere una riproposizione
dell’oggettivismo, dunque della vecchia intolleranza nei confronti
della teoria. Nel contesto del neopositivismo originario la teoria
scientifica consiste in un immenso giro di parole, in una
proliferazione tautologica, il cui senso è basato tutto
sull’ancoraggio a proposizioni protocollari, ossia immediatamente
percettive. È questa immediatezza percettiva e il rispetto del
principio di identità nelle inferenze logiche ciò a cui il primo
neopositivismo riduce la scienza e il discorso razionale in genere.
La sua irrilevanza per i problemi più intimi del soggetto, per
quello che Hegel chiamava libertà, è espressa con brutalità
da Wittgenstein, insieme all’imposizione del silenzio su quei
problemi.
Il rozzo rifiuto
della filosofia comporta un’immagine della scienza così barbarica
da far apparire comprensibile persino il suo rifiuto
irrazionalistico: il ridurre la scienza a risultato di una ottusa
induzione, anziché consolidarla contro il disprezzo neoidealista o
esistenzialista, costituisce un argomento a favore di questo
disprezzo. Di qui la genesi del falsificazionismo popperiano: esso
vuole restituire dignità teorica alla scienza, restituire un qualche
senso alla filosofia, distinguerle dall’ideologia per combattere
quest’ultima. Questi nobili obiettivi sono però preclusi a Popper
dai suoi pregiudizi positivisti, dalla sua profonda estraneità alla
filosofia e dalla sua vicinanza all’ideologia neoliberale.
Il
falsificazionismo vuole indicare un criterio che consenta di
accettare o respingere una teoria scientifica senza impegnarsi a
comprenderla e a criticarla con mezzi puramente logici. In questo
accetta l’idea tradizionale della logica, fatta propria anche dal
neopositivismo, come di una scienza puramente analitica, in cui
possono esserci non contraddizioni necessarie ma soltanto errori di
calcolo. Ciò che per Popper rende scientifica una teoria è un
legame con l’esperienza, ma non il legame induttivo ancora
caldeggiato dal neopositivismo, per il quale i fatti singoli sono
dunque in grado di verificare una teoria. Popper respinge la
verificabilità induttiva come indice della scientificità di una
teoria facendo ricorso al vecchio argomento che una teoria è
universale, cioè vale per infiniti casi, dunque non può essere
verificata come tale da un numero comunque finito di conferme. A
dispetto della sua antichità si tratta però di un argomento
insostenibile. Esso infatti priva, senza avvedersene, l’esperienza
della sua essenza temporale. ‘L'esperienza
è temporale’ significa: ogni suo fenomeno si differenzia, la
permanenza gli è estranea. Mentre gli oggetti logici, cioè i
significati delle parole, ciò che Platone chiamava ‘idee’,
restano uguali a se stessi, gli oggetti empirici sono il continuo
tradimento della propria identità. Che dunque dopo il primo cigno
bianco ci sia un secondo cigno bianco, in virtù della temporalità
dell’esperienza, non è affatto banale e interpretabile come
mera coincidenza da sottomettere a un disperato calcolo delle
probabilità: in virtù della natura differenziante dell'empiria
è invece banale la deriva da se stessi dei cigni e del colore del
loro piumaggio; che questa deriva non si verifichi, che ci sia un
secondo cigno e che sia di nuovo bianco, implica il conatus
del conservare se stessi contro la corrente differenziante del
divenire, manifesta una identità nella variazione, dunque una legge,
una universalità. E la scienza consiste nel formularla in questa
proposizione: ‘Il cigno è bianco’, ossia l'oggetto
universale ‘cigno’, identico a sé secondo una legge, implica,
secondo una legge da trovare (per esempio le necessità del mimetismo
o della concorrenza per l'accoppiamento),
la bianchezza come legge. Questa è l’induzione quale l'hanno
intesa Aristotele e la tradizione filosofica. Essa non mira affatto
alla proposizione: ‘Tutti i cigni sono bianchi’, che non è una
legge, ma una constatazione empirica in forma universale. Il
rifiuto popperiano dell'induzione
scambia l'universalità
qualitativa della legge, che si manifesta nel semplice ‘parecchi’,
con l'universalità
formale del quantificatore ‘ogni’, e la sua paura di sbagliare
testimonia la paura della verità. La verità ha infatti un momento
induttivo: essa è accordo tra il concetto e la cosa, dunque, nel
caso delle teorie scientifiche, tra la teoria e l’esperienza.
Rifiutato il
contatto induttivo con l’esperienza sull'onda
della polemica contro il neopositivismo, Popper intende tuttavia
restare empirista, vuole quindi che l'esperienza
discrimini tra scienza e non scienza. E argomenta così: se non può
verificare l’universale, il particolare empirico può almeno
falsificarlo; dunque è scientifica la teoria che si espone alla
falsificazione facendo previsioni empiriche; se l’esperienza le
smentisce, allora la teoria scientifica sarà falsa; se l’esperienza
le conferma, non per questo verifica la teoria, semmai la corrobora;
dunque la teoria non sarà mai vera, sarà semplicemente
verosimile, ossia avremo un motivo per sceglierla e usarla al
posto di un’altra teoria meno corroborata.
La conseguenza
dell’idea di corroborazione è devastante. Significa: dalla scienza
non possiamo aspettarci nessuna verità; come le teorie del passato
si sono mostrate non vere, così le attuali teorie che le hanno
sostituite si mostreranno a loro volta non vere. Di conseguenza, come
contro il fanatismo, anche contro l'esigenza
di verità va pronunciato l’appello con cui Voltaire siglava le sue
lettere: «Écrasez l’Infâme». L'antica
distinzione tra δόξα ed ἐπιστήμη
è cancellata; ogni ἐπιστήμη
è solo δόξα
e l’epistemologia, anziché teoria della scienza, diventa
dossologia e teoria dell’impossibilità della scienza vera,
impossibilità del discorso oggettivo.
Popper odia Hegel
con tanta intensità da abbandonarsi spesso a insulti penosi. La sua
conoscenza degli scritti del filosofo è però così vaga che
risulterebbe insufficiente perfino in un liceo mediocre: anche quando
concede che la dialettica sia una buona descrizione empirica del
progresso delle scienze, in realtà ne ha un’immagine non solo
semplificata ed assimilata alla sua epistemologia, ma essenzialmente
estranea all'autentico
metodo hegeliano, che non è solo dialettico, ma
dialettico-speculativo. Per Popper questo metodo consisterebbe nel
constatare che di solito a una certa teoria unilaterale viene opposta
un’altra teoria unilaterale e che esse confluiscono in una terza
teoria – la tesi, l’antitesi e la sintesi inventate chi sa
quando dai manuali di filosofia e insinuate in Hegel. Il metodo
hegeliano consiste invece nel compenetrarsi dei momenti a)
intellettuale-dogmatico, b) razionale negativo o dialettico, c)
razionale positivo o speculativo4.
Le differenze sostanziali tra la vulgata popperiana e il metodo
filosofico autentico sono due. In primo luogo, ogni teoria
scientifica è criticabile con mezzi puramente logici, ossia non
occorre affatto attendere il fallimento delle sue previsioni per
individuarne i limiti (e viceversa il fallimento di una sua
previsione non ne decide affatto il destino), essi sono insiti nelle
sue determinazioni positive, per il principio spinoziano che ‘omnis
determinatio est negatio’ (certo, per farlo occorre rinunciare
alla comodità dell'attendere
e impegnarsi a studiare la teoria): la dialettica è la confutazione
di ogni verità e neanche le determinazioni più semplici e sicure
possono resisterle. Ma, in secondo luogo, la confutazione di una
teoria non autorizza affatto a buttarla via come
un'immondizia: mostrando
che la teoria T è confutata, la dialettica ha nel contempo
dimostrato la verità della teoria non-T; dunque T non è
svanita nel nulla e sostituita da un'altra
teoria immigrata da un'altra
regione; è sostituita da non-T, ossia, mentre è negata, nel
contempo è anche conservata nella sua negazione, è cioè ridotta a
momento della nuova teoria non-T. La speculazione, che ormai,
anche in filosofi importanti, muove al massimo un sorriso supponente,
che particolarmente tra i marxisti è sinonimo di ‘mistificazione’,
è invece la capacità di invertire il principio spinoziano e di
comprendere che ‘omnis negatio est determinatio’, che la
stessa negazione di una teoria è la nuova teoria, che la
ragione non si distoglie da ciò che come dialettica ha confutato per
cercare idee altrove, ma indugia nel negato e, come speculazione, vi
trova la nuova teoria.
L'entrata
in campo del momento speculativo cambia tutto nella considerazione
del progresso della ragione. Esso non consiste affatto in un
progresso della verosimiglianza indeterminata di teorie comunque non
vere, ossia in un progresso da una congettura a un’altra
congettura, consiste invece nella particolarizzazione della verità
elementare, cioè dell’idea assoluta, che altro non è che lo
stesso metodo dialettico-speculativo5.
Se il falsificazionismo passa da una falsità a una nuova falsità,
il metodo filosofico, che è al tempo stesso l'anima
della realtà, nel falsificare ogni verità la conserva in quella
successiva, in modo che nulla di ciò che la ragione ha determinato
va perduto, ma resta come base semplice degli sviluppi successivi. E
così è anche empiricamente. Solo un accecamento ideologico o
l’ignoranza della tradizione potrebbe opinare che le geometrie non
euclidee rendano la geometria euclidea un'immondizia,
che nell'astronomia
copernicana non sia conservata l'astronomia
tolemaica, che Einstein abbia sostituito Newton senza nel contempo
conservarlo. No. Le nuove teorie confutano l'estensione
universale di quelle precedenti, e proprio per questo ne conservano
la verità come proprio elemento particolare. Questo
conservarsi del negato nella sua negazione è l'anima
logica della verità.
La riduzione
della scienza a una sequenza di congetture provvisorie è
un’ideologia nel senso marxiano del termine: una concezione
logicamente insufficiente che si afferma in soccorso di interessi
particolari. Il falsificazionismo sa scorgere il momento dialettico
della ragione negativa, ma non sa scorgere il momento speculativo
della ragione positiva. La dialettica senza speculazione è però
scetticismo. Lo scetticismo ha conosciuto la sua nobiltà
soltanto nell'epoca
antica, quando seppe essere universale, non limitandosi a
confutare la teoria ma applicando la propria corrosività anche alla
certezza sensibile. Con le sue smanie di persecuzione contro la
teoria, con la sua fiducia nella certezza sensibile degli asserti
base, il falsificazionismo rientra a pieno titolo nello scetticismo
moderno. Per quanto si spacci come lotta al tradizionalismo
autoritario (ma nessun riferimento alla tradizione è per sé
autoritario), la sua benevolenza verso la fattualità prende una
precisa piega conservatrice, fino a farne il sostrato ideologico del
liberalismo di von Hayek, che, proprio a partire dal presupposto
popperiano della minimalità e dell'incertezza
della scienza in nostro possesso, condanna ogni intervento dello
Stato che non sia in difesa dell'ordine
economico fattuale. Che si debbano criticare le teorie sulla
base dei fatti ha dunque la sgradevole conseguenza che la critica può
fermarsi all’interno della scienza e lasciare intatto il mondo
extra scientifico, il mondo della vita. Il mondo della vita,
l’insieme dei fatti particolari a cui la scienza deve sottostare
come criterio ultimo, è però il mondo anglosassone con la sua
ritualità democratica, il suo mercato onnipotente e il suo
imperialismo spietato, nel quale già a partire da Bacone la scienza,
anziché il fine dell’uomo, è lo strumento di valorizzazione del
capitale. Di questo triste mondo il falsificazionismo è l’ideologia.
1
Cfr. Aristotele, De interpretatione, cap. 7, 17 a-b.
2
Una volontà che diventa irresistibile quando lo Stato di cui si fa
parte subisce una sconfitta in un confronto bellico: oscurare il
passato significa dimenticare la catastrofe. Il positivismo
intollerante della metafisica e della tradizione è legato al crollo
dell'impero napoleonico e
al crollo dell'impero
austriaco.
3
Nota al § 12 dell'Enciclopedia
delle scienze filosofiche. Traduzione nostra.
4
Cfr. il § 79 dell'Enciclopedia
e i tre seguenti.
5
Ciò che nel brano sopra citato Hegel chiama «forma essenzialissima
della libertà».
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