Mi sembrano interessanti sia l'intervento di Pasquinelli, sia l'articolo di Fubini riportato alla fine.
http://sollevazione.blogspot.it/2017/05/la-grande-germania-merkeliana-gli-stati.html
mercoledì 31 maggio 2017
martedì 30 maggio 2017
Critica del falsificazionismo (Paolo Di Remigio)
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di P.Di Remigio. M.B.)
L’epistemologia
falsificazionista come oscurantismo
A Mauro Orlandi
Dopo la grande
fioritura tra inizio Settecento e inizio Ottocento, la filosofia,
anche dove essa professa di legarsi alla scienza e prende il nome di
epistemologia, si è inabissata in un oscurantismo che trova
inopportuna la verità e si sforza di eluderla senza neanche più
comprendere cosa essa indichi. Eppure «verità» ha un significato
preciso e universalmente noto, quello di accordo tra concetto e
realtà. Che essa sia un accordo tra il diritto del soggetto e quello
dell’oggetto determina a priori le forme in cui la si rifiuta: da
una parte il torto contro il soggetto, che consiste nel sacrificarne
la libertà, dall’altra il torto contro l'oggetto,
che consiste nel sacrificarne l'essere.
Questa doppia forma di aspirazione al falso illumina i possibili
conflitti tra le scuole filosofiche degli ultimi due secoli. Il
rifiuto del diritto dell’oggetto è trasparente in ogni
atteggiamento idealistico che lo riduce a fenomeno soggettivo;
qui la filosofia si condanna a una regressione narcisista per cui il
soggetto è il senso, l’oggetto è l'insensato,
il meccanico, il semplicemente modificabile dall'arbitrio.
Questa strada, in fondo già predeterminata nella distinzione
cartesiana tra res cogitans e res extensa, è
abbracciata nel 1800 non solo da vari idealismi, ma anche da
Schopenhauer e Kierkegaard e seguita dai loro discepoli: Nietzsche da
una parte, l'esistenzialismo,
compresa la sua versione ontologica che squalifica l'oggetto
empirico come ‘ontico’ di contro al vero oggetto. La seconda
strada per l’inferno, quella che disconosce il diritto del
soggetto, si manifesta nel disprezzo del linguaggio e della
teoria, dunque nel crederli mezzi artificiosi ed essenzialmente
inadatti per raggiungere l’oggetto: nel positivismo, in particolare
nella sua versione novecentesca, l’oggetto è come la cosa in sé
kantiana; il soggetto getta reti nel suo mare, le teorie; esse però
non possono abbracciarlo, ma solo sottrargli qualche pesce.
Mentre il
cosiddetto idealismo tedesco perseguì con accanimento una filosofia
della natura in cui le teorie scientifiche particolari, dalla
matematica al diritto, fossero valorizzate come momenti della verità
complessiva, il positivismo ottocentesco disconobbe l’intimo
rapporto tra filosofia e scienze. Nella sua legge dei tre stadi Comte
ha stabilì una differenza tra metafisica orientata alle essenze e
scienza orientata alle leggi sulla base dell'ignoranza
dell’identità tra universale e legge. È sempre stato ovvio che
l’universale non significhi soltanto il quantificatore
‘ogni’ o ‘tutti’: per Aristotele l’universale è
innanzitutto ciò che si predica di più oggetti, non di
tutti, dunque un termine definibile. Poiché ogni definizione è una
legge, universale è innanzitutto un oggetto determinato da
una legalità; i quantificatori universali, ‘ogni’ ‘tutti’,
sono invece determinazioni ulteriori della prima
universalità1.
Ogni nome comune, prima ancora della sua eventuale forma
universale o particolare, è dunque universale: triangolo, a
prescindere che se ne consideri uno, qualche o tutti, è un oggetto
universale: definito cioè secondo qualità e quantità da una legge.
E l'universalità della
legge, estesa su più singoli, che precede dunque la forma
universale del tutti, è l’essenza a cui mira la
scienza. La separazione tra essenza e legge, posta da Comte e seguita
dai positivisti, si riduce dunque a un fraintendimento indotto dalla
volontà di rompere i ponti con la tradizione2.
Le conseguenze della separazione sono importanti. Mentre l’essenza,
essendo il nucleo razionale dell’oggetto, comunica
necessariamente un senso al soggetto, e questa comunicazione è la
verità, la legge positivista, che rifiuta di essere essenza, che
dunque non vuole avere nessun senso, deve essere raffigurazione della
cosa nella sua estraneità insensata; la legge, la cui formulazione è
la vittoria sull’estraneità della cosa e l’evidenza della verità
come armonia tra il soggetto e l’oggetto, nell’ottica del
positivismo è degradata a raffigurazione insensata dell’empiria
percettiva insensata, del fatto, utile ormai solo alla
trasformazione della natura ai bisogni contingenti dell’uomo.
L’evoluzione
delle scienze è andata però nella direzione opposta a quella del
placido ampliamento empirico previsto nel positivismo: non solo la
matematica dell’Ottocento si popolò di teorie lontane dall'empiria
percettiva, la fisica del tardo Ottocento ruppe con la metafisica
elementare sottesa alla fisica newtoniana, si allontanò
dall'empirismo comune e
tornò ad accostarsi virtualmente alla filosofia. La filosofia non fu
però in grado di rigenerarsi in questa convergenza: il venir meno
del paradigma di Newton (beninteso non della sua fisica) non fu la
ricostruzione di una filosofia della natura adeguata alle evoluzioni
della scienza, ma la genesi di una polemica antiscientifica
nobilitata dalla sigla di neoidealismo. Per esempio Bergson
considera il tempo della scienza un artificiale irrigidimento del
tempo vero, della durée; Klages considera lo spirito
scientifico come antagonista dell'immagine
psichica. Nulla può però mostrare la distanza, anzi il contrasto
radicale, tra neoidealismo e filosofia hegeliana a cui esso diceva di
ispirarsi, quanto il contrasto tra il termine ‘pseudoconcetto’,
con cui Croce ha indicato i termini delle scienze empiriche, e questo
passo dell'«Enciclopedia
delle scienze filosofiche»: «In riferimento alla prima universalità
astratta del pensiero, ha un senso esatto e profondo osservare che lo
sviluppo della filosofia è dovuto all'esperienza.
Da un lato le scienze empiriche non si arrestano alla percezione di
singolarità fenomeniche, ma tramite il lavoro del pensiero
avvicinano la materia alla filosofia trovando le determinazioni
universali, generi e leggi; così preparano quel contenuto del
particolare in modo che possa essere assunto nella filosofia. D'altro
lato esse contengono anche l'impulso
per il pensiero a procedere verso queste determinazioni concrete.
Nell'assumere questo
contenuto il pensiero sopprime l'immediatezza
ancora presente e l'essere-dato,
e insieme si sviluppa da se stesso. In questo modo, mentre è
debitrice del suo sviluppo alle scienze empiriche, la filosofia
conferisce al loro contenuto, al posto della certificazione del
constatare e del fatto empirico, la forma essenzialissima della
libertà (dell'apriori)
del pensiero e la conferma della necessità, così che
il fatto esponga e riproduca l'attività
originaria e completamente indipendente del pensiero»3.
Il neoidealismo, anziché contrastare il positivismo criticando i
suoi equivoci, gli ha concesso l’insensatezza della scienza e ha
sperato di riguadagnare una visione teorica del senso cercandola al
di qua o al di là della scienza, in qualche oggetto
originario che sarebbe precluso allo scienziato e accessibile solo al
filosofo – ad assicurarlo una intuizione primigenia, come nel caso
di Bergson, di Husserl o di Heidegger, oppure l'empiria
storica, come nel caso di Croce e di tanto marxismo. La filosofia si
inabissa così nella regressione narcisistica o nell'adesione
alla brutale fattualità.
Contro
l’onnipotenza del soggetto neoidealista insorge il neopositivismo.
Il suo terreno di coltura è la disfatta che la Mitteleuropa subisce
nella prima guerra mondiale, dunque un pressante bisogno di rottura
con il passato, un desiderio di iniziare tutto da capo. Da questo
terreno così arido non può che nascere una riproposizione
dell’oggettivismo, dunque della vecchia intolleranza nei confronti
della teoria. Nel contesto del neopositivismo originario la teoria
scientifica consiste in un immenso giro di parole, in una
proliferazione tautologica, il cui senso è basato tutto
sull’ancoraggio a proposizioni protocollari, ossia immediatamente
percettive. È questa immediatezza percettiva e il rispetto del
principio di identità nelle inferenze logiche ciò a cui il primo
neopositivismo riduce la scienza e il discorso razionale in genere.
La sua irrilevanza per i problemi più intimi del soggetto, per
quello che Hegel chiamava libertà, è espressa con brutalità
da Wittgenstein, insieme all’imposizione del silenzio su quei
problemi.
Il rozzo rifiuto
della filosofia comporta un’immagine della scienza così barbarica
da far apparire comprensibile persino il suo rifiuto
irrazionalistico: il ridurre la scienza a risultato di una ottusa
induzione, anziché consolidarla contro il disprezzo neoidealista o
esistenzialista, costituisce un argomento a favore di questo
disprezzo. Di qui la genesi del falsificazionismo popperiano: esso
vuole restituire dignità teorica alla scienza, restituire un qualche
senso alla filosofia, distinguerle dall’ideologia per combattere
quest’ultima. Questi nobili obiettivi sono però preclusi a Popper
dai suoi pregiudizi positivisti, dalla sua profonda estraneità alla
filosofia e dalla sua vicinanza all’ideologia neoliberale.
Il
falsificazionismo vuole indicare un criterio che consenta di
accettare o respingere una teoria scientifica senza impegnarsi a
comprenderla e a criticarla con mezzi puramente logici. In questo
accetta l’idea tradizionale della logica, fatta propria anche dal
neopositivismo, come di una scienza puramente analitica, in cui
possono esserci non contraddizioni necessarie ma soltanto errori di
calcolo. Ciò che per Popper rende scientifica una teoria è un
legame con l’esperienza, ma non il legame induttivo ancora
caldeggiato dal neopositivismo, per il quale i fatti singoli sono
dunque in grado di verificare una teoria. Popper respinge la
verificabilità induttiva come indice della scientificità di una
teoria facendo ricorso al vecchio argomento che una teoria è
universale, cioè vale per infiniti casi, dunque non può essere
verificata come tale da un numero comunque finito di conferme. A
dispetto della sua antichità si tratta però di un argomento
insostenibile. Esso infatti priva, senza avvedersene, l’esperienza
della sua essenza temporale. ‘L'esperienza
è temporale’ significa: ogni suo fenomeno si differenzia, la
permanenza gli è estranea. Mentre gli oggetti logici, cioè i
significati delle parole, ciò che Platone chiamava ‘idee’,
restano uguali a se stessi, gli oggetti empirici sono il continuo
tradimento della propria identità. Che dunque dopo il primo cigno
bianco ci sia un secondo cigno bianco, in virtù della temporalità
dell’esperienza, non è affatto banale e interpretabile come
mera coincidenza da sottomettere a un disperato calcolo delle
probabilità: in virtù della natura differenziante dell'empiria
è invece banale la deriva da se stessi dei cigni e del colore del
loro piumaggio; che questa deriva non si verifichi, che ci sia un
secondo cigno e che sia di nuovo bianco, implica il conatus
del conservare se stessi contro la corrente differenziante del
divenire, manifesta una identità nella variazione, dunque una legge,
una universalità. E la scienza consiste nel formularla in questa
proposizione: ‘Il cigno è bianco’, ossia l'oggetto
universale ‘cigno’, identico a sé secondo una legge, implica,
secondo una legge da trovare (per esempio le necessità del mimetismo
o della concorrenza per l'accoppiamento),
la bianchezza come legge. Questa è l’induzione quale l'hanno
intesa Aristotele e la tradizione filosofica. Essa non mira affatto
alla proposizione: ‘Tutti i cigni sono bianchi’, che non è una
legge, ma una constatazione empirica in forma universale. Il
rifiuto popperiano dell'induzione
scambia l'universalità
qualitativa della legge, che si manifesta nel semplice ‘parecchi’,
con l'universalità
formale del quantificatore ‘ogni’, e la sua paura di sbagliare
testimonia la paura della verità. La verità ha infatti un momento
induttivo: essa è accordo tra il concetto e la cosa, dunque, nel
caso delle teorie scientifiche, tra la teoria e l’esperienza.
Rifiutato il
contatto induttivo con l’esperienza sull'onda
della polemica contro il neopositivismo, Popper intende tuttavia
restare empirista, vuole quindi che l'esperienza
discrimini tra scienza e non scienza. E argomenta così: se non può
verificare l’universale, il particolare empirico può almeno
falsificarlo; dunque è scientifica la teoria che si espone alla
falsificazione facendo previsioni empiriche; se l’esperienza le
smentisce, allora la teoria scientifica sarà falsa; se l’esperienza
le conferma, non per questo verifica la teoria, semmai la corrobora;
dunque la teoria non sarà mai vera, sarà semplicemente
verosimile, ossia avremo un motivo per sceglierla e usarla al
posto di un’altra teoria meno corroborata.
La conseguenza
dell’idea di corroborazione è devastante. Significa: dalla scienza
non possiamo aspettarci nessuna verità; come le teorie del passato
si sono mostrate non vere, così le attuali teorie che le hanno
sostituite si mostreranno a loro volta non vere. Di conseguenza, come
contro il fanatismo, anche contro l'esigenza
di verità va pronunciato l’appello con cui Voltaire siglava le sue
lettere: «Écrasez l’Infâme». L'antica
distinzione tra δόξα ed ἐπιστήμη
è cancellata; ogni ἐπιστήμη
è solo δόξα
e l’epistemologia, anziché teoria della scienza, diventa
dossologia e teoria dell’impossibilità della scienza vera,
impossibilità del discorso oggettivo.
Popper odia Hegel
con tanta intensità da abbandonarsi spesso a insulti penosi. La sua
conoscenza degli scritti del filosofo è però così vaga che
risulterebbe insufficiente perfino in un liceo mediocre: anche quando
concede che la dialettica sia una buona descrizione empirica del
progresso delle scienze, in realtà ne ha un’immagine non solo
semplificata ed assimilata alla sua epistemologia, ma essenzialmente
estranea all'autentico
metodo hegeliano, che non è solo dialettico, ma
dialettico-speculativo. Per Popper questo metodo consisterebbe nel
constatare che di solito a una certa teoria unilaterale viene opposta
un’altra teoria unilaterale e che esse confluiscono in una terza
teoria – la tesi, l’antitesi e la sintesi inventate chi sa
quando dai manuali di filosofia e insinuate in Hegel. Il metodo
hegeliano consiste invece nel compenetrarsi dei momenti a)
intellettuale-dogmatico, b) razionale negativo o dialettico, c)
razionale positivo o speculativo4.
Le differenze sostanziali tra la vulgata popperiana e il metodo
filosofico autentico sono due. In primo luogo, ogni teoria
scientifica è criticabile con mezzi puramente logici, ossia non
occorre affatto attendere il fallimento delle sue previsioni per
individuarne i limiti (e viceversa il fallimento di una sua
previsione non ne decide affatto il destino), essi sono insiti nelle
sue determinazioni positive, per il principio spinoziano che ‘omnis
determinatio est negatio’ (certo, per farlo occorre rinunciare
alla comodità dell'attendere
e impegnarsi a studiare la teoria): la dialettica è la confutazione
di ogni verità e neanche le determinazioni più semplici e sicure
possono resisterle. Ma, in secondo luogo, la confutazione di una
teoria non autorizza affatto a buttarla via come
un'immondizia: mostrando
che la teoria T è confutata, la dialettica ha nel contempo
dimostrato la verità della teoria non-T; dunque T non è
svanita nel nulla e sostituita da un'altra
teoria immigrata da un'altra
regione; è sostituita da non-T, ossia, mentre è negata, nel
contempo è anche conservata nella sua negazione, è cioè ridotta a
momento della nuova teoria non-T. La speculazione, che ormai,
anche in filosofi importanti, muove al massimo un sorriso supponente,
che particolarmente tra i marxisti è sinonimo di ‘mistificazione’,
è invece la capacità di invertire il principio spinoziano e di
comprendere che ‘omnis negatio est determinatio’, che la
stessa negazione di una teoria è la nuova teoria, che la
ragione non si distoglie da ciò che come dialettica ha confutato per
cercare idee altrove, ma indugia nel negato e, come speculazione, vi
trova la nuova teoria.
L'entrata
in campo del momento speculativo cambia tutto nella considerazione
del progresso della ragione. Esso non consiste affatto in un
progresso della verosimiglianza indeterminata di teorie comunque non
vere, ossia in un progresso da una congettura a un’altra
congettura, consiste invece nella particolarizzazione della verità
elementare, cioè dell’idea assoluta, che altro non è che lo
stesso metodo dialettico-speculativo5.
Se il falsificazionismo passa da una falsità a una nuova falsità,
il metodo filosofico, che è al tempo stesso l'anima
della realtà, nel falsificare ogni verità la conserva in quella
successiva, in modo che nulla di ciò che la ragione ha determinato
va perduto, ma resta come base semplice degli sviluppi successivi. E
così è anche empiricamente. Solo un accecamento ideologico o
l’ignoranza della tradizione potrebbe opinare che le geometrie non
euclidee rendano la geometria euclidea un'immondizia,
che nell'astronomia
copernicana non sia conservata l'astronomia
tolemaica, che Einstein abbia sostituito Newton senza nel contempo
conservarlo. No. Le nuove teorie confutano l'estensione
universale di quelle precedenti, e proprio per questo ne conservano
la verità come proprio elemento particolare. Questo
conservarsi del negato nella sua negazione è l'anima
logica della verità.
La riduzione
della scienza a una sequenza di congetture provvisorie è
un’ideologia nel senso marxiano del termine: una concezione
logicamente insufficiente che si afferma in soccorso di interessi
particolari. Il falsificazionismo sa scorgere il momento dialettico
della ragione negativa, ma non sa scorgere il momento speculativo
della ragione positiva. La dialettica senza speculazione è però
scetticismo. Lo scetticismo ha conosciuto la sua nobiltà
soltanto nell'epoca
antica, quando seppe essere universale, non limitandosi a
confutare la teoria ma applicando la propria corrosività anche alla
certezza sensibile. Con le sue smanie di persecuzione contro la
teoria, con la sua fiducia nella certezza sensibile degli asserti
base, il falsificazionismo rientra a pieno titolo nello scetticismo
moderno. Per quanto si spacci come lotta al tradizionalismo
autoritario (ma nessun riferimento alla tradizione è per sé
autoritario), la sua benevolenza verso la fattualità prende una
precisa piega conservatrice, fino a farne il sostrato ideologico del
liberalismo di von Hayek, che, proprio a partire dal presupposto
popperiano della minimalità e dell'incertezza
della scienza in nostro possesso, condanna ogni intervento dello
Stato che non sia in difesa dell'ordine
economico fattuale. Che si debbano criticare le teorie sulla
base dei fatti ha dunque la sgradevole conseguenza che la critica può
fermarsi all’interno della scienza e lasciare intatto il mondo
extra scientifico, il mondo della vita. Il mondo della vita,
l’insieme dei fatti particolari a cui la scienza deve sottostare
come criterio ultimo, è però il mondo anglosassone con la sua
ritualità democratica, il suo mercato onnipotente e il suo
imperialismo spietato, nel quale già a partire da Bacone la scienza,
anziché il fine dell’uomo, è lo strumento di valorizzazione del
capitale. Di questo triste mondo il falsificazionismo è l’ideologia.
1
Cfr. Aristotele, De interpretatione, cap. 7, 17 a-b.
2
Una volontà che diventa irresistibile quando lo Stato di cui si fa
parte subisce una sconfitta in un confronto bellico: oscurare il
passato significa dimenticare la catastrofe. Il positivismo
intollerante della metafisica e della tradizione è legato al crollo
dell'impero napoleonico e
al crollo dell'impero
austriaco.
3
Nota al § 12 dell'Enciclopedia
delle scienze filosofiche. Traduzione nostra.
4
Cfr. il § 79 dell'Enciclopedia
e i tre seguenti.
5
Ciò che nel brano sopra citato Hegel chiama «forma essenzialissima
della libertà».
lunedì 29 maggio 2017
Inutili e dannosi
Come sempre, D'Alema, Bersani e compagnia...
http://www.senso-comune.it/ferdinando-pastore/articolo-1-un-triste-malinconico-rimpianto-del-tempo-fu/
http://www.senso-comune.it/ferdinando-pastore/articolo-1-un-triste-malinconico-rimpianto-del-tempo-fu/
lunedì 22 maggio 2017
sabato 20 maggio 2017
Chiamami Genova - quali prospettive per questo nuovo soggetto politico?
di Fabrizio Tringali
Sto collaborando al progetto "Chiamami Genova", qui condivido alcune riflessioni sulle prospettive di questo nuovo soggetto politico
In questa breve riflessione, volutamente non mi soffermerò su aspetti programmatici locali, né su questioni generali come la crisi, il rapporto con il governo regionale e nazionale, il patto di stabilità. Sono tutte questioni fondamentali, ma ce n'è una che va messa a fuoco molto bene, prima di trattare di tutto questo, se si vuole offrire una vera alternativa alla città.
Tale questione attiene al rapporto con il potere.
lunedì 15 maggio 2017
Una recensione a Stiglitz
Giorgio La Malfa recensisce il libro di Stiglitz sull'euro, da poco uscito per Einaudi:
http://appelloalpopolo.it/?p=30761
http://appelloalpopolo.it/?p=30761
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sabato 13 maggio 2017
giovedì 11 maggio 2017
In bagno tutti assieme
Meglio ancora se ci si tiene per mano cantando "per fare un tavolo ci vuole il legno.."
http://bari.repubblica.it/ cronaca/2016/11/06/news/_ operai_in_bagno_tutti_insieme_ a_bari_e_torino_il_diktat_ dell_azienda_per_evitare_ sprechi_di_tempo-151426851/
(si ride per non piangere, ovviamente. C'è bisogno di spiegare che tutto questo c'entra con l'euro, con Maastricht, con il neoliberismo ecc.ecc.? Spero di no, almeno fra di noi...)
http://bari.repubblica.it/
(si ride per non piangere, ovviamente. C'è bisogno di spiegare che tutto questo c'entra con l'euro, con Maastricht, con il neoliberismo ecc.ecc.? Spero di no, almeno fra di noi...)
mercoledì 10 maggio 2017
Ancora sulle elezioni francesi
Mimmo Porcaro scrive un'analisi lucida e condivisibile
http://www.socialismo2017.it/2017/05/09/ne-destra-ne-sinistra-riflessioni-leliseo/
http://www.socialismo2017.it/2017/05/09/ne-destra-ne-sinistra-riflessioni-leliseo/
martedì 9 maggio 2017
Macron vuol fare quello che ha fatto lui
Cioè distruggere la domanda interna, diminuire il PIL, aumentare il rapporto debito/PIL...
http://www.huffingtonpost.it/2017/05/08/mario-monti-macron-vuole-fare-quello-che-io-ho-provato-a-fare_a_22076121/?utm_hp_ref=it-homepage
http://www.huffingtonpost.it/2017/05/08/mario-monti-macron-vuole-fare-quello-che-io-ho-provato-a-fare_a_22076121/?utm_hp_ref=it-homepage
lunedì 8 maggio 2017
Un breve commento sulle elezioni francesi
Le elezioni francesi ci permettono di precisare quanto abbiamo detto in questi anni in tema di UE ed Euro, mettendo a fuoco le idee che si sono rivelate adeguate ai fatti e correggendo gli inevitabili errori.
Abbiamo sempre scritto che il sistema Euro/UE sarebbe diventato il punto cruciale dello scontro politico, e che l'impoverimento generale, la perdita di diritti e di democrazia che esso genera avrebbe causato la crescita di movimenti di contestazione, fino alla sua probabile dissoluzione. Ci sembra di poter confermare questa impostazione. Non avevamo però tenuto conto della lentezza di questi processi e della capacità del sistema di generare al proprio interno soluzioni conservative. Di fronte alla crescita del consenso alle posizioni antieuriste, la reazione dei ceti dominanti si sta concretizzando nella creazione di personaggi artificiali come Renzi in Italia e Macron in Francia. In questi paesi, così come in Grecia con Tsipras, l'elettorato si allontana dai propri riferimenti tradizionali, ma si lascia affascinare da leader che hanno tutti caratteristiche simili: giovane età, apparente distanza dall'establishment, posizioni euriste. Grazie a questa mossa, vincente nel breve termine, i ceti dirigenti euristi hanno guadagnato tempo, col quale possono proseguire nell'opera di impoverimento dei ceti subalterni, di distruzione dei diritti, di svuotamento della democrazia . Tutte le contraddizioni del sistema euro/UE restano irrisolte, e certamente esploderanno. Difficile però prevedere i tempi.
Abbiamo sempre scritto che il sistema Euro/UE sarebbe diventato il punto cruciale dello scontro politico, e che l'impoverimento generale, la perdita di diritti e di democrazia che esso genera avrebbe causato la crescita di movimenti di contestazione, fino alla sua probabile dissoluzione. Ci sembra di poter confermare questa impostazione. Non avevamo però tenuto conto della lentezza di questi processi e della capacità del sistema di generare al proprio interno soluzioni conservative. Di fronte alla crescita del consenso alle posizioni antieuriste, la reazione dei ceti dominanti si sta concretizzando nella creazione di personaggi artificiali come Renzi in Italia e Macron in Francia. In questi paesi, così come in Grecia con Tsipras, l'elettorato si allontana dai propri riferimenti tradizionali, ma si lascia affascinare da leader che hanno tutti caratteristiche simili: giovane età, apparente distanza dall'establishment, posizioni euriste. Grazie a questa mossa, vincente nel breve termine, i ceti dirigenti euristi hanno guadagnato tempo, col quale possono proseguire nell'opera di impoverimento dei ceti subalterni, di distruzione dei diritti, di svuotamento della democrazia . Tutte le contraddizioni del sistema euro/UE restano irrisolte, e certamente esploderanno. Difficile però prevedere i tempi.
Nel frattempo, in Francia la sinistra liberista viene spazzata via, almeno in queste elezioni presidenziali. Questa è ovviamente un'ottima cosa, come pure è bene che nasca e abbia una forza significativa la sinistra di Melenchon, critica verso il sistema euro/UE. Il rischio è che essa prenda le sembianze di una Syriza alla francese, fatto che spianerebbe la strada alla vittoria del partito erede del Front National (il quale, non a caso, annuncia cambiamenti interni per cercare la vittoria alle prossime sfide elettorali).
Le drastiche misure che i governi euristi prenderanno, a partire proprio da quello francese, non faranno che far crescere ulteriormente la forza dei soggetti politici antieuropei. Come ripetiamo da anni (avendo, in questo, centrato il punto), se non emergeranno soggetti politici popolari capaci di traghettare i paesi fuori dalla gabbia europea, questo compito sarà assolto da forze di destra, anche estrema, aprendo scenari del tutto imprevedibili.
Le drastiche misure che i governi euristi prenderanno, a partire proprio da quello francese, non faranno che far crescere ulteriormente la forza dei soggetti politici antieuropei. Come ripetiamo da anni (avendo, in questo, centrato il punto), se non emergeranno soggetti politici popolari capaci di traghettare i paesi fuori dalla gabbia europea, questo compito sarà assolto da forze di destra, anche estrema, aprendo scenari del tutto imprevedibili.
(Marino Badiale, Fabrizio Tringali)
lunedì 1 maggio 2017
Due paragrafi da Hegel (Paolo Di Remigio)
(Paolo Di Remigio ci invia una riflessione su Stato e libertà, svolta a partire da due paragrafi dei "Lineamenti di filosofia del diritto" di Hegel. Pubblichiamo con piacere. M.B.)
Due paragrafi dai ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel
Il fascismo e il
liberalismo concordano nel presupporre l'esistenza
di un contrasto insanabile tra persona e potere. Il fascismo sceglie il potere
ed esclude il pluralismo dalla società annullando la persona; il liberalismo
sceglie la persona, minimizza il potere e dissacra le leggi: come la sua
epistemologia nega che esse determinino la prima natura così la sua etica rifiuta
il valore della tradizione. È però destino delle ideologie contrastanti
confluire l'una nell'altra: Popper non ha
nascosto la sua simpatia per l'imperialismo,
in particolare per quello anglo-sassone, von Mises, von Hayek e Friedman non
hanno negato la loro vicinanza alla versioni liberali del fascismo. Il rifiuto
liberale del potere dello Stato diventa condiscendenza ai poteri fattuali,
proprio come nel fascismo lo svanire della persona conferisce alla gestione del
potere un carattere personalistico.
Nell'avvicinarsi all'imperialismo e al fascismo,
il liberalismo si allontana dalla realtà e sceglie la via della calunnia dello
Stato e dei suoi teorici – Platone, Aristotele, Hegel. Così gli Stati-nazione sono
ridotti ad inizi tribali della civiltà, mentre questa è identificata con la
forma di impero. La minima informazione storica mostra però che gli Stati sorgono
contro gli imperi, contro i privilegi che una etnia vi gode
rispetto alle altre. Gli Stati moderni sorgono dall'estinguersi dell'impero
medievale; gli ultimi Stati nazionali europei sorgono contro l'impero austro-ungarico, gli
Stati nei continenti non europei si formano liberandosi dagli imperi coloniali.
È dunque falso retrocedere lo Stato-nazione al tribalismo e credere che
l’impero sia garanzia della persona; proprio nella sua società multiculturale si
radica il razzismo che i liberali cercano di attribuire allo Stato-nazione.
La parola
‘nazionalismo’ li aiuta a creare l'equivoco:
essa non indica la formazione degli Stati-nazione, non il sottrarsi di un
popolo alla dipendenza imperiale, come sarebbe lecito attendersi, ma concerne
il periodo del tardo Ottocento, in cui alcuni Stati concorsero a costituirsi
come imperi procurandosi un retroterra coloniale. ‘Nazionalismo’ è dunque sinonimo
di ‘imperialismo’; proiettando però sulla natura dello Stato-nazione ciò che è proprio
della natura dell'impero,
questa parola toglie all'imperialismo
liberale il suo impresentabile fardello e lo addossa allo Stato-nazione. Per un
analogo equivoco oggi accade che l'umanitarismo
anti-razzista sia uno degli strumenti con cui l'oligarchia
liberale padrona dell'impero
anglo-americano destabilizza gli Stati europei.
Lo Stato è la soluzione
del contrasto tra potere e persona, dalla cui pretesa insuperabilità si
generano il fascismo e il liberalismo. La concezione fascista del primato del
potere contro la persona e la concezione liberale del primato della persona
contro il potere sono però entrambe inconsistenti: come la polemica contro la
persona per il potere ha per risultato il potere tirannico di una persona, così la polemica contro il
potere per la persona porta alla stessa tirannia della persona privata sulle
altre persone. In questa mutevolezza logica delle due concezioni opposte è
contenuta, in forma negativa, la vera conciliazione tra potere e persona; la
teoria hegeliana dello Stato, esposta nei due seguenti paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto[1],
ne determina il significato positivo.
§ 260
Lo Stato è l’effettività della libertà concreta[2]. La libertà concreta consiste in ciò:
che la singolarità personale e i suoi interessi particolari, mentre
hanno lo sviluppo completo e il riconoscimento per sé del loro diritto (nel sistema della famiglia
e della società civile),
in parte si convertono per
natura propria nell'interesse dell'universale, in parte lo riconoscono col sapere e col volere come proprio spirito sostanziale, e sono attivi in suo favore come per il loro scopo finale[3]; in modo che l'universale non valga e non
sia attuato senza l'interesse, il sapere e il
volere particolari, e che gli individui non vivano, come persone private, soltanto
per l'interesse particolare, senza avere volontà anche
nell'universale e per l'universale,
e operosità consapevole di questo fine[4].
Il principio degli Stati moderni ha questa forza e profondità
formidabili: lascia che il principio della soggettività si compia nell'estremo indipendente della particolarità
personale e insieme lo riconduce nell'unità sostanziale, e in quell'estremo
conserva questa unità[5].
§ 261
Verso le sfere del diritto privato e del benessere privato, della
famiglia e della società civile, lo Stato è, da un lato, una necessità esterna e la potenza loro superiore: le
loro leggi e i loro interessi sono subordinati alla sua natura e ne sono
dipendenti[6];
d'altro lato, lo Stato è il loro fine immanente e la sua forza è nell'unità
tra il suo scopo finale universale e l'interesse particolare degli
individui, è in ciò: che gli individui hanno doveri nei suoi confronti in quanto hanno anche diritti[7].
Come si è già osservato
sopra, soprattutto Montesquieu, nella sua celebre opera Lo spirito delle leggi, ha preso in considerazione ed ha anche
cercato di rappresentare in dettaglio il pensiero che le leggi, in particolare
quelle del diritto privato, dipendono dal carattere determinato dello Stato, e
la prospettiva filosofica che considera la parte solo in riferimento al tutto[8].
– Poiché il dovere è innanzitutto il rapporto verso qualcosa di sostanziale per me, mentre il diritto è l'esistere in generale di questo
sostanziale, quindi l'aspetto della sua particolarità e della mia libertà particolare, nei gradi formali dovere e
diritto appaiono distribuiti su diversi lati, su diverse persone[9]. Essendo
etico, essendo compenetrazione del sostanziale e del particolare, lo Stato implica
che la mia obbligazione rispetto al sostanziale è, insieme, l'esistere
della mia libertà particolare; cioè che dovere e diritto vi sono riuniti in uno stesso riferimento[10].
Poiché però nello Stato i momenti differenti giungono anche alla configurazione
e realtà proprie, e si ripropone quindi la differenza tra diritto e dovere,
allora questi sono diversi per il loro
contenuto, pur essendo identici in sé,
cioè formalmente. Nell’ambito del diritto privato e della morale manca la
necessità effettiva del riferimento,
c'è
quindi soltanto l'uguaglianza astratta del contenuto; in queste sfere
astratte, ciò che è diritto per uno deve essere diritto anche per l'altro,
e ciò che è dovere per uno deve essere dovere anche per l'altro.
Quell'identità
assoluta di dovere e diritto ha luogo solo come uguale identità di contenuto, nella determinazione che questo stesso
contenuto è il contenuto del tutto universale, cioè il principio unico del
dovere e del diritto, la libertà personale dell'uomo. Gli
schiavi non hanno doveri perché non hanno diritti e viceversa – (qui non si
parla di doveri religiosi). – Ma nell'idea concreta in sviluppo
interno, i suoi momenti si differenziano, e la loro determinatezza diventa,
insieme, un contenuto diverso; nella famiglia il figlio non ha diritti dello stesso contenuto dei doveri che ha
verso il padre, e il cittadino non ha diritti dello stesso contenuto dei doveri che ha verso il principe e l'autorità[11].
– Quel concetto di
unione di dovere e diritto è una delle determinazioni più importanti e contiene
l'intima forza degli Stati[12]. –
Il lato astratto del dovere si ostina a trascurare e a bandire l'interesse
particolare, come se fosse un momento inessenziale, anzi indegno[13]. La
considerazione concreta, l'idea[14],
mostra come altrettanto essenziale il momento della particolarità e come
assolutamente necessaria la sua soddisfazione; bisogna che, nell'adempiere
il suo dovere, l'individuo trovi in
qualche modo anche il proprio interesse, la soddisfazione o tornaconto, e che
dal suo comportamento nello Stato gli maturi un diritto per cui la cosa
pubblica diventa la cosa sua particolare[15]. In
verità l'interesse particolare, anziché dover essere messo da
parte e addirittura represso, deve essere armonizzato con l'universale,
un'armonia che conserva l'interesse
particolare e l'universale. L'individuo,
suddito per i suoi doveri, nel loro adempimento trova come cittadino la protezione
della sua persona e della sua proprietà, l'attenzione
al suo benessere particolare e la soddisfazione della sua essenza sostanziale,
la coscienza e il sentimento intimo di essere membro di questo tutto, e nell'adempimento
dei doveri come prestazioni e attività per lo Stato, lo Stato si conserva e
sussiste. Secondo il lato astratto l'interesse dell'universale
sarebbe soltanto che le sue attività, le prestazioni che richiede, siano
compiute come doveri[16].
[1] La
traduzione dei due paragrafi è nostra.
[2]
Astratto e concreto sono nella relazione di monofonico e polifonico: il pathos
hegeliano per il concreto nasce dalla consapevolezza della natura non semplice,
ma articolata della verità (adaequatio
rei et intellectus). – ‘Libertà’ è indipendenza assoluta; essa ha un
significato innanzitutto negativo, semplice: è la capacità del singolo di
elevarsi su tutto, di preferire la morte alla vita; ‘libertà effettiva’ ha
invece significato positivo, polifonico, quello del riconoscimento dell’altro
non come un estraneo ma come un identico a sé. Nel riconoscimento l'io intuisce nell'altro la stessa assolutezza
che si riconosce, dunque lo rispetta. Paradigma del riconoscimento, della
libertà concreta effettiva, è dunque l'amicizia.
Lo Stato è lo sviluppo di un legame di amicizia.
[3]
Lo Stato è l’armonia di particolare e universale. Particolare e universale sono
determinazioni opposte: ‘particolare’ significa infatti ciò che si differenzia,
che è in contrasto, ‘universale’ è invece l’omogeneità, la comunanza. Nel senso
della politica, ‘particolare’ è l'individuo
esclusivo, la persona privata con i
suoi interessi; ‘universale’ è il potere pubblico
che fa valere l’interesse comune.
L’interesse della persona privata è la felicità, il benessere per sé e per chi
sente vicino; perseguirla può comportare una collisione con l'interesse comune. Due sono
i casi più eclatanti di collisione: l’imposizione fiscale, per cui il privato
deve rinunciare a parte del suo patrimonio in favore del patrimonio pubblico;
il servizio militare, per cui il privato deve mettere in pericolo la vita e l'integrità fisica in favore
della conservazione dello Stato. – La concretezza della libertà dello Stato
implica che vi è riconciliato ciò che al di fuori di esso è contrastante: da
una parte il diritto del singolo alla realizzazione di sé e al godimento dei
suoi diritti, dall'altra
il suo dovere, la sua soggezione, nei confronti della sfera pubblica. Questa
conciliazione del contrasto tra privato e pubblico si svolge su due piani, il
primo inconsapevole, il secondo consapevole. Sul piano inconsapevole: gli stessi interessi privati hanno un implicito carattere pubblico, in quanto
si realizzano attraverso l'attività
essenzialmente sociale del lavoro e
dello scambio; perseguire i propri
interessi nel contesto degli interessi altrui implica l’agire secondo le leggi,
quindi dare esistenza alle leggi; questo far esistere l’universale è il
convertirsi dell'interesse
particolare nell'interesse
comune per natura propria. Sul piano consapevole: gli individui, non solo
quelli che si dedicano agli affari pubblici ma anche i privati in generale, per
lo meno nella lealtà fiscale e nella disposizione a mettersi in pericolo per la
patria, assumono esplicitamente l'interesse pubblico come proprio interesse.
[4]
Solo in quanto vi sono soddisfatti l’interesse privato e l'interesse
pubblico lo Stato è libero. Nello Stato libero le leggi non sono attuate per
paura, ma in quanto l'individuo
vi scorge il proprio interesse; viceversa, lo Stato libero non è fatto di
persone estranee alla dimensione pubblica e chiuse nel loro interesse privato,
è fatto invece di cittadini, di individui che si pongono come fine del loro
agire la produzione e la conservazione della sfera pubblica. Spesso si parla di
‘persona’ e dei suoi ‘diritti naturali’ per indicare la dignità estrema
dell’uomo. La persona senza lo Stato è però un dover-essere, un diritto a cui
può non corrispondere la realtà; solo in quanto c’è lo Stato il diritto è
reale, il torto un'eccezione,
e in quanto è impegnata nella realizzazione del diritto comune, la persona non
è soltanto persona, è cittadino. Essere
cittadino è dunque la dignità più profonda dell'uomo.
[5]
Hegel riassume quanto ha appena esposto. A differenza dello Stato antico,
quello ellenico, che si corrompe con l'emergere
della particolarità individuale – per esempio Alcibiade –, lo Stato moderno, risultato di una dura
educazione dell'individuo
e di una altrettanto lunga articolazione architettonica dello Stato, è questo
equilibrio tra l'estremo particolarizzarsi dell'individuo e il suo essere produttore dell'interesse universale, del
bene comune.
[6]
Le leggi dello Stato prevalgono sulla coscienza individuale, i suoi interessi
prevalgono sugli interessi privati – questa è la ragione dell'odio che il liberalismo gli
riserva. È però una prevalenza dettata non da una irrazionale ‘sete di potere’,
ma dalla natura delle cose. Da una parte, infatti, nella concorrenza tra gli
interessi privati non si produce alcuna armonia involontaria, nessuna ‘mano
invisibile’, ma si genera un conflitto effettivo che è regolato da un potere
esterno alla concorrenza stessa; dall'altra
lo Stato non è sospeso nel vuoto, ma costretto entro i rapporti con gli altri
Stati. I rapporti internazionali sono un insuperabile stato di natura, nel
senso della possibilità della guerra
di tutti contro tutti. Nel contesto internazionale uno Stato può ottenere il
riconoscimento della sua libertà, un riconoscimento comunque precario, se e solo se si difende. La necessità di
difesa, la necessità che lo Stato sia libero, essendo condizione della stessa
libertà privata, pone l’interesse dello Stato al di sopra dell'interesse privato.
[7]
Lo Stato e le sue leggi sono una limitazione dell'arbitrio
degli individui. La forza dello Stato è la sua capacità di unire il suo
interesse universale all'interesse
particolare dell'individuo,
di rendere evidente la connessione tra dovere del cittadino e suo diritto. Su
questo punto torna la nota di Hegel.
[8]
Questa osservazione è a commento del primo periodo del paragrafo: la dipendenza
del diritto privato, quindi delle sfere della famiglia e della società civile,
dal diritto pubblico è stata già la prospettiva dello ‘Spirito delle leggi’ di
Montesquieu.
[9]
La sostanza è il permanente nella fluidità dell'accidentale.
Rapportandosi a un sostanziale l'individuo
si riconosce come accidentale: nell'individuo
il dovere è il riconoscimento della
propria accidentalità, dunque è sottomissione al sostanziale. Ma nel
sottomettersi al sostanziale, riconoscendo il dovere, l'individuo fa esistere in lui questo sostanziale, e in quanto nella sua particolarità è
sostanziale egli acquisisce il diritto; il diritto è dunque il dovere riflesso
nella particolarità. Per questa loro differenza di universalità e
particolarità, nei gradi formali –
prosegue Hegel – diritto e dovere si distribuiscono su persone e soggetti
differenti. I gradi formali sono il diritto
astratto e la moralità; in questi
gradi al mio dovere corrisponde un
diritto altrui, e viceversa: di per
sé il mio diritto di proprietà non implica doveri per me, implica per gli altri il dovere di rispettarlo;
il principio morale consiste addirittura nel dovere per il dovere, quindi nel
concedere un diritto agli altri senza aspettarsi che gli altri lo concedano.
[10]
A differenza dei gradi formali del diritto astratto e del dovere astratto
(della moralità), determinati dalla separazione
tra diritto e dovere, l'eticità
(cioè le sfere della famiglia, del lavoro e dello Stato) è determinata dall'unità di diritto e dovere: educare i figli è diritto e insieme dovere dei genitori, lavorare
è diritto e insieme dovere del cittadino, legiferare, decidere, giudicare è
diritto e insieme dovere dell'autorità. Che lo Stato sia etico significa in Hegel non che l'individuo sia assoggettato
alla totalità, che gli manchi cioè la personalità – come nel fascista Gentile,
ma esattamente il contrario: che nell'adempiere
il dovere il cittadino sente di esercitare nello
stesso tempo un diritto.
[11]
Poiché il diritto astratto e la morale hanno come attori enti in rapporto
soltanto casuale, quello la persona, questa il soggetto, nel loro ambito il
diritto e il dovere, spartiti su persone e soggetti irrelati, non vi hanno un
riferimento effettivo e così il loro legame è il dover-essere di uno stesso contenuto: le persone e i soggetti devono avere gli stessi diritti. Nello
Stato il diritto e il dovere sono connessi ai rapporti concreti tra attori
presi nella loro differenza essenziale; quindi all'interno della famiglia l'identico diritto-dovere
dell'educazione è per
il figlio connesso al dovere di obbedire, per i genitori al dovere di dirigere,
all'interno dello
Stato l'identico
diritto-dovere della legalità è per il cittadino
il dovere di obbedire alle leggi, è per l'autorità il dovere di promulgare e far
rispettare le leggi; si tratta cioè di doveri identici per la forma (l'educazione nel primo caso,
la legalità nel secondo), differenti per il contenuto, in quanto sono
differenti gli attori che partecipano della stessa forma.
[12]
Che Hegel abbia pensato la storia come il teatro della brutalità è una calunnia
che ha avuto l'effetto
di scoraggiare a tal punto la lettura dei suoi testi da non poter essere
smentita. Per Hegel la forza di uno Stato non è nella pervasività della propaganda
o nell'onnipotenza
della sua polizia o nel numero delle baionette, risulta invece dal grado di
immediatezza in cui sono legati diritti e doveri dei cittadini, dalla misura in
cui il cittadino sente di fare il proprio interesse facendo l'interesse dello Stato. È
questa libertà concreta che decide la superiorità di una forma di Stato
sull’altra e determina i verdetti del tribunale
della storia.
[13]
Questo è il punto di vista della moralità kantiana, per la quale l'azione deve essere compiuta non in vista del suo risultato per l'agente,
ma solo in quanto la massima che la ispira può essere elevata a legge
universale.
[14]
‘Idea’ per Hegel ha significato derivante da Platone, dunque non di
determinazione del pensiero soggettivo,
ma di verità, cioè di corrispondenza
tra pensiero e realtà: il concetto realizzato nella particolarità. Poiché è
unità di due lati, del concetto e
della realtà, per questa sua polifonia, l'idea
è concreta.
[15]
La stessa moralità kantiana, benché centrata sulla sublimità del dovere per il
dovere, non può infine permettersi di infrangere l'unità di dovere e diritto: l'indifferenza in cui,
secondo la ragione pratica, si trovano nel mondo empirico contraddice la
ragione pratica stessa; essa dunque postula un Dio che al dovere (alla virtù)
fa corrispondere il diritto (la felicità). Non occorreva però un salto
metafisico per trovare l'unità
di diritto e dovere: l'opera
del Dio kantiano è in realtà già svolta dallo Stato.
[16]
L'idea di Stato, cioè il suo concetto e la sua esistenza in qualche modo conforme
al concetto, implica che l'attuazione
dei doveri a cui il suddito è assoggettato sia immediatamente il godimento dei
diritti del cittadino, e non soltanto di quelli relativi alle sue soddisfazioni
particolari, ma il rispetto della sua essenza, della sua dignità.
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