Paolo Di Remigio commenta un articolo di Michael Löwy. Il testo di Löwy non è recente, ma è indicativo di come un intero strato dell'intellettualità "critica" internazionale tratta questi temi. Lo trovate qui:
Per comodità del lettore, abbiamo aggiunto alla fine del commento di Di Remigio, una traduzione, ad opera dello stesso Di Remigio. Ringraziamo ovviamente l'amico Paolo per il contributo.
(M.B.)
Paolo Di Remigio: Su globalizzazione e internazionalismo. Un commento a Löwy.
Nonostante il ‘Manifesto’ di Marx ed Engels abbia avuto un numero di pubblicazioni secondo soltanto alla Bibbia, per Löwy i due testi non avrebbero molto in comune; la loro differenza sostanziale sarebbe che Marx ed Engels non sperano in un dio, in un messia, per loro sono gli oppressi che liberano se stessi. A questa opinione va obiettato da una parte che Gesù esige da chi lo segue la conversione, ossia una vita da subito conforme a quella del Regno di Dio, dall'altra che il determinismo storico, di cui lo stesso Löwy lamenta la presenza nel ‘Manifesto’, libera gli oppressi a prescindere dalla loro azione, cioè svolge esattamente la funzione che il dio o il messia svolge nella religione cristiana.
D'altra parte, che gli oppressi liberino se stessi è una lettura troppo riduttiva delle idee di Marx ed Engels; e il ‘Manifesto’ non avrebbe avuto il suo successo se si fosse affidato a una fiducia così ingenua. Esso racconta invece una precisa evoluzione del proletariato, per cui da moltitudine dispersa diventa una massa omogenea e compatta; questa massa è però rivoluzionaria solo potentia, lo diventa actu quando diventa classe acquisendo consapevolezza di sé. E non l'acquista col semplice trascorrere del tempo, ma assorbendo i ceti medi proletarizzati, soprattutto quando ‘una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme’. Perché ci sia rivoluzione non basta essere oppressi, non basta essere riuniti dallo sviluppo produttivo in grandi masse omogenee e comunicanti; occorre essere classe sociale che disponga della comprensione teorica , cioè che sia guidata dagli intellettuali borghesi che abbandonano la loro classe: queste condizioni fanno della rivoluzione in potenza – la guerra civile più o meno occulta – una rivoluzione in atto.
Alla fine del primo capitolo del ‘Manifesto’ appare la seguente sintesi: ‘La condizione più essenziale dell'esistenza e del dominio di classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani dei privati, la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce all'isolamento degli operai, risultante dalla loro concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l'associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili’. In altri termini: la ricchezza borghese viene dallo sfruttamento del lavoro degli operai; gli operai sono in concorrenza tra loro, perciò sono incapaci di organizzarsi come classe e di dare battaglia; lo sviluppo industriale, a cui i borghesi sono costretti dalla concorrenza tra loro, tra borghesi, sopprime questa concorrenza tra lavoratori e li unisce in un'associazione rivoluzionaria invincibile. Marx ed Engels sono dunque perfettamente consapevoli della vera difficoltà che impedisce il passaggio dalla rivoluzione potenziale alla rivoluzione attuale: la concorrenza, che domina il rapporto tra i lavoratori. Il capitalismo fa dei lavoratori non pura forza lavoro, essi non sono merce; ma li rende venditori indipendenti dell'unica merce di cui sono proprietari, della forza lavoro più o meno semplice, così li espone, come tutti i venditori, alla concorrenza, li rende nemici.
Basta una minima riflessione per accorgersi di quanto sia illusoria la speranza del ‘Manifesto’. La sintesi di Marx ed Engels presenta due errori. Innanzitutto la borghesia è concepita come agente passivo del progresso dell'industria – un'espressione contraddittoria che, se ha una plausibilità per il fatto che il singolo capitalista subisce il progresso dell'industria, d'altra parte non può negare il fatto che il progresso industriale diminuisce la domanda di forza lavoro rispetto alla sua offerta, aumenta cioè la concorrenza tra i lavoratori ed è dunque uno dei fondamenti del potere del capitalista su di loro. In secondo luogo, il progresso dell'industria riunisce gli operai dispersi in masse sempre più numerose, è vero, ma li riunisce come concorrenti, li aggrega senza che cessi la loro natura di atomi respingenti, non li costituisce come classe, perché si verifica sempre in modo da non toccare lo squilibrio tra un'offerta sempre eccessiva di forza lavoro e una domanda sempre carente. Le lamentele sull'alienazione della società di massa significano in fondo solo che il progresso industriale nel massificare non associa gli individui. Ne segue che il termine stesso di ‘masse rivoluzionarie’ a cui questo passo del ‘Manifesto’ potrebbe dare adito, termine così ricorrente nei discorsi ‘di sinistra’, è una contraddizione, un modo illusorio di risolvere la difficoltà principale della rivoluzione proletaria, quella della trasformazione delle masse in classe.
Se si deve rimproverare a Marx e ad Engels l'eccesso di ottimismo sugli effetti associativi dello sviluppo industriale sulle masse, si deve però riconoscere loro almeno la chiara visione della concorrenza tra i lavoratori. La sinistra attuale semplicemente ignora questo punto. Essa si riferisce ai lavoratori senza pensarli come proprietari in concorrenza e se li immagina come già associati in classe. Per questo l'eccessivo ottimismo di Marx ed Engels nella sinistra attuale si esaspera nella follia di identificare la globalizzazione con l'internazionalismo. La globalizzazione è in realtà la forma esasperata del libero scambio, lo strumento principale con cui la borghesia aumenta la concorrenza tra operai e spezza la loro unione come classe; ma la sinistra sogna che la classe operaia di dimensione internazionale sia già costituita, perciò ogni movimento capitalistico verso il globalismo sembra utile a facilitarle il compito della rivoluzione. In questo la sinistra rivela che di Marx ed Engels ha assorbito solo le illusioni e ha frainteso perfino l'appello con cui concludono il ‘Manifesto’: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» significa: «Superate la concorrenza tra voi che vi rende nemici e diventate classe», non significa affatto: «Rallegratevi dell'estendersi del libero scambio, dimenticate i confini e associatevi con gli operai delle altre nazioni». Infatti ‘la lotta del proletariato contro la borghesia è … all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la propria borghesia’.
Il riferimento tra nazionalismo e internazionalismo nel ‘Manifesto’ è complesso perché esso attribuisce alla borghesia una tendenza verso l'annullamento dello Stato-nazione, ma lo fa con grande insicurezza: da una parte la borghesia crea il mercato mondiale e così indebolisce l'isolamento e gli antagonismi nazionali; dall'altra il suo potere di aggregazione politica arriva allo Stato: ‘Province indipendenti … sono state strette in una sola nazione, in un solo governo, in una sola legge, in un solo interesse nazionale di classe, in un solo confine doganale’ – e non sembra poter andare oltre, perché il fatto che la borghesia ‘è di continuo in lotta … contro la borghesia di tutti i paesi stranieri’ impedisce la fusione tra gli Stati-nazione. Il parere ultimo di Marx ed Engels è che il superamento degli antagonismi nazionali, più che un effetto dell'estensione del mercato mondiale, segue il superamento dell'antagonismo di classe. Il proletariato non può farsi forte del mercato mondiale e della globalizzazione del libero scambio, perché questi sono in realtà meri strumenti della sua spogliazione, deve ‘conquistarsi prima il dominio politico (nazionale, certo!), elevarsi a classe dirigente della nazione, costituirsi in nazione’; ‘il proletariato stesso è nazionale, benché non certo nel senso della borghesia’. Insomma, le tendenze cosmopolite della borghesia sono limitate dagli antagonismi nazionali e la lotta del proletariato si svolge entro questi antagonismi; l'unificazione dell'umanità è un obiettivo aperto soltanto a proletariati nazionali che attraverso rivoluzioni nazionali siano diventati classe dirigente.
Löwy è lontano da tutta questa complessa pianificazione contenuta nel ‘Manifesto’; tutto il suo scritto ha un valore sentimentale. Poiché ignora completamente che la massa proletaria è divisa dalla concorrenza, che la sua organizzazione come classe è un compito, non un dato, la frase finale del testo gli appare ‘un proclama, una chiamata, un imperativo categorico’ all'internazionalismo. Anzi, mentre l'appello all'internazionalismo era soltanto visionario nel 1848, oggi gli sembra avere molte più chance, non perché l'organizzazione del proletariato mondiale in classe sia solida e sperimentata, ma perché il proletariato non è più solo minoranza, bensì maggioranza. Löwy non crede cioè che la rivoluzione sia il risultato dell'agire di una classe rivoluzionaria teoricamente illuminata, no, crede che la forza sia nel semplice essere maggioranza, nella massa. Poiché è massa il proletariato ‘è … la forza più potente nella lotta di classe contro il sistema capitalista globale’, anzi è l'asse attorno al quale altre forze sociali possono e devono orientarsi. E sembra quasi che la rivoluzione si faccia attendere per il ritardo con cui si orientano le altre forze sociali, le donne, le nazioni oppresse da altre nazioni, i disoccupati, i marginalizzati, gli ambientalisti.
Infine, però, Löwy non può nascondersi che alla massa proletaria manca ‘la pur minima coordinazione internazionale’, né può nascondere che questa coordinazione è sempre mancata, che l'internazionalismo ha mostrato finora una totale impotenza storica. Eppure il cuore non si arrende alla percezione e alla ragione; per questo vuole vedere ‘una nuova generazione’ che ‘ha riacquistato il senso dell'attività internazionalista’. Il problema, però, non è affatto se una generazione abbia o meno il senso dell'internazionalismo, qualunque cosa questo senso possa essere, ma se il proletariato, nazionale o internazionale che sia, sia organizzato come classe intelligente. Lo stesso Löwy se ne accorge e lamenta che ‘mentre nel XIX secolo i settori più consapevoli del movimento dei lavoratori, organizzati nell'Internazionale, erano in anticipo sulla borghesia, oggi sono relativamente, tragicamente, indietro’. Ne seguirebbe la necessità di iniziare la lotta dall'interno degli Stati. Löwy non lo riconosce; con un certo sforzo concede la possibilità di lotte nazionali, ma solo per andare al pezzo forte, all'appello finale: ‘Le lotte contemporanee sono … interdipendenti … La sola risposta razionale ed effettiva … al ricatto capitalista sulla delocalizzazione e sulla competitività … è la solidarietà dei lavoratori’. Qui Löwy si mette su un terreno scivoloso. Infatti, da una parte il capitalista non esiterà a dimostrare che proprio la delocalizzazione costituisce un atto di solidarietà dei lavoratori ricchi nei confronti dei lavoratori poveri: per effetto della concorrenza il salario dei primi scende, quello dei secondi sale fino a trovare un punto di equilibrio; così chi ha poco dà qualcosa del poco che ha a chi non ha nulla e i lavoratori di tutto il mondo saranno solidali condividendo la medesima povertà. D'altra parte la delocalizzazione può essere intesa solo come un ricatto per abbassare i salari più ricchi. Come possono i lavoratori spezzare questo ricatto con la solidarietà? Löwy non lo spiega, ma vediamo solo due strade aperte: la nobile tenacia dei lavoratori ricchi nel pretendere di lavorare per un salario superiore, così da favorire nel capitalista la scelta di delocalizzare e portare lavoro nei paesi poveri, oppure la nobile rinuncia al lavoro dei lavoratori poveri, che, informati del ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori ricchi, dichiarano: ‘Se è così, ci rifiutiamo di lavorare per questo capitalista ricattatore’. Se però il mondo fosse questa gara di generose nobiltà, non ci sarebbe bisogno né delle classi né della loro lotta.
Globalizzazione
e internazionalismo
Quanto
è attuale il Manifesto comunista?
Michael
Löwy è direttori di ricerca in sociologia al Centro nazionale di
ricerca scientifica di Parigi. È autore di ‘Il marxismo di Che
Guevara’ (Monthly Review, 1972) e di ‘On changing the world’
(Humanities Press. 1992). Una versione abbreviate di questo articolo
è stata pubblicata originariamente in New Politics (Winter, 1998).
Traduzione
di Paolo Di Remigio
Il
Manifesto comunista è lo scritto più conosciuto di Marx ed
Engels. Con la sola eccezione della Bibbia, nessun altro libro è
stato tradotto così spesso o ripubblicato così tante volte. Ma
cos’ha in comune con la Bibbia? Non molto, a parte la denuncia
dell'ingiustizia sociale in alcuni libri profetici. Come Amos o
Isaia, Marx ed Engels si sono pronunciati contro la nefandezza dei
ricchi e dei potenti e hanno alzato la voce in solidarietà con i
poveri e gli umili. Come Daniele, leggono la scrittura sulle pareti
della Nuova Babilonia: «Mene, Mene, Tekel Upharsin»: «I tuoi
giorni sono contati». A differenza dei profeti della Bibbia ebraica,
però, non ripongono nessuna delle loro speranze su un dio, su un
messia, su un supremo salvatore: la liberazione degli oppressi deve
essere opera degli oppressi stessi.
Un
secolo e mezzo dopo cosa resta del Manifesto comunista?
Durante la vita dei suoi autori, come riconobbero essi stessi nelle
loro numerose prefazioni per le sue varie edizioni, certe sue sezioni
e certi suoi argomenti erano già diventati obsoleti. Anche altri
sono divenuti così datati durante il secolo presente da richiedere
un riesame critico. Ma il senso generale del documento, il suo
nucleo, il suo spirito – esiste certamente qualcosa come lo
‘spirito’ di un testo– non hanno perso la loro forza e vitalità
originarie.
Questo
spirito deriva dalla sua qualità di essere insieme critico ed
emancipatorio – cioè dall'unità inestricabile tra analisi del
capitalismo e appello al rovesciamento del capitalismo, tra esame
della lotta di classe e dedizione alla classe sfruttata, tra analisi
chiara delle contraddizioni interne alla società borghese e utopia
rivoluzionaria di una società determinata dall'uguaglianza e dalla
mutua solidarietà, tra lucida spiegazione dei meccanismi guida
dell'espansione capitalista e richiesta morale di ‘rovesciare tutte
le condizioni nelle quali l'essere umano è disprezzato, abbandonato,
sminuito, asservito’i.
In
molti aspetti il Manifesto non è soltanto attuale – è
ancora più rilevante oggi di quanto lo fosse 150 anni fa. Prendiamo
per esempio la sua diagnosi della globalizzazione capitalista.
I due giovani autori rilevarono che il capitalismo aveva intrapreso
un processo di unificazione culturale ed economica del mondo sotto la
sua egida: «Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha dato un
carattere cosmopolita alla produzione e al consumo in ogni paese. Con
grande mortificazione dei reazionari ha sottratto all'industria la
base nazionale su cui poggiava … Al posto del vecchio isolamento e
dell'autosufficienza nazionale, abbiamo traffici in ogni direzione,
interdipendenza universale delle nazioni. E nella produzione
materiale come in quella intellettuale»ii.
Ciò
che è coinvolto è non soltanto l'espansione ma anche il dominio:
la borghesia «costringe tutte le nazioni, a pena dell'estinzione, ad
adottare il modo di produzione borghese; le costringe a introdurre al
loro interno ciò che chiama civiltà, cioè a diventare esse stesse
borghesi. In una parola, crea un mondo a propria immagine e
somiglianza»iii.
Naturalmente, nel 1848 questo passaggio costituiva un'anticipazione
del futuro più di quanto fosse una semplice descrizione della realtà
contemporanea. Qui abbiamo un'analisi che è molto più vera
oggi di quanto lo fosse 150 anni fa quando fu scritto il Manifesto.
Infatti,
mai prima di questa fine del XX secolo il capitale è riuscito ad
esercitare un'influenza così completa, assoluta, indivisa,
universale e illimitata su tutto il mondo. Mai nel passato ha avuto
la sua capacità attuale di imporre le sue regole, la sua politica, i
suoi dogmi e i suoi interessi su tutte le nazioni del globo. Mai il
capitale finanziario internazionale e le multinazionali sono state
così fuori controllo degli Stati e dei popoli. Mai prima di ora è
esistita una rete così densa di istituzioni internazionali – Fondo
Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del
Commercio – impegnate nel controllo, nel governo e
nell'amministrazione della vita umana in accordo alle regole rigorose
del libero mercato capitalistico e del perseguimento illimitato della
profittabilità capitalista. Infine, mai in qualunque epoca
precedente tutte le sfere della vita umana – relazioni sociali,
cultura, arte, politica, sessualità, salute, istruzione, sport,
ricreazione – sono state così completamente dominate dal capitale,
così profondamente sommerse dall'«acqua gelida del calcolo
egoistico».
Nondimeno,
l'analisi brillante – e profetica – della globalizzazione
capitalista schizzata nelle pagine iniziale del Manifesto
soffre di certi limiti, tensioni o contraddizioni. Queste non
derivano da un eccesso di zelo rivoluzionario, come la maggior parte
delle critiche del marxismo contestano, ma, al contrario, da un
insufficiente atteggiamento critico riguardo alla moderna civiltà
industriale/borghese. Diamo uno sguardo ad alcuni degli aspetti
strettamente legati di questo atteggiamento.
1.
L'ideologia del progresso tipica del secolo XIX si mostra nel modo
evidentemente eurocentrico in cui Marx ed Engels esprimono la
loro ammirazione per la capacità della borghesia di «trascinare
tutto, anche le nazioni più barbare, nella civiltà»: grazie alle
sue merci a buon mercato «costringe a capitolare l'odio più
ostinato dei barbari contro gli stranieri» (un riferimento evidente
alla Cina). Essi sembrano considerare il dominio coloniale
occidentale come un'espressione del ruolo storico di ‘civilizzazione’
della borghesia: questa classe «ha reso dipendenti da paesi
civilizzati quelli barbari e semi barbari, le nazioni contadine dalle
nazioni borghesi, l'Est dall’Ovest»iv.
La sola restrizione di questa distinzione eurocentrica, per non dire
colonialista, tra nazioni ‘civilizzate’ e nazioni ‘barbare’ è
la frase «la cosiddetta civiltà» (sogennante Zivilisation)
riferita al mondo borghese occidentale.
Nei
suoi scritti tardi Marx prenderà una posizione più critica verso il
colonialismo occidentale in India e in Cina, ma sarebbe rimasto ai
teorici moderni dell'imperialismo – Rosa Luxemburg e Lenin – il
compito di formulare una sfida marxista radicale alla ‘civiltà
borghese’ dal punto di vista delle sue vittime, cioè dei popoli
colonizzati. E soltanto con la teoria di Trotzkij della rivoluzione
permanente sarebbe emersa l'idea eretica che le rivoluzioni
socialiste sarebbero iniziate più probabilmente nella periferia del
sistema, nei paesi dipendenti. Naturalmente, il fondatore dell'Armata
Rossa ha insistito sul punto ulteriore che senza allargarsi ai centri
industriali avanzati – propriamente all'Europa occidentale –
prima o poi la rivoluzione sarebbe stata condannata al fallimento. È
stato spesso dimenticato che, nella loro premessa alla traduzione
russa del Manifesto (1881), Marx ed Engels immaginarono una
situazione ipotetica in cui la rivoluzione socialista sarebbe
iniziata in Russia – sulle basi del tradizionale collettivismo
contadino – e poi si sarebbe allargata all'Europa occidentale. La
rivoluzione russa, secondo le loro parole, sarebbe divenuta un
segnale per una rivoluzione proletaria in Occidente, così che
entrambe si sarebbero completate a vicenda. Questo testo – proprio
come la contemporanea lettera a Vera Zasulich1
– replica in anticipo ai pretesi argomenti ‘marxisti ortodossi’
dei Kautsky e dei Plechanov contro il ‘volontarismo’ della
rivoluzione dell'ottobre 1917 – argomenti che oggi sono divenuti di
nuovo affascinanti dopo la fine dell'URSS – secondo i quali una
rivoluzione socialista è possibile solo dove le forze produttive
hanno raggiunto la ‘maturità’, cioè nei paesi capitalisti
avanzati.
2.
Ispirati da un ottimismo libero-scambista e da un certo determinismo
economico, Marx ed Engels previdero – erroneamente – che «le
differenze nazionali e gli antagonismi tra i popoli (sarebbero
svaniti) di giorno in giorno, con lo sviluppo della borghesia, con la
libertà di commercio, con il mercato mondiale, con l'uniformità nel
modo di produzione e con le condizioni di vita corrispondenti»v.
Non
è andata così, ahimè! La storia del XX secolo – le due guerre
mondiali e gli innumerevoli conflitti tra le nazioni – non hanno
dato affatto conferma a questa previsione. È nella natura incessante
dell'espansione globale del capitale produrre e riprodurre scontri
tra nazioni nei conflitti inter-imperialisti per il dominio del
mercato mondiale, nei movimento nazionali di liberazione contro
l'oppressione imperiale o in mille altre forme.
Oggi
vediamo ancora una volta quanto alimento la globalizzazione
capitalista offra a politiche identitarie in preda al panico e a
nazionalismi tribali. Il falso universalismo del mercato mondiale
scatena il particolarismo ed esaspera la xenofobia: il cosmopolitismo
commerciale del capitale e gli istinti aggressivi dell'identità di
gruppo si rinforzano a vicendavi.
L'esperienza
storica – propriamente quella dell'Irlanda e della sua lotta contro
il dominio imperiale inglese – insegnò a Marx e ad Engels, pochi
anni dopo, che il regno della borghesia e del mercato capitalistico
non sopprime ma intensifica – in una misura senza precedenti
storici – i conflitti tra nazioni. Ma occorreva aspettare gli
scritti di Lenin sul diritto di autodeterminazione nazionale e quelli
di Otto Bauer sull'autonomia culturale nazionale – due approcci
normalmente considerati contraddittori ma che possono infine essere
visti come complementari – perché apparisse uno studio marxista
coerente sulla realtà della nazione, sulla sua natura politica e
culturale, e sulla sua autonomia relativa – in effetti la sua
irriducibilità – con riferimento all'economia.
3.
Pagando un tributo alla borghesia per la sua inaudita capacità di
sviluppare le forze produttive, Marx ed Engel hanno celebrato senza
riserve l'‘assoggettamento delle forze della natura all'uomo’ e
lo ‘sgombero di continenti interi per la messa a coltura’ da
parte della produzione borghese.
Inoltre
sembrano immaginare una rivoluzione consistente principalmente nel
sopprimere le ‘catene’ – le forme di proprietà esistenti –
che negano la libera crescita delle forze produttive create dalla
borghesia, senza chiedersi se ci sia anche bisogno di rivoluzionare
la struttura stessa delle forze produttive in accordo con criteri
ecologici e sociali.
Questa
limitazione fu parzialmente corretta da Marx in alcuni scritti tardi,
propriamente nel Capitale, dove recepisce l'esaurimento
simultaneo del suolo e della forza lavoro da parte della logica del
capitale. Ma è soltanto nei decenni recenti, con il sorgere
dell'eco-socialismo, che abbiamo visto seri sforzi per integrare le
intuizioni fondamentali dell'ecologia nel corpo della teoria
marxiana.
4.
Inspirati da quello che si potrebbe chiamare l'’ottimismo
fatalistico’ dell'ideologia progressista, Marx ed Engels proclamano
senza esitazioni la caduta della borghesia e la vittoria del
proletariato come ‘ugualmente inevitabili’. Non occorre
dilungarsi sulle conseguenze politiche di questa visione della storia
come processo i cui risultati sono garantiti dalla scienza, dalle
leggi della storia, o dalle contraddizioni del sistema. Portato alle
sue conseguenze – il che, naturalmente, non fu fatto dagli autori
del Manifesto – questo ragionamento non lascerebbe posto al
fattore soggettivo: coscienza, organizzazione e iniziativa
rivoluzionaria. Se, come doveva dichiarare Plechanov, «la vittoria
del nostro programma è inevitabile come il sorgere del sole domani»,
perché creare un partito politico, perché lottare, perché
rischiare la vita per la causa? Nessuno si sognerebbe di organizzare
un movimento per garantire che il sole sorga l'indomani.
È
vero che un passaggio del Manifesto contraddice, almeno
implicitamente, la concezione ‘inevitabilista’ della storia: mi
riferisco al celebre secondo paragrafo del capitolo ‘Borghesia e
proletariato’, secondo il quale ogni lotta storica di classe «è
finita sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la
società o con la rovina comune delle classi in lotta». Marx ed
Engels non affermano esplicitamente che questa alternativa potrebbe
mantenersi anche per il futuro, ma è un'interpretazione possibile di
questo passaggio.
In
realtà, fu il “Junius Pamphlet” del 1915 di Rosa Luxemburg (La
crisi della social-democrazia) che per la prima volta fu chiaro
nel porre l'alternativa socialismo o barbarie come scelta
storica di fronte al movimento della classe lavoratrice e alla specie
umana. È stato solo in quel momento specifico che il marxismo ha
rotto radicalmente con la sua visione lineare della storia e con una
illusione di un futuro ‘garantito’. Ed è stato solo negli
scritti di Walter Benjamin che si potrebbe trovare infine una critica
in profondità, sulla base del materialismo storico, delle ideologie
progressiste che disarmarono il movimento dei lavoratori tedesco ed
europeo drogandolo con l'illusione che si potesse vincere
semplicemente ‘nuotando con la corrente’ della storia.
Sarebbe
erroneo concludere da queste osservazioni critiche che il Manifesto
non riesca a superare i limiti della filosofia della storia
‘progressista’ ereditata dai pensatori illuministi e da Hegel.
Anche nel salutare la borghesia come classe che ha rivoluzionato la
produzione e la società e che ha «compiuto meraviglie superiori
alle piramidi egiziane, agli acquedotti romani, alle cattedrali
gotiche»vii,
Marx ed Engel hanno respinto ogni visione lineare della storia. Esse
evidenziano di continuo che il progresso spettacolare delle forze
produttive – più impressionante e colossale nella società
borghese che in ogni civiltà passata – è acquistato al costo
della degradazione della condizione sociale dei produttori diretti.
Questo
accade specialmente in quelle analisi che tengono conto del declino –
in termini di qualità della vita e di lavoro – che caratterizza le
condizioni del lavoratore moderno in confronto con quello
dell'artigiano e perfino, in certi aspetti, del sevo feudale: «Il
servo, nel periodo della servitù, si elevava come membro del Comune
… Il lavoratore moderno, al contrario, invece di elevarsi con il
progresso dell'industria, precipita sempre di più in basso, sotto le
condizioni di esistenza della propria classe»viii.
Analogamente, nel sistema capitalista dell'industria meccanizzata, il
processo lavorativo stesso diventa «ripugnante» – un concetto che
il Manifesto prende a prestito da Fourier – perde ogni
indipendenza «e, di conseguenza, ogni attrattiva per il
lavoratore»ix.
Qui
intravediamo i lineamenti di una concezione eminentemente dialettica
del processo storico, in cui certi tipi di progresso – in
termini di tecnologia, di industria, di produttività – sono
accompagnati da regressione in altri campi: in termini di vita
sociale, culturale ed etica. In questo come in quel rispetto è
importante l'osservazione che la borghesia «ha risolto il valore
personale nel valore di scambio» e ha non ha lasciato altro legame
tra gli esseri umani «che il nudo interesse egoistico, lo spietato
‘pagamento in contanti’ (die gefühllose ‘bahre
Zahlung’)»x.
Aggiungiamo
che il Manifesto è molto più che una diagnosi – a volte
profetica, a volte segnata dai limiti del suo tempo – del potere
globale del capitalismo: è anche, e soprattutto, un appello
pressante alla lotta internazionale contro il dominio. Marx ed
Engels capivano perfettamente che il capitale, come sistema mondiale,
poteva essere sconfitto soltanto dall'azione storico-mondiale delle
sue vittime, del proletariato e delle classi alleate. Tra tutte le
frasi del Manifesto, quella finale è senza dubbio la più
importante, quella che ha ispirato le immaginazioni e i cuori di
parecchie generazioni di attivisti socialisti e lavoratori:
‘Proletarier aller Länder, vereinigt euch!’ Non è un
caso che questa esclamazione sia diventata la norma e la parola
d'ordine per le tendenze più radicali del movimento per i 150 anni
passati. Resta come un proclama, una chiamata, un imperativo
categorico morale e strategico che ha fatto da stella polare
attraverso guerre, scontri confusi e pesanti nebbie ideologiche.
Questo
appello è stato anche un appello visionario. Nel 1848 il
proletariato era ancora una minoranza nella maggior parte delle
società europee, per non menzionare il resto del mondo. Oggi la
massa dei salariati sfruttati dal capitale – lavoratori
industriali, colletti bianchi, impiegati nei servizi, lavoratori a
giornata, braccianti – comprende la maggioranza della popolazione
mondiale. È di gran lunga la forza più importante nella lotta di
classe contro il sistema capitalista globale, ed è l'asse attorno al
quale altre forze sociali, altre lotte sociali possono e devono
orientarsi.
In
effetti non sono soltanto gli interessi proletari ad essere in gioco:
sono tutte le categorie sociali e i gruppi oppressi – donne (non
molto presenti nel Manifesto), nazioni e gruppi etnici sotto
l'altrui dominio, i disoccupati e i marginalizzati (il ‘poverariato’)
– di tutti i paesi che hanno un interesse nella trasformazione
sociale. E questo senza sollevare la questione dell'ambiente, che
riguarda non questo o quel gruppo ma l'intera specie umana.
Dopo
la caduta del muro di Berlino, alcuni hanno dichiarato la fine del
socialismo, la fine della lotta di classe, anche la fine della
storia. Le ondate di scioperi degli anni recenti in Francia, Italia,
Sud Corea, Brasile, Stati Uniti – in effetti ovunque – hanno
espresso una confutazione stringente a questa sorta di speculazione
pseudo-hegeliana. Ma ciò che d'altra parte manca tragicamente alle
classi inferiori è la pur minima coordinazione internazionalexi.
Per
Marx ed Engels l'internazionalismo era sia un pezzo forte nella
strategia dell'organizzazione proletaria e nella lotta contro il
capitale mondiale sia l'espressione di un'ambizione umanista
rivoluzionaria, per la quale l'emancipazione dell'umanità era il
supremo valore morale e l'obiettivo ultimo della lotta. Essi erano
comunisti ‘cosmopoliti’ in quanto il mondo intero, senza
frontiere o confini nazionali, era l'orizzonte del loro pensiero e
della loro azione come pure del contenuto della loro utopia
rivoluzionaria. Nell'Ideologia tedesca, scritta soltanto due
anni prima del Manifesto, essi sottolineano che è solo grazie
alla rivoluzione comunista, che deve essere necessariamente un
processo storico-mondiale, che ogni persona «sarà liberata dai suoi
limiti particolari locali e nazionali, sarà portata in una relazione
pratico con i prodotti (inclusi i prodotti intellettuali) del mondo
intero e abilitato ad acquisire la capacità di deliziarsi di tutti i
frutti della creatività umana universale»xii.
Marx
and Engels non si limitarono ad esaltare l'unità proletaria senza
riguardo per le frontiere. Durante larga parte della loro vita si
sforzarono di dare forma concreta e organizzata alla solidarietà
internazionalista. Lo fecero, in uno stadio iniziale, riunendo i
rivoluzionari tedeschi, francesi ed inglesi nella Lega Comunista del
1847-48, e poi offrendo un ampio contributo per costituire
l'Associazione internazionale dei lavoratori, fondata nel 1864. Le
successive Internazionali – dalla seconda2
alla quarta – soffrirono di crisi, di deformazioni burocratiche o
di isolamento. Nulla di tutto ciò impedì all'internazionalismo di
essere una delle più potenti forze motrici delle lotte di
liberazione per tutto il XX secolo. Nei primi anni dopo la
rivoluzione dell'ottobre 1917 un'impressionante ondata
internazionalista sorse in Europa e in tutto il mondo. Durante gli
anni stalinisti, questo internazionalismo fu manipolato come uno
strumento per gli interessi di grande potenza dell'URSS. Ma anche
durante il periodo della degenerazione burocratica
dell'Internazionale comunista ci furono manifestazioni genuine di
internazionalismo, come le brigate internazionali in Spagna
dal 1936 al 1938. Più di recente, una nuova generazione ha
riacquistato il senso dell'attività internazionalista, nelle rivolte
del 1968 e in azioni di solidarietà con le rivoluzioni del Terzo
mondo. I problemi attuali hanno portata internazionale. Le sfide
rappresentate dalla globalizzazione capitalista, dal neoliberalismo,
dai mercati finanziari speculativi sregolati, dall'indebitamento e
impoverimento mostruoso del Terzo mondo, dal degrado ambientale,
dalle gravi minacce delle crisi economiche – per menzionare solo
pochi esempi – hanno tutte un evidente bisogno di soluzioni su
scala globale.
Eppure
non possiamo non ammettere che, in confronto all'unificazione,
regionale (Unione europea) e globale, del grande capitale,
l'unificazione dei suoi avversari ha fatto poco progresso. Mentre nel
XIX secolo i settori più consapevoli del movimento dei lavoratori,
organizzati nell'Internazionale, erano in anticipo sulla
borghesia, oggi sono relativamente, tragicamente, indietro.
Mai è stato così urgente il bisogno di associazione, coordinazione
ed azione comune internazionale – a livello sindacale in
riferimento a questioni comuni e a livello di lotta per il
socialismo, e mai la risposta a quel bisogno è stata così debole,
fragile ed esitante.
Tutto
ciò non significa che il movimento per il cambiamento sociale radica
non debba iniziare al livello di una o più nazioni o che non ci
siano legittimi movimenti di liberazione nazionale. Ma le lotte
contemporanee sono come mai prima interdipendenti e correlate da un
polo all'altro. La sola risposta razionale ed effettiva possibile al
ricatto capitalista sulla delocalizzazione e sulla ‘competitività’
– la pretesa che salari e servizi sociali debbano essere tagliati a
Parigi per competere sul prezzo con i prodotti di Bangkok – è la
solidarietà organizzata ed effettivamente internazionale dei
lavoratori. Oggi è diventato evidente, più chiaro che in passato,
come siano convergenti gli interessi dei lavoratori del Nord e del
Sud: gli aumenti salariali per i lavoratori nell'Asia meridionale
riguardano direttamente i lavoratori europei; la lotta dei contadini
e dei popoli indigeni per proteggere la foresta pluviale brasiliana
dagli attacchi distruttivi dell'agro business è di interesse
pressante per l'ambientalista americano; il rifiuto del
neoliberalismo è comune ai movimenti sindacali e popolari in tutti i
paesi. Si potrebbero dare ancora altri esempi simili.
Che
genere di internazionalismo è qui in discussione?
L'’internazionalismo’ falso al servizio di blocchi e di ‘Stati
guida’ – URSS, Cina, Albania ecc. – è morto e sepolto. Era uno
strumento per insignificanti burocrazie nazionali che lo usavano per
dare copertura a qualunque politica capitasse seguire ai loro Stati
nazionali. È arrivato il momento per un nuovo inizio che preserverà
anche il meglio delle passate tradizioni internazionaliste.
Qua
e là si potranno vedere i semi di un nuovo internazionalismo,
indipendenti da tutti gli Stati. Militanti sindacali, socialisti di
sinistra, comunisti non stalinisti, trotzkisti non dogmatici,
anarchici non settari cercano di trovare i sentieri di rinnovamento
della tradizione internazionalista proletaria. Una valida iniziativa,
sebbene ancora limitata a una singola regione, è il Forum of São
Paulo, un'arena per la discussione e l'azione comune tra le forze
principali della sinistra latino-americana, istituito nel 1990, i cui
scopo sono di combattere contro il neoliberalismo e di cercare di
trovare nuovi sentieri di avanzata, servendo gli interessi e i
bisogni della grande maggioranza della gente.
Nel
contempo nuova sentimenti internazionalisti diventano visibili nei
movimenti sociali con una prospettiva globale, come il femminismo e
l'ambientalismo, nei movimenti antirazzisti, nella teologia della
liberazione, nelle associazioni in sostegno dei diritti umani e della
solidarietà con il Terzo mondo. Tutte queste correnti sono lontane
dall'essere soddisfatte con istituzioni esistenti come
l'Internazionale socialista che, sebbene abbia almeno il merito di
esistere, è troppo compromessa con l'ordine stabilito.
Molti
dei rappresentanti più attivi di queste varie tendenze per il Nord e
il Sud del pianeta si sono riuniti, in uno spirito unitario e
fraterno, nella Conferenza intergalattica per l'umanità e contro il
neoliberalismo, che è stata convocata nel luglio 1996 nelle montagne
del Chiapas, in Messico, dall'Esercito zapatista di liberazione
nazionale – un movimento rivoluzionario che è stato capace di
combinare in modo originale e con successo, la dimensione locale (la
lotta per il popolo indiano indigeno del Chiapas), quella nazionale
(lo scontro per la democrazia in Messico) e quella internazionale (la
lotta globale contro il neoliberalismo). Abbiamo qui soltanto un
primo, modesto passo, ma nella direzione giusta: la ricostruzione
della solidarietà internazionale.
È
evidente che in questa battaglia mondiale contro la globalizzazione
capitalista un ruolo decisivo è svolto dalle lotte nei paesi
industriali avanzati che dominano l'economia mondiale: un cambiamento
fondamentale nell'equilibrio internazionale delle forze è
impossibile senza colpire nel ‘centro’ stesso del sistema
capitalista. La rinascita di un movimento sindacale combattivo negli
Stati Uniti è un segno incoraggiante, ma è in Europa che troviamo i
movimenti più potenti di resistenza al neoliberalismo – anche se
devono ancora sviluppare maggiore coordinazione continentale.
È
dalla convergenza tra rinnovamento della tradizione socialista,
anticapitalista e anti-imperialista dell'internazionalismo proletario
– inaugurato da Marx nel Manifesto comunista – e le
aspirazioni universaliste, umaniste, libertarie, ambientali,
femministe e democratiche dei nuovi movimenti sociali che potrà
sorgere l'internazionalismo del XXI secolo.
1
Il testo ha un erroneo ‘Zasunch’.
2
È una mia correzione: nel testo si legge ‘prima’.
iii
ibid. p. 22.
iv
Manifesto,
p. 22. Per una discussione approfondita di quest'area problematica
rimando all'eccellente testo di Nestor Kohan “Marx en su trec
mundo,” Casa de las Americas, 207, April-June 1977.
v
Manifesto,
p. 40. Questa affermazione del Manifesto
è particolarmente contraddetta qualche riga sotto, dove gli autori
sembrano collegare la fine dell'antagonismo nazionale a quella del
capitalismo: «Nella misura in cui si mette fine allo sfruttamento
di un individuo da parte di un altro, si metterà fine anche allo
sfruttamento di una nazione da parte di un'altra. Nella misura in
cui svanisce l'antagonismo tra le classi all'interno delle nazioni,
finisce l'ostilità tra le nazioni».
vi
Faccio mia qui l'analisi di
Daniel Bensaid nel suo notevole libro Le
Pari Mélancolique
(The Melancholic
Wager) (Paris,
Fayard, 1997).
viii
Ibid, p. 31.
ix
Ibid., p.25.
x
Ibid., p.20.
xi
Otto anni dopo la caduta del
muro, cosa pensano su questo argomento i tedeschi stessi? Credono
che «oggi la lotta di classe sia fuori moda, che capitalisti e
lavoratori debbano rapportarsi tra loro come partner» o invece
sostengono che «sia giusto parlare di lotta di classe, che
fondamentalmente capitalisti e lavoratori abbiano interessi del
tutto incompatibili?» Ecco un interessante sondaggio, pubblicato il
10 dicembre 1997 dalla Frankfurter
Allgemeine Zeitung,
un giornale difficilmente sospetto di simpatie per il marxismo:
sebbene nel 1980 circa il 58% dei cittadini della Germania
Occidentale scegliesse la prima risposta contro il 25% per la
seconda, nel 1997 la proporzione è stata rovesciata: circa il 41%
considera la lotta di classe fuori moda, ma il 44% pensa che sia
attuale. Nella ex DDR – cioè, tra la stessa gente che ha
smantellato il muro di Berlino – la maggioranza è molto più
chiara: il 58% degli aderenti alla lotta di classe contro il 26%!
(cf.
Le Monde Diplomatique,
n. 526, January 1998, p. 8).
Credo che per chiudere per un buon periodo di tempo qualsiasi discussione sull'internazionalismo, basta vedere quanta solidarietà hanno avuto i greci (soprattutto salariati e poveri) dai loro omologhi europei. Zero. Se nemmeno all'interno di una costruzione come l'UE si arriva ad una esplicita solidarietà, se non di pochi ed insignificanti gruppi, al popolo greco, la pietra tombale dell'internazionalismo è già stata scolpita a chiare lettere. Bisogna solo prenderne atto quanto prima. A proposito, ma durante la seconda guerra mondiale, quei milioni di tedeschi che prima dell'avvento di Hitler votavano per il partito socialdemocratico e comunista, che fine avevano fatto? Spariti tutti per riemergere dalle catacombe dopo? Cosa dicevano dei campi di concentramento e di sterminio, gli andava bene? Tacciamo poi di cattolici e protestanti, che a rigor di logica insieme ai proletari dovevano ben essere la maggioranza della popolazione. Buttato nella pattumiera alla svelta certi supposti valori universali del cristianesimo non vi pare? E la chiesa una struttura universale ed organizzata ce l'aveva. Credo che basti l'esperienza della chiesa cattolica per non farsi nessuna illusione su eventuali ideologie internazionaliste di nuova o vecchia lega. Mah.... Si dice tanto per dire ovviamente.
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