Paolo Di Remigio commenta un articolo di Michael Löwy. Il testo di Löwy non è recente, ma è indicativo di come un intero strato dell'intellettualità "critica" internazionale tratta questi temi. Lo trovate qui:
Per comodità del lettore, abbiamo aggiunto alla fine del commento di Di Remigio, una traduzione, ad opera dello stesso Di Remigio. Ringraziamo ovviamente l'amico Paolo per il contributo.
(M.B.)
Paolo Di Remigio: Su globalizzazione e internazionalismo. Un commento a Löwy.
Nonostante il ‘Manifesto’ di Marx ed Engels abbia avuto un numero di pubblicazioni secondo soltanto alla Bibbia, per Löwy i due testi non avrebbero molto in comune; la loro differenza sostanziale sarebbe che Marx ed Engels non sperano in un dio, in un messia, per loro sono gli oppressi che liberano se stessi. A questa opinione va obiettato da una parte che Gesù esige da chi lo segue la conversione, ossia una vita da subito conforme a quella del Regno di Dio, dall'altra che il determinismo storico, di cui lo stesso Löwy lamenta la presenza nel ‘Manifesto’, libera gli oppressi a prescindere dalla loro azione, cioè svolge esattamente la funzione che il dio o il messia svolge nella religione cristiana.
D'altra parte, che gli oppressi liberino se stessi è una lettura troppo riduttiva delle idee di Marx ed Engels; e il ‘Manifesto’ non avrebbe avuto il suo successo se si fosse affidato a una fiducia così ingenua. Esso racconta invece una precisa evoluzione del proletariato, per cui da moltitudine dispersa diventa una massa omogenea e compatta; questa massa è però rivoluzionaria solo potentia, lo diventa actu quando diventa classe acquisendo consapevolezza di sé. E non l'acquista col semplice trascorrere del tempo, ma assorbendo i ceti medi proletarizzati, soprattutto quando ‘una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme’. Perché ci sia rivoluzione non basta essere oppressi, non basta essere riuniti dallo sviluppo produttivo in grandi masse omogenee e comunicanti; occorre essere classe sociale che disponga della comprensione teorica , cioè che sia guidata dagli intellettuali borghesi che abbandonano la loro classe: queste condizioni fanno della rivoluzione in potenza – la guerra civile più o meno occulta – una rivoluzione in atto.
Alla fine del primo capitolo del ‘Manifesto’ appare la seguente sintesi: ‘La condizione più essenziale dell'esistenza e del dominio di classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani dei privati, la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce all'isolamento degli operai, risultante dalla loro concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l'associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili’. In altri termini: la ricchezza borghese viene dallo sfruttamento del lavoro degli operai; gli operai sono in concorrenza tra loro, perciò sono incapaci di organizzarsi come classe e di dare battaglia; lo sviluppo industriale, a cui i borghesi sono costretti dalla concorrenza tra loro, tra borghesi, sopprime questa concorrenza tra lavoratori e li unisce in un'associazione rivoluzionaria invincibile. Marx ed Engels sono dunque perfettamente consapevoli della vera difficoltà che impedisce il passaggio dalla rivoluzione potenziale alla rivoluzione attuale: la concorrenza, che domina il rapporto tra i lavoratori. Il capitalismo fa dei lavoratori non pura forza lavoro, essi non sono merce; ma li rende venditori indipendenti dell'unica merce di cui sono proprietari, della forza lavoro più o meno semplice, così li espone, come tutti i venditori, alla concorrenza, li rende nemici.
Basta una minima riflessione per accorgersi di quanto sia illusoria la speranza del ‘Manifesto’. La sintesi di Marx ed Engels presenta due errori. Innanzitutto la borghesia è concepita come agente passivo del progresso dell'industria – un'espressione contraddittoria che, se ha una plausibilità per il fatto che il singolo capitalista subisce il progresso dell'industria, d'altra parte non può negare il fatto che il progresso industriale diminuisce la domanda di forza lavoro rispetto alla sua offerta, aumenta cioè la concorrenza tra i lavoratori ed è dunque uno dei fondamenti del potere del capitalista su di loro. In secondo luogo, il progresso dell'industria riunisce gli operai dispersi in masse sempre più numerose, è vero, ma li riunisce come concorrenti, li aggrega senza che cessi la loro natura di atomi respingenti, non li costituisce come classe, perché si verifica sempre in modo da non toccare lo squilibrio tra un'offerta sempre eccessiva di forza lavoro e una domanda sempre carente. Le lamentele sull'alienazione della società di massa significano in fondo solo che il progresso industriale nel massificare non associa gli individui. Ne segue che il termine stesso di ‘masse rivoluzionarie’ a cui questo passo del ‘Manifesto’ potrebbe dare adito, termine così ricorrente nei discorsi ‘di sinistra’, è una contraddizione, un modo illusorio di risolvere la difficoltà principale della rivoluzione proletaria, quella della trasformazione delle masse in classe.
Se si deve rimproverare a Marx e ad Engels l'eccesso di ottimismo sugli effetti associativi dello sviluppo industriale sulle masse, si deve però riconoscere loro almeno la chiara visione della concorrenza tra i lavoratori. La sinistra attuale semplicemente ignora questo punto. Essa si riferisce ai lavoratori senza pensarli come proprietari in concorrenza e se li immagina come già associati in classe. Per questo l'eccessivo ottimismo di Marx ed Engels nella sinistra attuale si esaspera nella follia di identificare la globalizzazione con l'internazionalismo. La globalizzazione è in realtà la forma esasperata del libero scambio, lo strumento principale con cui la borghesia aumenta la concorrenza tra operai e spezza la loro unione come classe; ma la sinistra sogna che la classe operaia di dimensione internazionale sia già costituita, perciò ogni movimento capitalistico verso il globalismo sembra utile a facilitarle il compito della rivoluzione. In questo la sinistra rivela che di Marx ed Engels ha assorbito solo le illusioni e ha frainteso perfino l'appello con cui concludono il ‘Manifesto’: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» significa: «Superate la concorrenza tra voi che vi rende nemici e diventate classe», non significa affatto: «Rallegratevi dell'estendersi del libero scambio, dimenticate i confini e associatevi con gli operai delle altre nazioni». Infatti ‘la lotta del proletariato contro la borghesia è … all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la propria borghesia’.
Il riferimento tra nazionalismo e internazionalismo nel ‘Manifesto’ è complesso perché esso attribuisce alla borghesia una tendenza verso l'annullamento dello Stato-nazione, ma lo fa con grande insicurezza: da una parte la borghesia crea il mercato mondiale e così indebolisce l'isolamento e gli antagonismi nazionali; dall'altra il suo potere di aggregazione politica arriva allo Stato: ‘Province indipendenti … sono state strette in una sola nazione, in un solo governo, in una sola legge, in un solo interesse nazionale di classe, in un solo confine doganale’ – e non sembra poter andare oltre, perché il fatto che la borghesia ‘è di continuo in lotta … contro la borghesia di tutti i paesi stranieri’ impedisce la fusione tra gli Stati-nazione. Il parere ultimo di Marx ed Engels è che il superamento degli antagonismi nazionali, più che un effetto dell'estensione del mercato mondiale, segue il superamento dell'antagonismo di classe. Il proletariato non può farsi forte del mercato mondiale e della globalizzazione del libero scambio, perché questi sono in realtà meri strumenti della sua spogliazione, deve ‘conquistarsi prima il dominio politico (nazionale, certo!), elevarsi a classe dirigente della nazione, costituirsi in nazione’; ‘il proletariato stesso è nazionale, benché non certo nel senso della borghesia’. Insomma, le tendenze cosmopolite della borghesia sono limitate dagli antagonismi nazionali e la lotta del proletariato si svolge entro questi antagonismi; l'unificazione dell'umanità è un obiettivo aperto soltanto a proletariati nazionali che attraverso rivoluzioni nazionali siano diventati classe dirigente.
Löwy è lontano da tutta questa complessa pianificazione contenuta nel ‘Manifesto’; tutto il suo scritto ha un valore sentimentale. Poiché ignora completamente che la massa proletaria è divisa dalla concorrenza, che la sua organizzazione come classe è un compito, non un dato, la frase finale del testo gli appare ‘un proclama, una chiamata, un imperativo categorico’ all'internazionalismo. Anzi, mentre l'appello all'internazionalismo era soltanto visionario nel 1848, oggi gli sembra avere molte più chance, non perché l'organizzazione del proletariato mondiale in classe sia solida e sperimentata, ma perché il proletariato non è più solo minoranza, bensì maggioranza. Löwy non crede cioè che la rivoluzione sia il risultato dell'agire di una classe rivoluzionaria teoricamente illuminata, no, crede che la forza sia nel semplice essere maggioranza, nella massa. Poiché è massa il proletariato ‘è … la forza più potente nella lotta di classe contro il sistema capitalista globale’, anzi è l'asse attorno al quale altre forze sociali possono e devono orientarsi. E sembra quasi che la rivoluzione si faccia attendere per il ritardo con cui si orientano le altre forze sociali, le donne, le nazioni oppresse da altre nazioni, i disoccupati, i marginalizzati, gli ambientalisti.
Infine, però, Löwy non può nascondersi che alla massa proletaria manca ‘la pur minima coordinazione internazionale’, né può nascondere che questa coordinazione è sempre mancata, che l'internazionalismo ha mostrato finora una totale impotenza storica. Eppure il cuore non si arrende alla percezione e alla ragione; per questo vuole vedere ‘una nuova generazione’ che ‘ha riacquistato il senso dell'attività internazionalista’. Il problema, però, non è affatto se una generazione abbia o meno il senso dell'internazionalismo, qualunque cosa questo senso possa essere, ma se il proletariato, nazionale o internazionale che sia, sia organizzato come classe intelligente. Lo stesso Löwy se ne accorge e lamenta che ‘mentre nel XIX secolo i settori più consapevoli del movimento dei lavoratori, organizzati nell'Internazionale, erano in anticipo sulla borghesia, oggi sono relativamente, tragicamente, indietro’. Ne seguirebbe la necessità di iniziare la lotta dall'interno degli Stati. Löwy non lo riconosce; con un certo sforzo concede la possibilità di lotte nazionali, ma solo per andare al pezzo forte, all'appello finale: ‘Le lotte contemporanee sono … interdipendenti … La sola risposta razionale ed effettiva … al ricatto capitalista sulla delocalizzazione e sulla competitività … è la solidarietà dei lavoratori’. Qui Löwy si mette su un terreno scivoloso. Infatti, da una parte il capitalista non esiterà a dimostrare che proprio la delocalizzazione costituisce un atto di solidarietà dei lavoratori ricchi nei confronti dei lavoratori poveri: per effetto della concorrenza il salario dei primi scende, quello dei secondi sale fino a trovare un punto di equilibrio; così chi ha poco dà qualcosa del poco che ha a chi non ha nulla e i lavoratori di tutto il mondo saranno solidali condividendo la medesima povertà. D'altra parte la delocalizzazione può essere intesa solo come un ricatto per abbassare i salari più ricchi. Come possono i lavoratori spezzare questo ricatto con la solidarietà? Löwy non lo spiega, ma vediamo solo due strade aperte: la nobile tenacia dei lavoratori ricchi nel pretendere di lavorare per un salario superiore, così da favorire nel capitalista la scelta di delocalizzare e portare lavoro nei paesi poveri, oppure la nobile rinuncia al lavoro dei lavoratori poveri, che, informati del ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori ricchi, dichiarano: ‘Se è così, ci rifiutiamo di lavorare per questo capitalista ricattatore’. Se però il mondo fosse questa gara di generose nobiltà, non ci sarebbe bisogno né delle classi né della loro lotta.