martedì 20 dicembre 2016

Si può salvare l'Italia?

Un bell'intervento di Bagnai:


http://vocidallestero.it/2016/12/13/bagnai-si-puo-salvare-litalia-dalla-stagnazione-economica/


Fondamentale la domanda finale: è possibile "il keynesismo in un solo paese"? Personalmente, mi pongo anche la domanda se sia possibile in generale il keynesismo, in questa fase storica. Ma non ho risposte.

domenica 11 dicembre 2016

Un'intervista a Stiglitz


Dal sito "Voci dall'estero":


http://vocidallestero.it/2016/12/09/j-stiglitz-ormai-i-costi-di-mantenere-in-piedi-leurozona-sono-superiori-a-quelli-di-smantellarla/


Sottolineo due passaggi:


"Nemmeno le migliori menti economiche del pianeta sarebbero state capaci di far funzionare l'euro".


"Penso che ormai sia molto chiaro che dare il via all’euro sia stato un errore a suo tempo, con le istituzioni allora disponibili. Ci sarà un costo per smantellarlo, ma da qualunque parte si guardi la situazione, negli ultimi 8 anni l’euro è stato un costo enorme per l’Europa. E penso che il costo di smantellarlo sarebbe gestibile e che stante la situazione attuale, il costo di mantenere insieme l’eurozona è probabilmente più alto del costo di smantellarla".



giovedì 8 dicembre 2016

Stanno perdendo la testa?

Dopo gli insulti agli elettori inglesi per il Brexit, e a quelli USA per Trump, puntuali arrivano gli insulti agli elettori italiani che hanno votato NO:


http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/12/i-sogni-non-si-devono-avverare/


Sembra proprio che una parte delle élite stia semplicemente perdendo la testa. L'idea che chi non la pensa come loro possa avere qualche ragione, con la quale confrontarsi, non è prevista.
Qualcuno parla, molto correttamente secondo me, di un "momento Maria Antonietta" delle élite. In quel caso una élite aveva perso la testa in senso figurato, per passare poi dalla metafora alla cosa stessa (die Sache selbst, diceva Hegel, correggetemi se sbaglio).  Sono cose che capitano, quando crolla un assetto di potere. Senza nessuna ostilità per la signora Zafesova, s'intende. Se ne avrò l'occasione, le offrirò volentieri una brioche.

martedì 6 dicembre 2016

Dopo le dimissione di Renzi, ecco cosa accadrà

di Fabrizio Tringali


Sarò breve, secondo me accadrà questo: si andrà a votare presto, con leggi elettorali abbastanza simili fra Camera e Senato, perché la Corte Costituzionale correggerà l'Italicum (togliendo il premio di maggioranza o lasciandolo solo per la lista che supera il 40% dei voti).
Pertanto si voterà con leggi elettorali sostanzialmente proporzionali.

Vi sarà una lista "a sinistra del PD", probabilmente capitanata da Cofferati, il quale può attrarre vari settori sindacali (si tenga presente che la CGIL si sta allontanando dal PD e che il leader della Fiom Landini, presto, entrerà nella segreteria nazionale confederale, per puntare a succedere alla Camusso al prossimo congresso)

Vi sarà il PD (o come si chiamerà), che probabilmente sarà sostanzialmente alleato di una lista "centrista" (Alfano), il che significa che la ingloberà al Senato, ma forse non alla Camera, dove lo sbarramento è molto più basso.

Vi sarà il M5S.

Vi sarà una spaccatura a destra, con FI  che andrà da sola, ed una alleanza fra FdI e Lega per massimizzare la capacità di attrarre voti dei primi al sud, della seconda al nord (anche questa alleanza potrebbe tradursi in liste separate alla Camera e lista unica al Senato).

La lista di sinistra potrà sperare in un risultato intorno all 8 - 12%, il PD più alleati al 30 - 35%, percentuale simile al M5S e alle destre.
Ovviamente non vincerà nessuno. Se i numeri lo consentiranno si andrà all'ennesimo governone di larghe intese fra PD, FI e transfughi vari (che non mancano mai quando c'è da entrare in maggioranza e prendere posti di governo).

lunedì 5 dicembre 2016

Referendum parte seconda: la vendetta

Finito la festicciola di Renzi, arriva il conto





Si noti la frasetta sulla Commissione "che si è prodigata per far passare la manovra prima del referendum in modo da aiutare Renzi". Te lo dicono così, papale papale...

Segnalo anche questo intervento di Marco Zanni, europarlamentare pentastellato:

NO! Grazie!

Qualche volta si può anche vincere. Grazie Italia.

giovedì 1 dicembre 2016

lunedì 28 novembre 2016

La scomparsa della sinistra in Europa

Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa (Imprimatur), rappresenta un contributo molto importante alla riflessione sul nostro tempo. Pubblichiamo una bella recensione di Paolo Di Remigio, e ci torneremo (M.B.)






Paolo Di Remigio


Recensione ad ALDO BARBA – MASSIMO PIVETTI, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, 2016.





Oltre alla straordinaria padronanza della materia, ciò che colpisce nella ‘Scomparsa della sinistra in Europa’ è la volontà dei suoi autori di conservare un tono pacato. Proprio per questo la storia che il libro racconta ha un effetto ancora più inquietante: è la storia degli ultimi quarant'anni, in cui la sinistra, la rappresentanza dei lavoratori, è diventata esecutrice di politiche economiche contro i lavoratori. I fautori della svolta neoliberale l'hanno scelta perché i lavoratori se ne fidavano; il suo nuovo protagonismo era lo strumento ideale per paralizzarne le reazioni. Così è stata la sinistra a far credere che la svolta verso la nuova politica economica, l'economia dal lato dell'offerta, avrebbe permesso il superamento della fase critica degli anni ’70 e avrebbe avviato l'economia mondiale verso una crescita stabile. L'economia dal lato dell'offerta non poteva fare però nulla di tutto questo.

venerdì 25 novembre 2016

L'Economist invita a votare No

http://www.repubblica.it/politica/2016/11/24/news/referendum_economist_renzi-152726698/?ref=HREC1-1




Inutile chiedersi perché: potremmo fare, come sempre in questi casi, mille ipotesi "dietrologiche" senza arrivare a nulla. E' interessante invece rilevare che gli argomenti portati dall'Economist, secondo l'articolo di Repubblica sopra citato, sono quelli ripetuti da tutti coloro che invitano a votare No: ovvero il fatto che la congiunzione di riforma costituzionale e legge elettorale rischierebbe di portare a una concentrazione di poteri incompatibile con la democrazia.

martedì 22 novembre 2016

Intellettuali conservatori: segui il denaro

Nella traduzione di Paolo Di Remigio (che ringrazio) propongo questo intervento di Krugman che denuncia il legame fra gli intellettuali conservatori e i ceti dominanti. Non c'è dubbio che analoghe osservazioni potrebbero essere fatte per buona parte del pensiero "progressista", ma è comunque interessante questa piccola apertura sui legami fra cultura e capitale. (M.B.)





Intellettuali conservatori: segui il denaro

Ross Douthat e David Brooks sono intervenuti ultimamente sulla situazione degli intellettuali conservatori; meritano entrambi credito perché danno uno sguardo critico alla loro squadra.
Ma – naturalmente c'è un ‘ma’ – affermerei che essi e gli altri a destra hanno ancora enormi punti ciechi. Di fatti, questi punti ciechi sono così enormi da rendere le critiche quasi inutili come basi di una riforma. Perché se ignorate le radici vere, profonde dell'implosione intellettuale conservatrice, non darete mai un vero inizio alla ricostruzione.
Quali sono questi punti ciechi? Primo, la fede in un'età dell'oro che non è mai esistita. Secondo, un rifiuto affatto misterioso di riconoscere il ruolo enorme giocato dal denaro e dagli incentivi monetari nel promuovere le idee cattive.
Sul primo punto: dovremmo ripensare con nostalgia all'era nella quale intellettuali conservatori seri come Irving Kristol cercavano di capire il mondo, anziché trattare qualunque cosa come un esercizio politico in cui le idee erano lì soltanto per aiutare la loro squadra a vincere.
Ma non è stato mai così. Non prendete per buona la mia parola; prendete per buona la parola dello stesso Irving Kristol, nel suo libro “Neoconservatorismo: l'autobiografia di un'idea”. Kristol ha spiegato la sua adesione all'economia dal lato dell'offerta negli anni ’70: “Non ero sicuro dei suoi meriti economici, ma ne scorsi subito le possibilità politiche”. Questo giustificava un ”atteggiamento sdegnoso verso il deficit di bilancio e altri problemi finanziari o monetari”, perché “l'efficacia politica era la priorità, non le mancanze contabili del governo”.
In breve, non preoccupatevi se sia giusto purché sia politicamente utile. Lamentando che “gli opinionisti conservatori iniziarono a valutare la politica più di tutto il resto”, David descrive qualcosa che è successo molto prima di Reagan.
Ma non dovrebbero esserci lungo la via impatti con la realtà, idee politicamente convenienti cadute in disgrazia perché non funzionavano nella pratica? No – perché sbagliare nel modo giusto è sempre stata un'attività finanziariamente sicura. Lo vedo molto chiaramente in economia, in cui ci sono tre tipi di economisti: economisti professionali liberali, economisti professionali conservatori ed economisti conservatori professionali – la quarta scatola è più o meno vuota, perché i miliardari non sostengono con generosità i dilettanti a sinistra.
Ancora, come puoi solo cominciare a parlare di intellettuali conservatori senza discutere della fondazione della Heritage nel 1973, o del più o meno contemporaneo armamento di AEI come entità politica? Heritage in particolare è platealmente incompetente di economia – ricordate la pretesa che il piano Ryan avrebbe ridotto la disoccupazione al 2,8%, oppure il lavoro completamente abborracciato del capo economista sulla crescita del lavoro statale? Ma non importa: la fondazione ha un mucchio di soldi perché è favorevole ai tagli giganteschi delle tasse per i ricchi, e per questa merce la domanda non si esaurisce mai.
Ricordate inoltre che il negazionismo climatico è essenzialmente un'industria, finanziata da gruppi di interesse con un pacchetto azionario nella promozione della pseudo scienza. E questo significa un mercato per “intellettuali” conservatori che siano fondamentalmente contrari alla scienza.
Il punto è che il versante intellettuale del movimento conservatore è stato un'impresa corrotta per circa quattro decenni. Nei suoi primi anni poteva ricorrere a intellettuali di destra che avevano qualche reputazione precedente al di fuori del lavoro politico, ma per molto tempo ha contato su dilettanti fatti in casa. Non vedo ragione di credere che una simile impresa sia in grado di riformarsi: se per farlo fosse sufficiente essere in errore e perdere un'elezione, ciò sarebbe accaduto negli anni ’90.


venerdì 11 novembre 2016

Bernie Sanders su Trump

http://vocidallestero.it/2016/11/10/bernie-sanders-pronto-a-lavorare-con-trump-per-migliorare-le-condizioni-delle-famiglie-lavoratrici/


Non me ne intendo di politica USA, ma credo che la disponibilità a lavorare con Trump, da parte di Sanders, sia solo una frase di cortesia. Più interessante è che anche Sanders riconosca ciò che tutte le persone intelligenti hanno capito, cioè che il voto per Trump è un voto di rabbia anti-establishment da parte di strati popolari stritolati dalla globalizzazione.

domenica 6 novembre 2016

L'identità vuota

Aldo Giannuli tocca un tema molto importante, quello dell'identità vuota della sinistra:


http://www.aldogiannuli.it/pci-pds-ds-pd/


Ne avevamo parlato a lungo, Bontempelli ed io, ne "La sinistra rivelata".

venerdì 4 novembre 2016

Clima: Parigi non basta

L'Unep, il programma ONU per l'ambiente, ci avverte che gli accordi raggiunti a Parigi nel dicembre 2015 sono insufficienti ad evitare un drammatico cambiamento climatico che porterà a "una evitabile tragedia umana":


http://www.dire.it/03-11-2016/86701-clima-onu-parigi-non-basta-tagliare-un-altro-25-da-emissioni-2030/




http://www.rinnovabili.it/ambiente/unep-accordo-di-parigi-666/




Uno studio su questi temi, pubblicato su "Nature", è segnalato qui:


http://www.lescienze.it/news/2016/06/30/news/aumentare_sforzi_accordo_di_parigi_riscaldamento_globale-3145144/




Il declino della nostra civiltà si sta annunciando con segnali sempre più chiari.









martedì 25 ottobre 2016

Il tranello americano

Mi capita spesso di trovarmi d'accordo con le analisi di "Militant", come in questo caso:


http://www.militant-blog.org/?p=13697


Poi loro sperano nella "sinistra di classe", e questo ovviamente ristabilisce un certo distacco.

martedì 18 ottobre 2016

sabato 15 ottobre 2016

venerdì 14 ottobre 2016

Una farsa istruttiva

Largamente condivisibile l'intervento di Leonardo Mazzei:


http://sollevazione.blogspot.it/2016/10/la-direzione-del-pd-una-farsa-molto.html




Mi permetto di sottolineare in particolare due passaggi:
"Quel che Renzi sta cercando di condurre in porto è l'affermazione del PD (...) come l'architrave imprescindibile di un regime sempre più autoritario".
"Il referendum del 4 dicembre segnerà in ogni caso uno spartiacque nella storia nazionale".

venerdì 7 ottobre 2016

Riflessioni su Foucault (P.Di Remigio)

Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo articolo su Foucault di Paolo Di Remigio. (M.B.)




Foucault e il liberalismo.

La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1 è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea2; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.

Non è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo, anzi studiarlo, per trarne il quadro dell'ideologia neoliberale nella sua ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il libro non sia diventato né un segnale d'allarme né un'arma di lotta politica. La risposta può essere anticipata subito: Foucault condivide con il neoliberalismo e con il marxismo il suo presupposto più interno: l'identità di libertà e natura, ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria dell'individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè come naturale. Perché la sua indagine avesse risonanza politica, Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo confrontandosi a fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non solo il liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.

L'identità di libertà e natura detta a Marx un'utopia della società civile. Se nella «Questione ebraica» egli l'ha concepita come realtà ultima del mondo etico, come struttura scissa, dilaniata dalla lotta tra le classi che pone in contrasto individuo e società, la scelta decisiva del suo materialismo storico è aver concepito il superamento di questo contrasto, la conciliazione reale come risultato del movimento interno della società civile: sviluppando il sistema dei bisogni essa è già arrivata a un livello di produttività che rende virtualmente superfluo lo sfruttamento e la lotta di classe; il socialismo, coscienza di questa superfluità, è anche la fine della lotta di classe, è la società civile conciliata, l'individuo che ha nell'altro non più il suo limite, ma la certezza di se stesso.

Con tutto questo Marx non solo accetta una contraddizione: la conciliazione reale è una conciliazione sperata, cioè irreale; ma nel contempo rompe con Hegel, per il quale la società civile è l'eticità essenzialmente estraniata da se stessa, cioè preda di una conflittualità che nessun moto interno può comporre, la cui negazione comporta perciò la negazione della società civile stessa, ossia lo Stato. In questo pensiero Marx e con lui l'interno Novecento filosofico hanno visto soltanto una mistificazione. A questa loro valutazione sfugge però ciò che Hegel effettivamente intende, ossia che la composizione della società civile è reale soltanto sulla base dall'ostilità esterna: il conflitto della società civile è realmente domato dallo Stato non per un suo arcano potere magico, ma perché deve fronteggiare il rapporto potenzialmente ostile con altri Stati4. In una parola: è l'eventualità della guerra che smussa il conflitto di classe e trasforma in Stato la società civile realizzandovi la conciliazione che in essa è eternamente potenziale; è l'esigenza di sovranità verso l'esterno che fonda la sovranità verso l'interno, che cioè impedisce il radicalizzarsi della differenza tra le classi, tra gli individui; ed è questa intima connessione tra sovranità interna e sovranità esterna – non certo un cedimento a impulsi crudeli5 –, che induce Hegel a riconoscere l'eticità della guerra.

Marx, come del resto tutto il pensiero che potremmo definire ‘progressivo’, nel quale rientrano il liberalismo e lo stesso Foucault, non ha sensibilità per la guerra: la considera un epifenomeno del conflitto di classe, destinato a volatilizzarsi con il socialismo, non un'implicazione necessaria dell'essere individuale, che nel suo stesso concetto è respingere l'altro, sua soppressione6 – su questo punto egli è lontanissimo dal realismo politico iniziato da Machiavelli. Il pensiero ‘progressivo’ che dichiara la nullità dell'universale a vantaggio dell'essere individuale, si imprigiona nel contempo in un concetto edulcorato dell'individualità: l'individualità non individuale, ma universale, non respingente ma comunicativa, per cui i molti individui sono una naturale attrazione reciproca e l'umanità è essenzialmente pacifica. Di fronte all'immagine di questa individualità già pacifica per sua natura, lo Stato, la cui prima funzione è fare della moltitudine internamente repulsiva degli individui un individuo, pacificarla, per metterla in grado di fronteggiare altre società altrettanto individualizzate, appare l'origine unica della violenza, che scomparirebbe con la sua scomparsa. In altri termini, il pensiero ‘progressista’ sottrae all'individuo la sua repulsività accollandola allo Stato e, con una coerenza che sfida il senso della realtà, intravede nella fine dello Stato il trionfo della pace.

mercoledì 5 ottobre 2016

Paolo Di Remigio sulla riforma costituzionale


(Un breve intervento dell'amico Di Remigio sulla riforma. M.B.)

Nessuno parla peggio della riforma costituzione di chi le è a favore. Per elogiarla dice che accelererà i processi decisionali. Le decisioni si prendono però dopo 'matura' riflessione e, a meno che non si sia sul campo di battaglia, la decisione rapida è sempre quella sbagliata. Il bicameralismo aveva questo fine, rallentare il processo decisionale affinché il suo risultato fosse ben ponderato: la lentezza è la virtù di chi sa decidere. Sostenere poi che i problemi attuali dell'Italia siano un effetto del 'ping-pong' tra le due Camere è quanto meno avventato. Più probabile il contrario: i nostri problemi vengono dall'irresponsabilità con cui un intero ceto dirigente ha deliberato senza ben capire cosa stesse facendo e senza riflettere sulle conseguenze, in fiduciosa obbedienza alle direttive della grande finanza bancarottiera. Così hanno firmato il trattato di Maastricht senza riflettere che il cambio fisso avrebbe cancellato la nostra competitività e che i suoi parametri ci avrebbero condannato all'austerità, hanno introdotto il pareggio del bilancio pubblico senza pensare che esso vanificava l'impegno della Repubblica per la piena occupazione; hanno votato la 'Buona scuola' senza indagare sui danni già provocati dall'autonomia e il Jobs Act trascurando che avrebbe depresso la domanda in un contesto di domanda già depressa. La rapidità è la virtù di chi deve soltanto eseguire ordini.

domenica 25 settembre 2016

Pillole di verità dal mainstream

Come abbiamo fatto notare più volte, le analisi che l'area antieuro  proponeva anni fa sono ormai diventate mainstream. Un esempio è questo articolo sul Corriere, di Federico Fubini:


http://www.corriere.it/cultura/16_settembre_25/surplus-commerciale-tedesco-ea7b56b6-8286-11e6-8b8a-358967193929.shtml


Il passaggio più interessante è quello in cui Fubini dice che l'euro è una moneta sottovalutata per la Germania e sopravvalutata per Italia e Francia, ma aggiunge che "la soluzione non può essere la rottura dell'euro". E allora quale mai sarà la soluzione? Fubini non lo dice, perché ovviamente non c'è nessun'altra soluzione, almeno nessuna politicamente praticabile nelle condizioni date.


Intanto, in attesa che qualcuno trovi la soluzione alternativa che Fubini non sa indicare, la situazione continua a peggiorare:


http://www.corriere.it/economia/16_settembre_24/crescita-dimezzata-vincoli-ue-337a00b4-8297-11e6-8b8a-358967193929.shtml

giovedì 22 settembre 2016

Sincerità

Alessandra Daniele pubblica le sue "schegge taglienti" sulla rivista online "Carmilla". A volte è geniale, come in questo caso


https://www.carmillaonline.com/2016/09/11/sincerita-italiana/

lunedì 19 settembre 2016

La rivolta per i compiti a casa (P.Di Remigio)

(Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo di Paolo Di Remigio sul tema dei compiti a casa, del quale abbiamo parlato qui. M.B.)

Forse il rifiuto di fare i compiti per le vacanze voleva essere un ultimo gesto contro l'autorità della scuola1 – in ogni caso è sprofondato nelle sabbie mobili di una imperturbata tolleranza: la scuola non ha reagito punitivamente; configurata infatti secondo il modello dell'ospizio, come potrebbe scomporsi se un suo cliente non segue delle prescrizioni dettate più dall'abitudine che dalla convinzione? Rifiutarle, anziché essere un atto di coraggiosa rottura, somiglia piuttosto all'accanimento contro un corpo senza vita; e solo per questo trova un'eco nella stampa italiana. Essa infatti sopravvive offrendo ai suoi lettori, anziché informazioni, soddisfazioni occulte dei loro desideri2 e alimentando il sentimento di sé dell'ignoranza; il dilettantismo, l'incapacità di argomentare, l'incolta soggettività che si riduce ad avere se stessa come unico oggetto, possono acquisire nei suoi articoli un'aria di importanza.

Al padre che non ha fatto fare i compiti estivi al figlio perché lo ha impegnato in tante bellissime attività, si poteva obiettare che lo svolgimento di quei compiti non precludeva quello delle bellissime attività, che le lunghe giornate estive offrono tempo per quelli e per queste, che in generale durante le vacanze non solo ci si diverte e riposa, ma ci si lava, si pulisce casa, si cucina come quando si lavora – che insomma il rifiuto è del tutto pretestuoso dal punto di vista pratico. Dietro l'inconsistenza pratica del rifiuto sarebbe allora apparsa una sublime quaestio juris, il principio per cui gli insegnanti devono insegnare ciò che hanno da insegnare nei limiti del tempo-scuola loro concesso, e non devono esorbitare sui pomeriggi e sui giorni di vacanze. In questa prospettiva il lavoro domestico degli alunni appare una corvée imposta dal mancato lavoro scolastico di insegnanti infingardi – un capitolo nel lungo romanzo della corruzione e delle inadempienze dei lavoratori pubblici. È per questo che nel rifiuto dei compiti a casa si avverte un certo tono da denuncia al tribunale amministrativo o almeno quello della rivendicazione sindacale. Toni del tutto fuori luogo: quanto alla rivendicazione sindacale, forse non è superfluo ricordare che essa è legittima per i produttori di ricchezza, per i lavoratori, che gli studenti, benché ugualmente lavoratori, non producono tuttavia ricchezza, che, anzi, la scuola costa alla famiglia e alla collettività, che dunque ogni consegna scolastica non ha nulla a che fare con l'estorsione di lavoro non pagato; quanto alla denuncia del presunto illecito, essa si basa sulla grossolana ignoranza dei fatti elementari della didattica. Innanzitutto, la richiesta di limitare il lavoro scolastico a scuola presuppone la convinzione discutibilissima che questo lavoro non offra strumenti di applicabilità universale, in grado di rendere l'individuo adeguato ai problemi di ogni ambito vitale, che cioè le cose imparate a scuola per principio servano solo a scuola e a null'altro. Se fosse così, allora sarebbe meglio abolire del tutto l'obbligo scolastico – certi ambienti neoliberali non si augurano di meglio. In secondo luogo, il rifiuto di lavorare a casa implica la convinzione che il lavoro senza la presenza dell'insegnante possa e debba essere sostituito dal lavoro con la presenza dell'insegnante. Mentre la prima convinzione equivale al rozzo pregiudizio dell'inutilità del pensiero teorico, la seconda convinzione nasce dai profondi equivoci che dominano la didattica da quando vi è stato importato il modello anglosassone – quello che in ottemperanza all'anarco-liberalismo fa dell'alunno un cliente.

Non è questo il luogo di confutare il rifiuto della teoresi – lo ha già fatto la storia del mondo. Può essere invece utile ricordare che dalla frequenza della scuola l'alunno deve trarre competenze – deve saper parlare, scrivere, capire e risolvere problemi in generale – e che l'insegnante può dare molto ma, disgraziatamente, non le competenze, perché queste non possono essere trasmesse magicamente, ma ognuno se le forma a partire dal proprio lavoro privato e nella misura estensiva (quanto tempo) e intensiva (con quanta accuratezza) in cui lo svolge. Compito della scuola è 1. scegliere, ordinare e illustrare i contenuti scientifici, 2. prescrivere, correggere e valutare le esercitazioni. Si vede subito che l'insegnante è protagonista del primo punto, che lo studente lo è del secondo. Lo svolgimento puntuale del primo, per quanto stimolante e creativo sia stato, equivale a «scrivere sull'acqua», come scrive Hegel nel brano proposto più sotto, se non gli si accompagna lo svolgimento altrettanto puntuale del secondo, che è compito individuale, solitario, dell'alunno. L'insegnante non può imparare al posto dell'alunno, né lo può fare un alunno al posto dell'altro, come accade di solito nei lavori di gruppo; può stimolarlo con la sua scienza e creatività, può obbligarlo con la minaccia delle valutazioni negative – in ogni caso l'alunno diventa competente con il proprio lavoro, esercitandosi.

Il frammento seguente, tratto dal discorso che Hegel in qualità di rettore tenne il 14 settembre 1810 al Ginnasio di Norimberga, contribuirà a sollevare il velo che la pigrizia torna eternamente a stendere sugli elementi di ogni azione didattica.

«Affinché per gli studenti la lezione impartita a scuola diventi fruttuosa, affinché per suo tramite facciano effettivi progressi, la loro diligenza privata è necessaria quanto la stessa lezione … Nulla è più essenziale che perseguire con ogni severità e sottomettere a un regolamento inesorabile il vizio della negligenza, del ritardo o dell'omissione dei lavori, così che la consegna puntuale del compito diventi qualcosa di immancabile come il sorgere del sole. Questi lavori sono importanti non solo perché quanto appreso a scuola si imprima più saldamente con la ripetizione, ma soprattutto perché la gioventù sia condotta, oltre il nudo recepire, all'occupazione attiva, al proprio sforzo. Infatti l'apprendere come nudo recepire e memorizzare è un aspetto molto incompleto dell'istruzione. Viceversa, la tendenza dei giovani a ritrarsi nel proprio punto di vista e a disprezzare l'oggetto è altrettanto unilaterale e va tenuta con cura lontana da essi. Per tutti i primi quattro anni di apprendimento gli allievi di Pitagora dovevano tacere, cioè non avere o manifestare proprie idee e pensieri; infatti il fine principale dell'educazione è che siano estirpati pareri, pensieri e riflessioni che la gioventù può avere e fare, e il modo in cui può farseli da sé; come la volontà, anche il pensiero deve iniziare dall'obbedienza. Se però l'imparare si limitasse a un nudo recepire, l'effetto non sarebbe molto migliore dello scrivere frasi sull'acqua; infatti non il riceverla, ma soltanto l'attività dell'afferrarla e la facoltà di riutilizzarla fanno di una nozione una nostra proprietà. Se invece la tendenza va soprattutto all'affermare la propria superiorità sull'oggetto, nel pensiero non arrivano mai disciplina ed ordine, nella conoscenza non arrivano nesso e coerenza. È dunque necessario che al ricevere sia aggiunto il proprio sforzo, non come un creare inventivo, ma come applicazione dell'appreso, come tentativo di cavarsela per suo tramite con altri casi singoli, con altro materiale concreto. La natura di ciò che si insegana negli istituti scolastici, a partire dalle prime determinazioni grammaticali, non è una serie di fenomeni sensibili, isolati, ciascuno dei quali valga solo per sé e sia soltanto oggetto dell'intuire e del rappresentare o della memoria, ma è in primo luogo una serie di regole, di determinazioni universali, di pensieri e leggi. In questi la gioventù acquisisce subito qualcosa che essa può applicare e un materiale a cui può applicarlo – strumenti e armi per cimentarsi con il singolo, una capacità di venirne a capo. – La natura del materiale e la modalità di istruzione, che non è inculcare una collezione di casi singoli, una folla di parole e locuzioni, ma è un procedere interattivo tra singolo e universale, conferisce all'apprendere … il carattere dello studio …»3.



1 Per i primi gesti cfr. l'interessante intervista rilasciata da Luigi Bobbio e contenuta al minuto 21:20 del seguente filmato http://www.raistoria.rai.it/articoli/litalia-della-repubblica-studenti-e-operai-in-lotta/33654/default.aspx


2 «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». (Romani 8,26)




3 Il testo che abbiamo tradotto è contenuto in Hegel, Nürnberger und Heidelberger Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1970, pp. 331-333.

venerdì 16 settembre 2016

Nel paese dei balocchi

Da qualche tempo si discute sul grave problema dei compiti a casa. Molti genitori e qualche insegnante ne teorizzano il rifiuto. L'ultima di queste discussioni, in ordine di tempo, è nata dalla lettera di un padre, pubblicata su facebook, che informava gli insegnanti della propria decisione di non far fare i compiti delle vacanze al figlio:


http://www.huffingtonpost.it/2016/09/13/lettera-di-un-papa-contro-i-compiti-per-le-vacanze_n_11989058.html


Non c'è niente di nuovo, naturalmente, nel rifiuto della fatica e della disciplina che comporta l'acquisizione del sapere. E' ovvio che è più divertente fare le cose divertenti, che è più interessante fare le cose per le quali proviamo un interesse immediato. Di tutto ciò ha parlato uno dei testi fondamentali della cultura occidentale, "Le avventure di Pinocchio", quando Collodi descrive il paese del balocchi. Un posto che ovviamente è molto più divertente e interessante della scuola. Collodi sapeva però la verità che i genitori e gli insegnanti di cui si discorre hanno dimenticato, o non hanno proprio mai saputo: il paese dei balocchi ha uno scopo preciso, quello di trasformare i nostri figli in somari bastonati e sfruttati. Fossi complottista, mi verrebbe da dire che l'attenzione mediatica che si dà a iniziative come quella del padre di cui sopra, è il risultato di un piano per trasformare l'Italia in un paese di somari bastonati e sfruttati. Ma il complottismo è sbagliato, e la verità è più semplice e più triste: siamo già un popolo di somari bastonati e sfruttati. È per questo che sui giornali trovano spazio queste discussioni, ma non c'è un dibattito serio sull'euro. È per questo che ci teniamo l'orribile classe politica di destra e di sinistra. È per questo che il nostro paese cade a pezzi.

La storia infinita

Le politiche austeritarie riproducono se stesse, all'infinito:


http://www.repubblica.it/economia/2016/09/15/news/crisi_portogallo-147779935/?ref=HRLV-4


http://vocidallestero.it/2016/09/07/zerohedge-un-altro-stallo-greco-leuropa-rifiuta-i-soldi-ad-atene-finche-le-riforme-non-saranno-adottate/

sabato 10 settembre 2016

domenica 4 settembre 2016

Qualche osservazione sull'intervento di Cesaratto (P.Di Remigio)


(Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno scritto di Paolo Di Remigio a proposito dell'intervento di Cesaratto che abbiamo segnalato sul blog. M.B.)


L'intervento di Cesaratto, «Il proletariato (non) ha nazione …»1, largamente condivisibile, anzi illuminante in molti punti, nella sua prima parte non sembra spingere abbastanza in profondità la critica della sinistra e forse anche questo contribuisce a rendere oggi, come scrive lo stesso Cesaratto, «maledettamente difficile» la «prospettiva politica di cambiamento».
Un primo eccesso di delicatezza appare rispetto alla citazione di Gallisot: «Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà». Questa proposizione contiene un doppio, grave errore: 1. Sembra credere che la proprietà privata sia incompatibile con la solidarietà; ma nessun proprietario privato è soltanto proprietario privato; egli è anche membro di una famiglia, a cui è legato dalla più forte delle solidarietà, cioè dall'affetto; inoltre è membro di uno Stato a cui paga (in qualche misura) le tasse e presta, se necessario, servizio militare, e queste sono forme concrete della solidarietà con cui è prodotta la res publica. 2. Sembra credere che l'essere priva di proprietà renda particolarmente «suscettibile di solidarietà» la classe operaia; invece è evidente proprio il contrario, che la necessità di dover fronteggiare da una posizione debole la lotta per la vita nella società civile può solo facilitare l'assunzione di stili di vita egoistici. Gli interessi egoistici, infatti, non terminano con la proprietà privata: l'interesse a trovare un lavoro decente mette in competizione i proletari in modo più duro che i borghesi. La proposizione di Gallisot è insomma del tutto immotivata, un desiderio scambiato per realtà.
Vediamo ora cosa risponda Cesaratto. Egli ricorda giustamente che le classi operaie delle diverse nazioni sono in concorrenza a. in quanto partecipano indirettamente alla concorrenza tra i diversi capitalismi nazionali; b. in quanto sono esposti alla concorrenza dei lavoratori immigrati; ma dimentica che il salario, il prezzo della forza lavoro, si forma sulla base della concorrenza tra i lavoratori. Eppure nella stessa citazione di Marx riportata qualche riga sotto si trova una smentita indiretta del mito della solidarietà operaia: « … per poter combattere … la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe …». Ossia, prima la classe operaia è una pluralità di operai in concorrenza che ha, certo, interessi comuni, ma che tuttavia non agisce secondo questi interessi comuni, che dunque restano in sé, potenziali, che possono unirla, ma non la uniscono ancora; poi questa pluralità in concorrenza rinuncia alla propria dispersione atomistica, si organizza, cioè ogni atomo diventa membro di una unità, e questa unità è la classe come classe, come realtà e non più solo semplice possibilità. Il superamento della dispersione, l'unità, non può dunque essere mai concepita come già data in natura: è sempre una costruzione intelligente e questa costruzione è stata storicamente il partito. La classe operaia si trova cioè nella medesima situazione di un popolo, che, certo, ha lingua, abitudini comuni, ma nel contempo ha interessi differenti che creano concorrenza, conflitto. Presupporre una solidarietà operaia e una conflittualità statale, attendersi da quella il superamento di questa, è uno dei pregiudizi inspiegabili in termini razionali, che paralizzano tutta l'attuale sinistra e rendono maledettamente difficili le prospettive politiche di cambiamento.
Un secondo eccesso di delicatezza nell'intervento di Cesaratto appare nel riferimento a Gellner. Secondo costui: « … l’emergere delle entità nazionali (è stato) funzionale allo sviluppo capitalistico». In effetti, però, il capitalismo non ha creato gli Stati nazionali, li ha trovati, e solo con estrema lentezza li ha piegati alle sue esigenze, peraltro non univoche ma contrastanti. Lo Stato nazionale e lo Stato moderno in generale vengono alla luce nel basso medioevo, per opera delle monarchie europee, cui la nobiltà feudale, costrettavi dalle insubordinazioni contadine, consente di esercitare un potere che prende progressivamente carattere pubblico. Questa storia autonoma dello Stato nazionale è trascurata dalla filosofia della storia marxista nella misura in cui, come vede bene Cesaratto, essa lo concepisce come falsa coscienza, evidentemente sulla fragile base della presunta naturalezza della solidarietà operaia. Occorre l'antistatalismo di von Hayek per riportare qualche marxista a una visione più equilibrata dello Stato. Anche qui però non si verifica una discussione sui presupposti. La prospettiva statale è fatta propria, controvoglia, dal marxista Davidson, in contrasto con la prospettiva delle entità sovranazionali che von Hayek auspica in odio alle politiche statali redistributive. Questa riappropriazione trascura però che le entità sovranazionali non sono nulla di nuovo sotto il sole, e hanno un nome preciso. Le entità politiche in generale sono di due specie: gli Stati, in cui virtualmente tutti godono gli stessi diritti, qualunque ne sia l'estensione; gli imperi, in cui una etnia gode di più diritti a spese delle altre. La UE non è un'entità sovranazionale hayekiana, è il nome dell'imperialismo regionale della Germania, che opera entro l'imperialismo globale statunitense. Lo svuotamento dei poteri dello Stato all'interno dell'entità sovranazionale di cui parla Hayek, tale da privare gli Stati di capacità redistributive, vale dunque non in generale, ma soltanto per le etnie assoggettate: gli operai tedeschi nella UE non vivono i drammi della disoccupazione e della povertà propri degli operai delle «entità» colonizzate – insieme alle merci la Germania ha esportato anche la disoccupazione. Proprio questo rende una stupida velleità ogni discorso sulla classe operaia europea, ogni speranza su una solidarietà cosmopolita o internazionalista tra colonizzatori e colonizzati. Così la lotta contro l'entità sovranazionale hayekiana non è che lotta contro l'imperialismo, e come tutte le lotte anti-imperialiste va condotta in nome dello Stato-nazione. Senza troppe riserve mentali.
1 Cfr. http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2016/08/il-proletariato-non-ha-nazione.html#more

giovedì 1 settembre 2016

Qualcosa sta cambiando


(Ho scattato queste foto in corso Armellini a Genova, qualche giorno fa. Gli "ultras Tito 1969" sono un gruppo della tifoseria sampdoriana. Non so che riferimenti politici abbiano, se ne hanno. Fino a non molto tempo fa, la comparsa di scritte simili era abbastanza impensabile, credo. Forse qualcosa sta cambiando. M.B.)














lunedì 29 agosto 2016

Un discorso di Hegel


(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stato colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.B.)




In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di liberalità del Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di istruzione1. – Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e individualizzati.
Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2.
Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.
Un motivo interno di fiducia è però che, nel migliorare ed estendere essenzialmente il tutto, il nuovo Istituto ha conservato il principio dell'antico e ne è soltanto una prosecuzione. Ed è notevole che questa circostanza costituisca il caratteristico e l'eccellenza del nuovo ordinamento4.
Poiché l'anno scolastico che si conclude è il primo e la storia del nostro Istituto in questo anno è la storia del suo sorgere5, è troppo vicino il pensiero di tutto il suo piano e del suo fine, perché possiamo distoglierne la nostra attenzione e dirigerla già a suoi casi singoli. Poiché la cosa stessa è appena nata, la sua sostanza tiene ancora occupate la curiosità e la riflessione pensante. Quanto c'è di singolo, poi, in parte è noto dagli annunci pubblici; in parte è contenuto insieme all'ulteriore dettaglio (che cosa e come e a quanti alunni sia stato insegnato quest'anno), nel catalogo scolastico stampato che sarà distribuito al pubblico. Mi sia dunque consentito, all'alta presenza di Sua Eccellenza e di questa eminente assemblea, di attenermi al principio del nostro Istituto e di esporre alcuni pensieri generali sulla sua condizione, sulla sua struttura e sul loro senso, per quello che l'attività dispersiva che in questo momento il mio ufficio porta con sé mi permette di mettere insieme6.
Lo spirito e il fine del nostro Istituto è la preparazione allo studio teorico, una preparazione che è costruita sulla base dei Greci e dei Romani. Da qualche millennio è questo il terreno su cui è impiantata, da cui è germogliata e con cui è stata in costante rapporto ogni cultura. Come gli organismi naturali, piante e animali, si svincolano dalla gravità, ma non possono abbandonare questo elemento della loro essenza, così ogni arte e scienza è cresciuta su quel terreno; e sebbene sia diventata autonoma, non si è liberata dal ricordo di quell'antica formazione. Come Anteo rinnovava le sue forze al contatto con la Madre Terra, così ogni nuovo slancio e vigore della scienza e della cultura è sorto dal ritorno all'antichità7.
Come però è importante la conservazione di questo terreno, così è essenziale il cambiamento della sua situazione di un tempo. Quando ci si accorge di ciò che di insufficiente e di nocivo hanno i principi e gli ordinamenti antichi, e i mezzi e gli fini educativi ad essi legati, il primo pensiero che emerge è la loro completa eliminazione. Invece la saggezza delle Autorità, superiore a questo rimedio di facile apparenza, soddisfa nel modo più vero l'esigenza del nostro tempo, perché pone l'antico in un rapporto nuovo col tutto e così non solo ne conserva l'essenziale, ma lo muta e lo rinnova8.

venerdì 26 agosto 2016

Le grida

Dopo l'ennesimo disastro, le solite sacrosante parole di buon senso:


http://www.huffingtonpost.it/2016/08/24/mario-tozzi_n_11672740.html?utm_hp_ref=italy


http://sollevazione.blogspot.it/2016/08/scosse-che-altrove-non-uccidono.html




Parole sacrosante che non porteranno a nulla, grida manzoniane, come negli infiniti disastri precedenti, perché soltanto una classe politica degna di questo nome potrebbe farne buon uso. Ma quella che abbiamo in Italia non è una classe politica,  come abbiamo tante volte ripetuto, ma un ceto affaristico-delinquenziale unicamente interessato ai propri meschini interessi personali.


Aggiungiamo, a completamento, altre sacrosante parole, dovute a Bagnai, anche se i nostri lettori sicuramente le conoscono già:


http://goofynomics.blogspot.it/2016/08/amatrice-dormitio-virginis.html


http://goofynomics.blogspot.it/2016/08/qed-66-le-asimmetrie-europee.html

mercoledì 24 agosto 2016

Non c'è stato il diluvio

Uno degli argomenti dei sostenitori del sì, nella prossima campagna referendaria, sarà probabilmente quello della paura di conseguenze economiche negative, nel caso di vittoria del no. Può essere utile allora segnalare questo articolo pubblicato sul "Guardian", e tradotto da "Voci dall'estero", che mostra come le analoghe previsioni di sventura, in riferimento al referendum inglese, siano state smentite.

domenica 21 agosto 2016

L'Occidente è liberale?

Segnalo da "Militant" un articolo che condivido largamente


http://www.militant-blog.org/?p=13518


D'accordo, sono polemiche estive e fra poco avremo altro di cui occuparci. Mi sembra però rilevante un aspetto di queste vicende: è banale osservare che fra i principi fondamentali della civiltà liberale vi è quello per il quale ciascuno è libero di fare quello che vuole finché non lede la libertà altrui. Il corollario è ovviamente che ciascuno va vestito come gli pare, con blandi vincoli di rispetto del "comune senso del pudore" (e il "burkini" non crea certo problemi di questo tipo!) e di eventuali norme di sicurezza (che sono l'unico fondamento sensato al divieto di coprire il volto in luoghi pubblici). Insomma, questo tipo di polemiche sarebbe semplicemente impensabile all'interno dei riferimenti mentali della civiltà liberale, per come l'abbiamo conosciuta. Quello che voglio suggerire è che questo tipo di polemiche estive rappresenti un altro piccolo segnale del declino di tale civiltà.

venerdì 19 agosto 2016

Ancora Stiglitz

Ancora sul libro di Stiglitz, segnalo questo intervento di J.Sapir, dal solito benemerito "Voci dall'estero". Risale a qualche mese fa, ma mi pare attuale.


http://vocidallestero.it/2016/03/04/sapir-king-stiglitz-e-leuro/

mercoledì 17 agosto 2016

Inizia la campagna d'autunno

I manuali militari insegnano, credo, che le offensive sono precedute da massicci bombardamenti. Sta iniziando, a livello internazionale, il bombardamento mediatico a favore del Sì al referendum:


http://www.repubblica.it/politica/2016/08/17/news/referendum_costituzionale_allarme_usa_ue-146115431/

lunedì 8 agosto 2016

Democrazia e conoscenza (P.Di Remigio)


(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo questo intervento, già apparso su "Appello al popolo". M.B.)


Democrazia e conoscenza
Paolo Di Remigio

I discorsi abituali sulla politica e sull’uomo riservano valore ai desideri e disprezzo alla realtà fattuale. Poiché ai desideri corrispondono i giudizi di valore, sembra che questi, dopo essere stati distinti dai giudizi di fatto, abbiano la furbizia di predicarsi di se stessi, sembra che di essi si possa dire che valgono proprio perché sono giudizi intorno al valore. Ma una breve riflessione è sufficiente a vedere l'errore e a capire che le cose stanno al rovescio: i desideri espressi dai giudizi di valore sono la sfera irriflessa dell’io, la libertà allo stadio primitivo, soltanto potenziale; la realtà fattuale è l'altro dell'io, il giudizio che la concerne presuppone un io ben più forte di quello desiderante, un io capace di accettarla, di conoscerla e di affrontarla. Così l’io che sopravvaluta i propri desideri fino a farne il proprio oggetto privilegiato e in base ad essi disprezza la realtà fattuale, qualunque essa sia, confessa soltanto la propria debolezza.

Neanche si può ammettere che l'assolutezza del desiderio debba soltanto andare perduta di fronte alla durezza dei fatti. Il concetto di libertà implica un rapporto con la realtà migliore della rassegnazione. Nella filosofia hegeliana la libertà è la sostanza dell'io, come la gravità lo è della materia: questa è il proprio tendere ad annullarsi in un centro ad essa estraneo, quella è il centro del proprio movimento. Questo essere centro di se stessa implica che la libertà – al contrario di quanto è presupposto dal pregiudizio comune – non è compatibile con le barriere; non a caso il carcere è la rappresentazione della sua mancanza. Se però l'uomo fosse soltanto finito, la libertà gli sarebbe estranea ed attribuibile soltanto a Dio. Ma non è così. Innanzitutto, la fedeltà dell'uomo all'assolutezza del desiderio può spingerlo a infrangere le barriere e a realizzare una libertà in forma negativa; e in quanto la sua stessa vita può rappresentare una barriera, l'uomo può addirittura rinunciarvi. La realtà del desiderio assoluto consiste nell'impulso di morte che anima ogni coraggio e che quando diventa esclusivo si traduce in fanatismo.

La libertà ha poi un secondo significato, positivo, balenante in ogni azione riuscita. La libertà che sente se stessa soltanto come infrazione del limite è vuota, soltanto formale, dunque bisognosa di un contenuto estraneo. Se il soggetto è comunque riferito a un oggetto, che sia il nulla o il qualcosa, sembra che si sia ritornati all'inizio, alla constatazione che la libertà sia impossibile per l'uomo. Non è così: l'inizio dal nulla mostra che la libertà è incompatibile con la positività immediata e che la sua stessa positività deve essere considerata una forma di negatività. In questo senso, la libertà è propriamente un risveglio: come il soggetto, in quanto desiderio, ha perduto la sua assolutezza negandosi nell'oggetto, così la recupera in quanto l'oggetto si nega in soggetto. Questo recupero di sé nell'oggetto è la libertà, con tutta l'assolutezza del desiderio, senza la sua distruttività astratta. Ma la conoscenza è proprio questo: scoprire la soggettività nelle cose; in questa scoperta che è insieme un riconoscere, la libertà acquisisce il suo significato più profondo, positivo tramite una doppia negatività. Giudizio di valore e giudizio di fatto, desiderio e conoscenza, anziché essere in opposizione irriducibile, sono nel rapporto di domanda e risposta.

La libertà non è originaria – anzi, essa nella sua originarietà è distruttiva; il suo è un essere risultante dalla mediazione del negativo. Questa difficoltà che le è insita, il fatto che la sua natura sia conoscenza anziché esserle presupposta, si propaga all'intero ambito in cui si realizza, l'ambito dello spirito. Hegel ha detto una volta che alle epoche di felicità corrispondono le pagine bianche del libro della storia; viceversa, la lettura delle sue pagine scritte provoca un brivido d'orrore che spesso costringe il discorso politico a ritrarsi nel desiderio; ma il discorso politico che evita l'orrore della storia e, incapace di sopportarlo, tanto più di ritrovarvisi come conoscenza, vuole restare nondimeno positivo, è costretto a fare del desiderio la cosa stessa e della cosa stessa una parvenza che sembra meritare solo annullamento.

Non solo la cosa gli sembra meritare solo annullamento, la stessa conoscenza storica gli appare una sconvenienza: la taccia di inadeguatezza alla nuova prospettiva aperta dal desiderio. Questo disprezzo non è mai giustificato; anche la concezione più empirica, che non si preoccupa della libertà come essenza dell'uomo, riconosce la conoscenza come potere, come produzione dello strumento con cui il soggetto si sottrae al contatto logorante con l'oggetto e afferma la sua libertà rispetto al mondo delle cose. Il disprezzo della conoscenza nasce dal desiderio di evitare il tormento di un'esperienza da cui l'io, che vorrebbe muoversi tra le sue immagini predilette come se fossero le cose, è costretto ad assumere determinazioni dapprima estranee, a ritornarvi di continuo fino a farle proprie, in altri termini a portarle con sé come cibi indigesti prima di poterle assimilare. Contro la disciplina dell'imparare, con cui potrebbe accedere alla conoscenza e diventare libero, l'io regredisce alla magia. Magia è il presumere l'onnipotenza dell'io ineducato, professare l'onnipotenza del desiderio.

Privi per lo più di accettazione della storia nella sua realtà, i discorsi politici hanno da sempre caratteristiche magiche: sono il trionfo del desiderio incolto, incapace di intendere la natura conoscitiva della libertà, che dall'interesse particolare più o meno consapevole salta direttamente alla sua trasfigurazione in prospettive epocali, perdendosi così nel gioco della casualità. Il desiderio che si difende dalla conoscenza storica con l'utopia, si difende dalla politica con la rappresentazione della liberal-democrazia: da una parte le attribuisce il potere di conoscere e assicurare il bene comune, dall'altra la capacità di determinarlo a partire dai desideri strettamente individuali; che i desideri di una maggioranza di individui, nella loro immediatezza ineducata, abbiano accesso alla conoscenza del bene comune e delle scelte opportune per attuarlo, è pensiero magico.

Mentre il problema di ogni aggregazione umana è come gli individui di cui è composta possano adeguare i loro desideri alla conoscenza del bene comune, cioè adeguare la loro singolarità all'universalità così da realizzarla e realizzarvisi, la liberal-democrazia si ostina a presupporre ogni potere come cattivo, ogni desiderio dei singoli come sacro. Se si riflette che il potere è sempre l'universale, e il desiderio è sempre particolare, ci si accorge subito che si tratta del perfetto rovesciamento della verità; cosa potrebbe essere più evidente del fatto che la cattiveria del potere è il suo diventare strumento della singolarità e che la bontà del singolo è il suo superare il desiderio egoistico così da rispettare l'universale? Già Montesquieu ha visto che la repubblica presuppone individui virtuosi, ossia individui non in preda ai propri impulsi, ma abituati a riconoscere il proprio sé nella libertà universale, per i quali l'osservanza della legge non è un limite ma un vanto. La polis greca ha offerto un modello del genere. Essa fu spazzata via dal sorgere dell'autonomia individuale al tempo dei sofisti: Socrate fu l'esempio più nobile di questo individualismo; e la grande filosofia greca è la comprensione di una ingenuità etica che si era già consegnata al passato; ma ormai nessuna società più della nostra è lontana dall'eticità elementare della Grecia democratica.

Il senso comune moderno, modellato sulla rappresentazione liberal-democratica, concepisce il desiderio individuale come fonte della legittimità del potere; questa concezione, che sembra tributare il massimo omaggio all'individuo, poiché lo concepisce ridotto alla sua immediatezza naturale, ne è in realtà il massimo disonore. Poiché il desiderio individuale è concepito come non mediato con l'universalità, la sua libertà è ridotta a una elezione di contenuti esterni o addirittura di individui, durante la quale una propaganda farsesca lo adula fino al ridicolo per sottolinearne il formalismo puro. Così, da una parte l'art. 67 della Costituzione italiana, secondo cui i rappresentanti degli elettori non li rappresentano come individualità desideranti, ma come Nazione, quindi nella loro universalità, d'altra parte la natura farsesca delle elezioni, che ha ridotto l'espressione degli elettori a un semplice prediligere immotivato, consentono ai rappresentanti la perfetta irresponsabilità nei confronti e dei singoli e della Nazione. In generale, quanto più i rappresentanti vantano di trarre la loro legittimità dai desideri, cioè dall'irrazionale degli individui, tanto più determinano l'oggettivo, l'interesse della Nazione, in modo altrettanto irrazionale; rappresentanti che fanno appello all'individuale restano legati all'individualità nella loro azione; la loro universalità si manifesta non nella disposizione a conoscere il bene comune, ma in quella a tener conto solo dei desideri più vicini all'universalità, cioè di quelli più influenti, sperando che in questi siano contenuti tutti gli altri, sperando che la loro attuazione non porti con sé conseguenze severe o addirittura catastrofiche.

Nasce così il problema di stabilire se la Nazione, l'universale sulla cui base la Costituzione consente la delusione del desiderio individuale e, contro il senso comune liberal-democratico, riduce la rappresentanza da fonte unica a un elemento tra gli altri della legittimità, sia determinabile in modo conoscitivo, dunque libero, oggettivo. La soluzione è questa. L'apertura all'universale ha una precisa condizione, quella di negare il desiderio perché dalle sue ceneri nasca la conoscenza. Proprio questa negazione è il contenuto del concetto di sovranità dello Stato. Essa è negatività esterna, cioè indipendenza dello Stato dalle altre individualità statali, ed è negatività interna, Costituzione, ossia l'architettonica del potere per cui esso acquisisce una propria individualità in cui tutte le individualità immediate, desideranti, sono abbassate a membri ed elevate a cittadini. La sovranità statale dunque è condizione necessaria del bene comune e della democrazia effettiva: soltanto se lo Stato ha assunto la sua individualità, è spezzata la pretesa di onnipotenza dei desideri individuali che così possono aprirsi alla conoscenza e alla libertà; senza sovranità statale non c'è libertà pubblica, ma dispotismo del desiderio più forte e non per questo meno cieco, appena mascherato a scadenza periodica dalla democrazia solo formale.

Tutto questo dà la misura della profonda abiezione della politica italiana. Stordita da un cosmopolitismo posticcio, essa rinuncia alla sovranità esterna prostrando lo Stato ad ogni sorta di vassallaggio verso altri Stati; vanifica l'architettura costituzionale permettendo il costituirsi dell'indipendenza del potere finanziario, e la sfigura accettandone i suggerimenti. Non è un caso che i suoi rappresentanti parlino sempre e soltanto di desideri e si aspettino che una magia impedisca le conseguenze catastrofiche delle loro scelte; non è un caso che si allontanino sempre più da una realtà su cui nessuno può più farsi illusioni.