Foucault
e il liberalismo.
La
sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché
riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una
svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi
capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola
ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel
Foucault al Collège de France1
è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo,
rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della
scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo
anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone
con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe
riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi
ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica;
l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel
trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia
keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è
insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura
fortemente competitiva dell’Unione Europea2;
la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la
disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua
genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è
invece influenzato, più che il moralismo europeista della
competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che
pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un
imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.
Non
è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo, anzi
studiarlo, per trarne il quadro dell'ideologia neoliberale nella sua
ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il
libro non sia diventato né un segnale d'allarme né un'arma di lotta
politica. La risposta può essere anticipata subito: Foucault
condivide con il neoliberalismo e con il marxismo il suo presupposto
più interno: l'identità di libertà e natura, ossia la
concezione che la libertà sia una proprietà originaria
dell'individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè
come naturale. Perché la sua indagine avesse risonanza politica,
Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo confrontandosi a
fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non solo il
liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.
L'identità
di libertà e natura detta a Marx un'utopia della società civile. Se
nella «Questione ebraica» egli l'ha concepita come realtà ultima
del mondo etico, come struttura scissa, dilaniata dalla lotta
tra le classi che pone in contrasto individuo e società, la scelta
decisiva del suo materialismo storico è aver concepito il
superamento di questo contrasto, la conciliazione reale come
risultato del movimento interno della società civile:
sviluppando il sistema dei bisogni essa è già arrivata a un
livello di produttività che rende virtualmente superfluo lo
sfruttamento e la lotta di classe; il socialismo, coscienza di questa
superfluità, è anche la fine della lotta di classe, è la società
civile conciliata, l'individuo che ha nell'altro non più il suo
limite, ma la certezza di se stesso.
Con
tutto questo Marx non solo accetta una contraddizione: la
conciliazione reale è una conciliazione sperata, cioè irreale;
ma nel contempo rompe con Hegel, per il quale la società civile è
l'eticità essenzialmente estraniata da se stessa, cioè preda
di una conflittualità che nessun moto interno può comporre, la cui
negazione comporta perciò la negazione della società civile stessa,
ossia lo Stato. In questo pensiero Marx e con lui l'interno Novecento
filosofico hanno visto soltanto una mistificazione. A questa loro
valutazione sfugge però ciò che Hegel effettivamente intende, ossia
che la composizione della società civile è reale soltanto
sulla base dall'ostilità esterna: il conflitto della società civile
è realmente domato dallo Stato non per un suo arcano potere
magico, ma perché deve fronteggiare il rapporto potenzialmente
ostile con altri Stati4.
In una parola: è l'eventualità della guerra che smussa il conflitto
di classe e trasforma in Stato la società civile realizzandovi la
conciliazione che in essa è eternamente potenziale; è
l'esigenza di sovranità verso l'esterno che fonda la sovranità
verso l'interno, che cioè impedisce il radicalizzarsi della
differenza tra le classi, tra gli individui; ed è questa intima
connessione tra sovranità interna e sovranità esterna – non certo
un cedimento a impulsi crudeli5
–, che induce Hegel a riconoscere l'eticità della guerra.
Marx,
come del resto tutto il pensiero che potremmo definire ‘progressivo’,
nel quale rientrano il liberalismo e lo stesso Foucault, non ha
sensibilità per la guerra: la considera un epifenomeno del conflitto
di classe, destinato a volatilizzarsi con il socialismo, non
un'implicazione necessaria dell'essere individuale, che nel
suo stesso concetto è respingere l'altro, sua soppressione6
– su questo punto egli è lontanissimo dal realismo politico
iniziato da Machiavelli. Il pensiero ‘progressivo’ che dichiara
la nullità dell'universale a vantaggio dell'essere individuale, si
imprigiona nel contempo in un concetto edulcorato
dell'individualità: l'individualità non individuale, ma universale,
non respingente ma comunicativa, per cui i molti individui
sono una naturale attrazione reciproca e l'umanità è essenzialmente
pacifica. Di fronte all'immagine di questa individualità già
pacifica per sua natura, lo Stato, la cui prima funzione è fare
della moltitudine internamente repulsiva degli individui un
individuo, pacificarla, per metterla in grado di fronteggiare altre
società altrettanto individualizzate, appare l'origine unica della
violenza, che scomparirebbe con la sua scomparsa. In altri termini,
il pensiero ‘progressista’ sottrae all'individuo la sua
repulsività accollandola allo Stato e, con una coerenza che sfida il
senso della realtà, intravede nella fine dello Stato il trionfo
della pace.
La
separazione di origine liberale tra individuo e repulsività, la
conseguente volatilizzazione della guerra tra le casualità, e non la
carenza di governamentalità, come crede Foucault7,
sono dunque i difetti più profondi e gravidi di conseguenze storiche
della concezione politica marxista; l'irenismo
dell'individualità ha infatti dissolto non solo la ragion d'essere
dello Stato, ma anche la consapevolezza del contrasto reale
tra universalismo dello Stato e particolarismo della società civile.
Questa non è composta di individui collegati da scambi simmetrici,
come immagina la mitologia liberale seguita istintivamente dal
pensiero ‘progressivo’, ma da scambi asimmetrici che determinano
una gerarchia di classi e l'emergere di oligarchie. Nella prospettiva
interna, la sovranità dello Stato consiste dunque nel domare
l'oligarchia; viceversa, l'eterna polemica oligarchica contro il
dispotismo dello Stato è sempre la difesa del suo privilegio.
La
difesa oligarchica del privilegio particolare è il terreno in cui
germoglia la rappresentazione della libertà come natura e come
opposta allo Stato. Quando si realizza questa libertà come
privilegio naturale in contrasto con l'universalità dello Stato,
anziché il ritorno all'età dell'oro dell'umanità pacificata, si
verifica dunque soltanto una regressione alla forma oligarchica, più
elementare, più dispotica, di esercizio del potere di classe. Così,
quando durante il medioevo l'aristocrazia feudale vanifica il potere
monarchico e dà un carattere pubblico al suo potere privato, non
solo l'Europa diventa incapace di difendersi dalle invasioni, ma al
suo interno si impongono pesanti rapporti di dipendenza personale,
nonostante si sia già affermato l'universalismo della religione
cristiana. Viceversa, quando nella storia moderna il potere
monarchico ricostituisce la sfera dello Stato richiamando a sé i
poteri privatizzati dall'aristocrazia, nella conseguente condizione
di suddito è contenuta non solo la dipendenza dalla monarchia
assoluta, come lamentano i liberali, ma anche l'inizio
dell'affrancamento dal potere paternalistico dell'oligarchia feudale.
La
lotta contro lo Stato assoluto è iniziata come rivendicazione di
privilegi feudali: è stata innescata dall'oligarchia che cercava di
assicurarsi una libertà fatta della stessa materia delle libertà
che i feudatari laici ed ecclesiastici un tempo avevano strappato
agli imperatori e ai re. Contro il proprio intento iniziale essa è
però diventata lotta contro i residui feudali dello Stato, ha
purificato la sfera pubblica portando a compimento l'universalismo
proprio dello Stato: dopo la rivoluzione francese lo Stato cessa di
essere un clan feudale che schiaccia gli altri clan feudali, ma
diventa un organismo regolato da leggi universali che sostanziano la
liberta, l'uguaglianza e la fraternità. Tuttavia la vicenda
dell'origine, il fatto cioè che solo in corso d'opera il privilegio
particolare reclamato dagli oligarchi si sia trasformato in diritto
pubblico, è restata impressa nell'ambigua nozione di diritti
dell'uomo: i diritti umani, che durante la
rivoluzione francese il terzo stato formula, hanno il carattere
contraddittorio di essere universali e di essere privilegi, di
essere un diritto universale ma non mediato dallo Stato, anzi
possesso immediato dell'individuo nella sua naturalità; sono cioè
un prodotto dell'universalismo statale, eppure, in quanto
storicamente sorti dal privilegio, la loro universalità è in
contrasto con lo Stato. In questa astrazione della loro universalità
può dunque di nuovo insinuarsi il privilegio, la particolarità dei
pochi può mascherarsi da universalità dei tutti:
tutti hanno diritto alla proprietà, anche se pochi sono i
proprietari. Questa universalità astratta che sembra superare
l'universalità dello Stato, che sembra superare le sue frontiere per
cui esso è particolare rispetto all'umanità in generale, è però
la superiorità della possibilità sulla realtà, della magia sulla
teoria, dell'essenza sull'idea. I diritti universali dell'individuo
sono reali solo nella misura in cui l'universalità reale (il diritto
positivo) dello Stato li realizza e decadono con la decadenza dello
Stato. Simul stabunt, simul cadent.
***
Il
non aver messo in conto la guerra, il non aver preso in
considerazione, all'interno della teoria, l'orrore nella sua forma
estrema, ha imposto nel pensiero progressivo, nel liberalismo, in
Marx e da ultimo in Foucault, la stessa rappresentazione irenica
dell'umanità, che li ha allontanati dall'intuizione dello Stato e li
ha sviati a concepire la libertà sul modello del privilegio
oligarchico. Mentre però l'antistatalismo liberale vuole
essere ideologia del privilegio oligarchico, l'antistatalismo
marxista si trova a tenere insieme la rappresentazione oligarchica
della libertà e la lotta antioligarchica, senza consapevolezza del
contrasto; così attraverso il pathos anti statalista si è insinuato
nel marxismo una simpatia nascosta per l'oligarchia, che non è stata
estranea alla sua capacità di espansione tra la piccola borghesia e
gli intellettuali. Il militante di sinistra si distingue con orgoglio
dalla massa contadina e dal Lumpenproletariat, da sempre parla
di movimento delle masse, ma è ben consapevole dell'ingenuità dello
spontaneismo e si concepisce come aristocrazia (il termine tecnico,
adottato anche in estetica, è ‘avanguardia’) alla guida della
massa. La sinistra, già Lenin lo dové constatare a proposito dei
comunisti, ha avuto in sé da sempre qualcosa dell'autocoscienza
signorile che nel radical chic assume la forma della
supponenza, la fiducia che il proprio attivismo sia dalla parte
giusta per un favore diretto del destino, che le fa apparire
ogni mediazione – lo Stato con le sue leggi e con i suoi doveri, la
scienza con la sua disciplina e le sue fatiche, la stessa bellezza
artistica con la sua astrazione dall'empirico – una raffinatezza
infeconda, dunque, per l'eterno scambio tra desiderio e realtà, già
condannata all'estinzione. È questo sentimento aristocratico di sé,
che pone la sinistra in un riferimento così prossimo all'ideologia
liberale, ad averle infine sgombrato lo spazio di rincorsa per
saltare sul carro avversario.
Pur
inconsapevole dell'origine della concezione di libertà naturale dal
privilegio oligarchico, pur intimamente suo adepto, in virtù del suo
eroico scetticismo, Foucault è infastidito dalla pretestuosità
della fobia dello Stato nutrita dal liberalismo. Poiché con una
sfida al senso della realtà gli ordo-liberali hanno più volte
sostenuto la sostanziale identità tra interventismo economico
redistributivo e totalitarismo, egli ritorna più volte sulla
tendenziosità di concepire come identiche la natura dello Stato e
quella del fascismo e imputa quest'ultimo non a un'evoluzione interna
dello Stato, ma all'imporsi del partito politico come
organizzazione totale sovrapposta all'organizzazione statale. Questo
suo fastidio è un lucido riconoscimento del carattere di forzatura
ideologica del neoliberalismo, che usa la calunnia, anziché la
critica contro l'avversario di classe. Nondimeno lo sforzo di
Foucault è inibito da debolezze filosofiche troppo importanti per
poter raggiungere quel potere di illuminazione politica che pure egli
si era auspicato; la presa di distanza dalla fobia dello Stato non
mette in discussione la sua estraneità all'essenza della politica,
tanto profonda da porlo in segreta sintonia con le esigenze
individualistiche neoliberali. Questa estraneità è riscontrabile
sia a livello formale, nel metodo, che a livello di contenuto.
Nelle
prima lezione Foucault, dopo aver annunciato il tema del corso, ne
espone il metodo. Il tema è il governo politico, non le sue
pratiche particolari, ma la riflessione su di esse, il
loro innalzamento all'universale. Il metodo è esposto subito
dopo. Benché abbia scelto oggetti di indagine universali, Foucault
non parte da universali: sovranità, popolo, Stato ecc. per vederli
realizzati o smentiti dalla storia – egli rifiuta questo metodo che
chiama ‘storicista’; parte invece con una epochè
husserliana, mettendo tra parentesi gli universali, supponendone la
non esistenza, e considerando direttamente ciò che nell'oggetto,
nella storia, cioè nella riflessione sulle pratiche politiche crede
di riferirsi ad essi. Qui occorre capire cosa significhi
‘universale’. Lo si può definire una determinazione presa
come identica: la legge che esprime la regolarità di un
comportamento osservabile, priva però del differente che invece è
sempre presente nell'individuo osservabile. Poiché contiene la
propria determinazione e il differente da questa determinazione,
l'individuo empirico e l'empiria, in quanto sono il contrario di se
stessi, sono anche l'inquietudine che smentisce ogni sua permanenza;
viceversa, la determinazione presa come identica, l'universale,
appare fissa, costante, uguale a se stessa: ha i caratteri di
ciò che comunemente si ritiene verità: la regolarità, la legge, il
bene.
Quando
dichiara l'inesistenza degli universali, Foucault mette dunque tra
parentesi ciò che nella sua stessa forma esprime l'esigenza di
verità. Questo ostracismo ha un significato ambiguo: in sé la
negazione dell'universale non sarebbe un rifiuto della verità, la
verità è infatti non il semplice universale (l'intelletto,
direbbe Hegel) ma la corrispondenza di universale e
particolare (in linguaggio hegeliano: la ragione), e questa
corrispondenza nega l'assolutezza di ciò che corrisponde, tanto
dell'universale quanto del particolare. Tuttavia, la negazione
dell'universale che non sia nella scienza, anzi avvenga prima,
nel metodo che lo mette al bando come se fosse una parvenza del tutto
illegittima, riduce la verità al particolare astratto, unico
superstite della selezione, e la scienza, anche quando si riferisca
agli universali in re, ossia non alle pratiche empiriche ma
alla riflessione su di esse, non può che smentirne la pretesa
di universalità e ridurla alla sua base empirica. È quanto accade a
Foucault. Quando, in polemica contro l'universalità, scrive che la
libertà «non è un universale che si particolarizza con il tempo e
la geografia»8
sembra non comprendere che il particolarizzarsi dell'universale è
proprio la sua critica immanente, la sua negazione all'interno
della scienza, negazione determinata, nella quale sono dunque
dati sia il suo conservarsi nel particolare che la premessa alla
critica di questo – e questa doppia critica, dell'universale e del
particolare, è la verità e la scienza. In altri termini, il dogma
di illegittimità degli universali lascia a Foucault come residuo
teorico soltanto gli universali posti nell'oggetto stesso, nel tema
scelto, che, come si è visto, non è composto da singoli atti di
governi empirici, ma dalle riflessioni teoriche sulla pratica di
governo; poiché però la legittimità dell'universale è stata
sbandita una volta per tutte, gli stessi universali che dall'oggetto
si fanno incontro alla conoscenza sono presi come semplici equivoci,
da spiegare come un gioco di pratiche particolari dotate di
una loro vicenda, da accettare come tale. Il radicalismo nominalista
contro l'universale riduce la critica, che dovrebbe essere la
semplice descrizione del contrasto interno delle cose, a una loro
valutazione esterna.
Tutto
ciò è confermato nel ritorno al problema metodologico della seconda
lezione. Qui Foucault osserva che il liberalismo resta interno alla
ragion di Stato, ma è finalizzato, anziché all'espandersi della
polizia (polizia nel senso, proprio del XV e XVI secolo, di
regolamentazione amministrativa del sociale) in ogni ambito vitale,
al governo frugale, al governo minimo. Non è il sapere
economico a ridurre il governo al minimo, non gli economisti con le
loro teorie, ma il mercato: in quanto è lasciato libero alle
dinamiche del suo meccanismo, il mercato offre nei suoi prezzi
valutazioni oggettive a cui deve adattarsi e limitarsi l'azione del
governo che voglia far prosperare lo Stato. L'aver pregiudicato
come illegittima ogni universalità e legittima ogni
particolarità, si vendica su Foucault: egli si sente esonerato
dall'impegno di osservazione critica di questa particolare
pretesa di universalità del mercato. Poiché è operata a priori
dalla scelta metodologica, la critica si spegne nel momento di
passare all'esposizione dell'oggetto; dunque all'esposizione non
resta che descrivere il particolare come se fosse identico a se
stesso, come se fosse privo di contraddizione. In altri
termini, poiché il nominalismo dogmatico ha già neutralizzato
ogni pretesa veritativa, non c'è più necessità di criticare la
singola pretesa di verità; la critica è lasciata all'umore:
può esserci, può non esserci. L'esposizione di Foucault può non
prendere sul serio il contenuto logico del suo oggetto, può
accettarlo come un particolare tra gli altri particolari e restare
indifferente alla minaccia contenuta nella sua pretesa di verità,
trascurare di dare l'allarme e privarsi di efficacia politica.
Mentre
nel XVI e XVII secolo il governo regolava con una sua giurisdizione
il mercato affinché fosse giusto, dalla metà del XVIII il
mercato è vero, e a questa sua verità deve limitarsi il
governo che vuole la prosperità e la potenza dello Stato. Nel
tramonto del problema della giustizia del mercato, nel presupporlo
come manifestazione della verità e nella conseguente sollecitazione
che esso diventi norma dell'azione di governo consiste il
liberalismo. Foucault non si impegna nella critica in
concreto di questo rovesciamento. La critica in concreto non
consiste nell'assoggettare l'oggetto a un criterio estraneo, a un
dover-essere soggettivo, consiste invece nel riconoscere la
sua intima contraddittorietà. In questo senso l'atteggiamento
acritico è una perdita di contatto con l'oggetto. Qui l'oggetto è
il liberalismo, l'ideologia generata non dal mercato in
generale, cioè dallo scambio di equivalenti, ma dall'irruzione del
mercato, tradizionalmente dislocato sui confini del sistema
economico, dove si scambia il superfluo, nel suo cuore, nella
produzione del necessario. Come Marx ha scoperto, e questo è
uno dei suoi meriti immortali, l'irruzione trasforma intimamente il
mercato e lo rende contraddittorio: mentre tradizionalmente
era stato soltanto scambio pacifico e reciprocamente
vantaggioso di equivalenti contrapposto alla violenza predatrice, ora
è non solo scambio, ma anche spoliazione dei lavoratori,
dunque una variante della violenza predatrice. In una parola: il
mercato moderno è la contraddizione di essere opposto alla violenza
predatrice e insieme violenza predatrice.
A
differenza del mercato tradizionale, che scambia il prodotto
eccedente, il mercato capitalista contiene come suo settore
particolare il mercato del lavoro, caratterizzato da uno squilibrio
cronico tra una offerta eccedente e una domanda deficitaria.
Questo squilibrio essenziale del mercato capitalistico condanna
l'offerta di forza-lavoro all'anelasticità esasperata:
contrariamente alle altre merci la cui offerta reagisce in
misura più o meno direttamente proporzionale alla variazione
dei loro prezzi, la forza-lavoro, al diminuire del suo prezzo,
continua ad offrirsi nella stessa quantità o addirittura in quantità
maggiore: con la diminuzione di salari già vicini al livello di
sussistenza gli operai desiderano (così amano esprimersi i
manuali neoliberali di economia) l'aumento (anziché la diminuzione)
del tempo di lavoro: desiderano gli straordinari o mandare in
fabbrica coniuge e figli. Viceversa, l'aumento dei salari può
portare a una diminuzione dell'offerta di forza-lavoro: all'aumentare
del loro reddito i lavoratori potrebbero desiderare che i propri
figli vadano a scuola anziché bruciarli in fabbrica, o addirittura
l'aumento del loro tempo libero. In termini drastici si potrebbe dire
che per la natura monopsonistica del mercato del lavoro la curva di
offerta della forza-lavoro consiste in una proporzione inversa tra
prezzo e quantità, dunque asseconda, invece di contrastarla come
accade negli altri mercati, la domanda di forza-lavoro. È quanto
registra il linguaggio comune, nel quale le ‘offerte’ di lavoro
indicano non l'offerta di ore da parte degli aspiranti
lavoratori, ma la domanda di lavoro da parte degli
imprenditori9.
Se quanto più diminuisce il prezzo della forza-lavoro, tanto più ne
aumenta la quantità offerta, è ovvio che il mercato del lavoro
efficiente appaia ai capitalisti una dolce carezza, una mensa
gratis in un sistema che assegna a ogni cosa il giusto prezzo tramite
uno snervante conflitto tra interessi, e faccia apparire il mercato
in generale come un'eccitante navigazione sospinta da un costante
vento in poppa. – Questa è l'origine dell'ottimismo liberale.
La
contraddizione per cui nel mercato capitalista, in cui si scambiano
equivalenti, si forma anche un settore in cui avviene il
contrario dello scambio di equivalenti, consente la formazione di una
nuova oligarchia, la borghesia capitalistica. Forte della propria
sconfinata elasticità alle variazioni di prezzo di un'offerta di
lavoro sconfinatamente anelastica, per esercitare il proprio potere
sul lavoro essa non ha più bisogno, come le oligarchie feudali, di
degradarsi all'uso della violenza e della superstizione; di qui il
suo rigetto della morale cavalleresca e di quella religiosa. La
borghesia capitalistica non riesce però a non occultare sotto un
velo di universalità la propria natura oligarchica, non può non
lenire la sua autocoscienza con una sua morale – il liberalismo
– che mistifica come scambio di equivalenti lo stesso rapporto
asimmetrico tra capitale e lavoro, che nega la contraddittorietà del
mercato capitalistico (questa la prima origine del suo odio istintivo
della dialettica) e lo purifica come meccanismo imparziale di
formazione dei prezzi ottimali sulla base del libero scambio di
equivalenti.
Poiché
col metodo ha messo tra parentesi l'universale e con esso l'esigenza
di verità, Foucault non è obbligato a prendere sul serio
l'universalità del mercato e la sua pretesa di verità; poiché per
principio considera tutto particolarità neutra, gli
manca il pungolo di percepire la particolarità caustica a cui
il mercato capitalistico è ridotto dalla sua natura contraddittoria.
Egli non racconta la contraddizione, cioè non critica la cosa,
trascura che la trasformazione in merce della forza-lavoro
trasforma il mercato stesso da luogo di libero scambio, in luogo in
cui la libertà dello scambio di equivalenti convive con la
negazione della libertà, che solo da questo momento in poi, e solo
per occultare questa antinomia, il pensiero oligarchico si configura
come liberalismo universalizzante e attribuisce poteri di veridizione
a ciò che in precedenza aveva bisogno di giurisdizione. Poiché non
racconta la natura contraddittoria del mercato capitalistico e la
natura oligarchica del liberalismo, il suo racconto perde lo
spessore critico e si volatilizza nell'enumerazione delle casualità
la cui congiunzione casuale ha dato alla luce quel rovesciamento.
Foucault
tende a compensare la deludente neutralità di questo raccontare
con uno sforzo retorico, parla di «una relazione poligonale, o
poliedrica, se preferite, tra [diversi fenomeni]: una situazione
monetaria specifica del XVIII secolo10,
con un nuovo afflusso di oro …, e una relativa costanza di monete
…; la crescita ininterrotta, economica e demografica, che
caratterizza quella stessa epoca; l'intensificazione della produzione
agricola; l'ingresso nella pratica di governo di un certo numero di
tecnici, dotati sia di metodi sia di strumenti di riflessione; infine
la messa in forma teorica di una serie di problemi economici»11.
Benché vi riconosca un «fenomeno di importanza essenziale nella
storia dell'occidente», Foucault pensa che ci si debba limitare
‘semplicemente’ (e ripete due volte questo avverbio imbarazzato)
a «conferirgli intelligibilità mettendo in relazione i differenti
fenomeni» menzionati sopra. Nei «Lineamenti di filosofia del
diritto», Hegel ha però rilevato la differenza tra genesi empirica
e derivazione concettuale12:
questa è portatrice della necessità della determinazione,
dunque della sua scienza e, qualora si tratti di una determinazione
etica, della sua maestà, quella ha un interesse
soltanto storico e non può sostituire in alcun modo la prima, che le
è del tutto indifferente. La genesi storica di una
determinazione non ne può mai mostrare la validità universale, ma
soltanto una necessità particolare, dipendente dalla casualità ed
equivalente ad essa. Se si è deciso in anticipo che ogni
universalità sia una generatio aequivoca e tuttavia si
conserva un disperato bisogno di non ammutolire, allora non resta che
volgersi alla genesi empirica. Nietzsche, che ha già percorso questa
strada affinché si producesse la controprova dell'invalidità
dell'universale, le ha dato il nome di genealogia.
Il
discorso metodologico di Foucault sulla genealogia del liberalismo è
esitante: rendere intelligibile il reale significherebbe mostrare non
che è necessario (questo non sarebbe possibile, dice Foucault, senza
notare che l'impossibilità è sinonimo della necessità, che dunque
sta affermando la necessità della non necessità), ma
‘semplicemente’ che è stato possibile. ‘Necessario’ e
‘possibile’ non sono però determinazioni stabili, che sia
possibile tenere distinte una volta per tutte: sono dialettiche, sono
il proprio negarsi e mutare in altro. La possibilità da cui Foucault
si attende l'intelligibilità, con tutta evidenza, non è l'astratta
identità della cosa, è invece la possibilità reale, ossia
un insieme di fenomeni dapprima indifferenti tra loro, le condizioni,
che in quanto sono tutte le condizioni della cosa, perdono la
loro prima indifferenza reciproca e sono risucchiate nell'unità
della cosa stessa; mentre quella indifferenza delle condizioni ancora
incomplete è la possibilità reale, il loro essere risucchiate in
virtù della totalità, il ridursi a condizioni necessarie e
sufficienti di un altro, cioè della cosa, è però già la
necessità. La condizione è questo doppio: un indipendente e insieme
un momento di un altro; come possibilità è indipendenza e, come
necessità, è già momento chiuso nella compattezza della cosa.
Poiché sono unite nella condizione, possibilità e necessità
non possono essere pensate separatamente, e d'altra parte solo in
quanto la possibilità reale è il proprio collassare nell'unità,
solo in quanto essa è se stessa e la necessità, solo in ciò la
possibilità è intelligibilità della cosa. Viceversa, se la
condizione non si riducesse a momento, non subisse cioè la
necessità, non sarebbe neanche possibilità e non offrirebbe nessuna
intelligibilità. Che Foucault rifiuti la necessità e privilegi la
possibilità, si restringe dunque al ribadire a posteriori l'ipoteca
nominalistica del metodo. Esso ha liquidato a priori ogni universale,
quindi ogni attesa di verità; la sua applicazione deve giungere allo
stesso risultato anche a posteriori, deve mostrare che ciò che è di
«essenziale importanza nella storia della governamentalità
occidentale» è – non un risultato, sarebbe già troppo –
ma un gioco casuale di circostanze e nulla più. Il
sostanziale è casuale: questo è il principio del pensiero di
Foucault; egli ha voluto mostrarlo nel campo della follia, della
detenzione carceraria, della sessualità: ovunque nel XVIII secolo
una ricombinazione casuale di fattori nelle pratiche giurisdizionali
ha generato un atteggiamento veridizionale, una pratica di potere non
più diretta, ma non meno, anzi più, pervasiva, perché concepita e
spacciata come derivante da una conoscenza essenziale.
In
questo modo il magistrale sforzo conoscitivo di cui Foucault è
capace tende a neutralizzarsi da solo: «La critica che vorrei
proporvi non consiste nel denunciare quel che ci sarebbe di
continuamente – stavo per dire monotonamente – oppressivo sotto
il dominio della ragione, poiché dopotutto, credetemi, la sragione è
altrettanto oppressiva . Questa critica politica del sapere non
consiste nemmeno nella messa a nudo della presunzione di potere
implicita in ogni verità riconosciuta, perché, credetemi di nuovo,
la menzogna o l'errore (è) anch'essa abuso di potere»13.
In queste proposizioni, mentre parla di abuso di potere e
quindi concede la possibilità di un uso del potere, nel
contempo sopprime di nuovo questa possibilità uguagliando ragione e
sragione, verità e menzogna sotto il segno dell'abuso. Poiché
tutto, ragione e sragione, verità e menzogna, è abuso, ciò che
resta da fare è mostrare la genealogia, cioè la casualità
dell'origine di ogni quadro di regole da cui nasce ogni differenza
tra vero e falso, proprio per mostrare la nullità della differenza.
Infatti, poiché la verità è falsità e l'una e l'altra sono
oppressione e abuso, «che importanza può avere sapere quando una
determinata scienza ha cominciato a dire la verità?»14.
Invece «la capacità di determinare quale [sia] il regime di
veridizione che viene instaurato in un determinato momento», ossia
la genealogia, «ha un'importanza politica attuale»15
– nell'unico senso, però, che essa libera l'azione politica dalla
preoccupazione del vero e del falso, così che può proiettarsi nel
caso e forgiarvi un senso abusivo, non migliore degli altri abusi, ma
neanche peggiore. Qui Foucault inclina di nuovo verso Nietzsche, il
Nietzsche della «Seconda inattuale» per il quale il bisogno di
conoscere la storia nasce dalla paralisi della capacità di
fare storia, e solo la conoscenza che conosce che non c'è
nulla da conoscere, che l'universale è soltanto la superiorità
quantitativa di una particolare volontà di potenza che dà forma
casuale alla casualità, sarebbe una conoscenza utile alla volontà
di potenza, ossia alla politica. E se poi di questa deriva nella
volontà pura si volesse cercare un ribaltamento teoretico, non si
potrebbe fare a meno di sentire l'alito di Heidegger: se il vero e il
falso sono determinati da regole ontiche determinate a loro volta
dalla congiunzione casuale dei casi, allora «la storia della
veridizione» è nel contempo la storia dell'essere che in quanto
tale si manifesta nascondendosi nella nuda, ottusa eventualità.
Nella
terza lezione il nominalismo estremo del metodo esposto nelle prime
due lezioni diventa contenuto. Foucault rimprovera al liberalismo, e
tanto più al neoliberalismo, non l'ipocrisia arcaicizzante della sua
concezione del mercato, non che il mercato sia lo strumento di
affermazione dell'oligarchia moderna, ma il fatto che basi la libertà
del mercato su una regolamentazione pervasiva, asfissiante, non meno
di quella posta in opera nello stato di polizia. Ossia, Foucault
mostra chiaramente di condividere con il liberalismo l'identità di
natura e libertà, di confondere, come il liberalismo, libertà e
spontaneità, senza sospettare che la libertà pratica è il nesso
pensato di diritto e dovere che si stabilisce tramite la
negazione della spontaneità naturale operata dall'educazione e dalle
leggi. Foucault non può percepire l'assurdo della concezione
naturalistica della libertà, perché è l'a priori di ogni
sua ricerca. Così ritiene che l'imperativo «sii libero» sia
contraddittorio, mentre è ovvio che nell'individuo la libertà,
essendo il nesso non spontaneo ma pensato di diritto e dovere,
implica sempre quella forma di imperativo16.
E poiché la libertà è il contenuto di un imperativo, produrla e
organizzarla non sono prerogative del liberalismo, come crede
Foucault, ma della vita politica in generale. La polemica di Foucault
contro il liberalismo e il neoliberalismo anziché colpirli nel loro
punto debole, cioè nella loro volontà di funzionalizzare lo Stato
alle sole esigenze dell'oligarchia borghese, decade in una polemica
anarchica contro la politica, che lo pone in prossimità per lo meno
sentimentale con la fobia dello Stato alimentata dal neoliberalismo,
nonostante ne abbia sondato con grande lucidità l'ipocrisia. Mentre
gli sfugge la percezione della propria pericolosa vicinanza
all'avversario, al tempo stesso concepisce come inconvenienti la
sensibilità al pericolo, la pratica della sorveglianza e
l'interventismo keynesiano per ovviare alle tendenze autodistruttive
del mercato. Il non aver concepito l'essenza mediata della libertà
lo spinge a non distinguere l'interventismo in stile neoliberale, in
esclusivo favore del potere oligarchico, dall'interventismo
keynesiano finalizzato alla piena occupazione, dunque essenzialmente
antioligarchico. Se però il problema è l'interventismo in genere, e
non l'interventismo in favore dell'oligarchia, allora è impossibile
smascherare l'ipocrisia del neoliberalismo; anzi la sua esigenza
conclamata sembra acquisire una giustificazione, quella di aver
denunciato che i «meccanismi garanzia di libertà, messi in atto per
produrre un surplus di libertà, o in ogni caso per reagire alle
minacce che pesavano sulla libertà, appartenevano tutti all'ambito
dell'intervento economico, vale a dire dell'imposizione, o in ogni
caso dell'intervento coercitivo nel contesto della pratica
economica»17,
cioè nel mercato.
Foucault
manifesta un sovrano disprezzo per la dialettica; la ritiene «una
logica che mette in gioco dei termini contraddittori nell'elemento
dell'omogeneo». Ora, la dialettica non è esattamente questo,
perché la contraddizione è l'opposizione a se stesso di un
termine, e non è solo questo, perché essa è altrettanto18
sviluppo della contraddizione dall'omogeneo. Ciò che Foucault oppone
alla dialettica è però regressivo rispetto alla sua stessa
immagine: una «logica della strategia», che non dissolve i termini
in unità, ma stabilisce «le connessioni possibili tra termini
disparati, che restano tali» – una logica della diversità
(Verschiedenheit), di cui Hegel ha già mostrato
l'instabilità: il mutare nell'opposizione, che a sua volta muta
nella contraddizione. Nella sua forma canonica, ossia come metodo
speculativo, la dialettica nutre lo stesso scetticismo nei confronti
dell'universale che è proprio di Foucault: l'individuare la
contraddizione nell'omogeneo, che Foucault disconosce, è proprio il
momento della critica dell'universale. Ma essa non lo dissolve con
una decisione sovrana, così da privarsi del terreno della scienza e
da ridursi a quello della strategia. Come abbiamo detto, di contro
all'individualità reale, che ha il potere di essere anche il
contrario di se stessa, l'universale è la determinatezza che
appare come identità, che dunque non è l'identità.
Così, se è vero che l'universale non è già oltre se stesso
come lo è l'individuale, tuttavia, in quanto è identità
determinata, è l'impulso oltre se stesso.
Nell'accogliere questo impulso, nel dissolvere l'universale
mostrandone la contraddizione implicita, la dialettica lo conserva,
gli rende onore, conservandolo come differenza e ritornandovi nel
momento in cui la dissolve, ma non più come in un omogeneo, bensì
come articolazione conciliata del particolare. È l'idea di
conoscenza contro la logica della strategia in cui vero e falso
finiscono risucchiati in una notte della falsità in cui si spegne la
stessa azione politica.
1Michel
Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano
2015, edizione stabilita da F. Ewald e A. Fontana e tradotta da M.
Bertani e V. Zini.
2Cfr.
il terzo comma dell'art.
2: « L'Unione
instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile
dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla
stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato
fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al
progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di
miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il
progresso scientifico e tecnologico.»
Il corsivo è nostro.
3Una
pretesa tanto estrema quanto inconcludente. La trasformazione
dell'uomo in imprenditore
è infatti solo una variante della riduzione liberale dell'uomo
a persona, la forma parossistica della contraddizione per cui
l'homo oeconomicus è,
da una parte, titolare di diritti dipendenti da un contesto
politico, cioè dalla realtà della reciproca fiducia, e nel
contempo è indifferente o addirittura ostile alla
produzione del contesto politico da cui dipendono i diritti
goduti: vi si insedia parassitariamente e non può che provocarne la
disgregazione e la propria rovina.
4Si
è rilevato come la conoscenza della storia di cui Marx dispone sia
debole – per uno studioso straordinariamente produttivo quale Marx
è stato, la debolezza non può essere imputata alla pigrizia,
semmai alla volontà di negare la realtà della guerra.
5Cfr
il § 328 dei ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ in cui la
guerra è rappresentata in tutta la sua contraddittorietà.
6‘Aufheben
des Andernseyns’ lo definisce la logica di Hegel.
7Cfr.
p. 85 della Nascita della biopolitica, op. cit.
8P.
65 dell'opera citata.
9L'elasticità
è un termine piuttosto anodino per indicare il potere della domanda
e dell'offerta, per
celare i rapporti di forza già tipici del libero mercato:
l'impossibilità di
rinunciare a comprare la merce il cui prezzo è aumentato,
l'impossibilità di
rinunciare a vendere la merce il cui prezzo è disceso
contrassegnano l'impotenza
del consumatore e del produttore. Essi hanno potere se possono
reagire: il lavoratore ha potere se al diminuire del salario può
non andare a lavorare, ossia può sostituire il salario con un'altra
forma di reddito, il capitalista ha potere se all'aumento
del salario può non acquistare forza-lavoro, cioè può cambiare il
settore di investimento o sostituire la forza-lavoro con un altro
fattore produttivo – dove si vede subito che il venditore di
forza-lavoro è appunto determinato dalla mancanza di altra forma di
reddito. Su questo argomento cfr. Sergio Cesaratto, Sei lezioni
di economia, Imprimatur, 2016 Reggio Emilia, pp. 88 sgg., in cui
la curva dell'offerta
della forza lavoro è rappresentata, ancora troppo ottimisticamente,
da una retta verticale.
10Il
testo presenta ‘XVII’, ma è sicuramente un refuso, poiché nel
XVII secolo si verifica il contrario di ciò che la frase gli
attribuisce.
11Cfr.
p. 40 dell'opera già
citata di Foucault.
12Cfr.
la nota al § 3.
13A
p. 43 dell'opera citata.
14Più
sotto nella stessa pagina
15Poco
più sotto.
16Cfr.
p. 65. Non ha nulla di contraddittorio neanche nel significato di
«sii spontaneo»;
esso infatti equivale all'imperativo:«Non
tener conto delle convenzioni che abbiamo stabilito tra noi e dà
soddisfazione ai tuoi impulsi».
17P.
71 dell'op. cit.
18Anzi,
nel suo significato pregnante, è solo sviluppo della
differenza dall'omogeneo;
il momento dell'unirsi
dei differenti è quello speculativo.
Stavolta i miei scarsissimi mezzi culturali non ce la fanno proprio a star dietro alle, per altro interessanti, argomentazioni di Di Remigio.
RispondiEliminaLa lettura e rilettura del paragrafo 19, in particolare, mi lasciano nel buio più completo:
"[...]rendere intelligibile il reale significherebbe mostrare non che è necessario (questo non sarebbe possibile, dice Foucault, senza notare che l'impossibilità è sinonimo della necessità, che dunque sta affermando la necessità della non necessità), ma ‘semplicemente’ che è stato possibile. "
Peccato perché da quel poco che mi pare di capire il tema è estremamente importante, poiché fornisce una chiave di lettura filosoficamente solida del fenomeno di come "[il] sentimento aristocratico di sé, che pone la sinistra in un riferimento così prossimo all'ideologia liberale [...ha] infine sgombrato lo spazio di rincorsa per saltare sul carro avversario."
Mi applicherò di più...
MK
La ringrazio della sua lettura che, se ha individuato nel paragrafo 19 particolari difficoltà, è stata senz'altro già attenta e intelligente. Quanto alla frase che lei cita, mi riferivo esattamente alla regola logica per cui la negazione della possibilità (= impossibilità) è la necessità (posso esprimere la proposizione 'è necessario che 2 + 2 sia uguale a 4' con la proposizione 'è impossibile che 2 + 2 non sia uguale a 4'). Quando dice che è impossibile mostrare la necessità, Foucault dice che 'è necessario che il necessario non sia': la necessità negata nella proposizione soggettiva è affermata nella proposizione principale. Questa mancanza di riflessione sulle nozioni di possibile e necessario non è una sbadataggine casuale, ha radici profonde nel pensiero di Foucault. Egli le tiene separate, invece sono impensabili l'una senza l'altra; e questa inseparabilità si esprime nel concetto di 'condizione': la condizione è una realtà che è al tempo stesso possibilità di un'altra realtà; lo svanire della sua indipendenza così da ridursi a elemento di quest'altra realtà è appunto la necessità. Foucault crede di poter scegliere tra l'una e l'altra, ma non è così, presa l'una ha preso anche l'altra. L'effetto complessivo di questa forzatura è pesante: lo si potrebbe chiamare 'insensatezza definitiva del mondo storico'; ma questa insensatezza, se forse scatena la fantasia storiografica, sicuramente paralizza l'azione storica. Questa paralisi, mi sembra, è tutt'ora la nostra situazione.
RispondiEliminaLa ringrazio di cuore per il tempo che ha voluto dedicarmi con questo ulteriore approfondimento e per l'impegno complessivo di tutti i suoi preziosi interventi.
EliminaPer chi, come me, è sprovvisto di studi accademici sono fonte di elementi concettuali estremamente utili.
MK