(Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno scritto di Paolo Di Remigio a proposito dell'intervento di Cesaratto che abbiamo segnalato sul blog. M.B.)
L'intervento
di Cesaratto, «Il proletariato (non) ha nazione …»1,
largamente condivisibile, anzi illuminante in molti punti, nella sua
prima parte non sembra spingere abbastanza in profondità la critica
della sinistra e forse anche questo contribuisce a rendere oggi, come
scrive lo stesso Cesaratto, «maledettamente difficile» la
«prospettiva politica di cambiamento».
Un
primo eccesso di delicatezza appare rispetto alla citazione di
Gallisot: «Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà,
non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per
ciò stesso suscettibile di solidarietà». Questa proposizione
contiene un doppio, grave errore: 1. Sembra credere che la proprietà
privata sia incompatibile con la solidarietà; ma nessun proprietario
privato è soltanto proprietario privato; egli è anche membro
di una famiglia, a cui è legato dalla più forte delle solidarietà,
cioè dall'affetto; inoltre è membro di uno Stato a cui paga (in
qualche misura) le tasse e presta, se necessario, servizio militare,
e queste sono forme concrete della solidarietà con cui è prodotta
la res publica. 2. Sembra credere che l'essere priva di
proprietà renda particolarmente «suscettibile di solidarietà» la
classe operaia; invece è evidente proprio il contrario, che la
necessità di dover fronteggiare da una posizione debole la lotta per
la vita nella società civile può solo facilitare l'assunzione di
stili di vita egoistici. Gli interessi egoistici, infatti, non
terminano con la proprietà privata: l'interesse a trovare un lavoro
decente mette in competizione i proletari in modo più duro che i
borghesi. La proposizione di Gallisot è insomma del tutto
immotivata, un desiderio scambiato per realtà.
Vediamo
ora cosa risponda Cesaratto. Egli ricorda giustamente che le classi
operaie delle diverse nazioni sono in concorrenza a. in quanto
partecipano indirettamente alla concorrenza tra i diversi capitalismi
nazionali; b. in quanto sono esposti alla concorrenza dei lavoratori
immigrati; ma dimentica che il salario, il prezzo della forza lavoro,
si forma sulla base della concorrenza tra i lavoratori. Eppure nella
stessa citazione di Marx riportata qualche riga sotto si trova una
smentita indiretta del mito della solidarietà operaia: « …
per poter combattere … la classe operaia si deve organizzare nel
proprio paese, in casa propria, come classe …». Ossia,
prima la classe operaia è una pluralità di operai in
concorrenza che ha, certo, interessi comuni, ma che tuttavia
non agisce secondo questi interessi comuni, che dunque restano
in sé, potenziali, che possono unirla, ma non
la uniscono ancora; poi questa pluralità in concorrenza
rinuncia alla propria dispersione atomistica, si organizza,
cioè ogni atomo diventa membro di una unità, e questa unità
è la classe come classe, come realtà e non più solo
semplice possibilità. Il superamento della dispersione, l'unità,
non può dunque essere mai concepita come già data in natura:
è sempre una costruzione intelligente e questa costruzione è stata
storicamente il partito. La classe operaia si trova cioè
nella medesima situazione di un popolo, che, certo, ha lingua,
abitudini comuni, ma nel contempo ha interessi differenti che creano
concorrenza, conflitto. Presupporre una solidarietà operaia e
una conflittualità statale, attendersi da quella il
superamento di questa, è uno dei pregiudizi inspiegabili in termini
razionali, che paralizzano tutta l'attuale sinistra e rendono
maledettamente difficili le prospettive politiche di cambiamento.
Un
secondo eccesso di delicatezza nell'intervento di Cesaratto appare
nel riferimento a Gellner. Secondo costui: « … l’emergere delle
entità nazionali (è stato) funzionale allo sviluppo capitalistico».
In effetti, però, il capitalismo non ha creato gli Stati nazionali,
li ha trovati, e solo con estrema lentezza li ha piegati alle
sue esigenze, peraltro non univoche ma contrastanti. Lo Stato
nazionale e lo Stato moderno in generale vengono alla luce nel basso
medioevo, per opera delle monarchie europee, cui la
nobiltà feudale, costrettavi dalle insubordinazioni contadine,
consente di esercitare un potere che prende progressivamente
carattere pubblico. Questa storia autonoma dello Stato
nazionale è trascurata dalla filosofia della storia marxista nella
misura in cui, come vede bene Cesaratto, essa lo concepisce come
falsa coscienza, evidentemente sulla fragile base della presunta
naturalezza della solidarietà operaia. Occorre l'antistatalismo di
von Hayek per riportare qualche marxista a una visione più
equilibrata dello Stato. Anche qui però non si verifica una
discussione sui presupposti. La prospettiva statale è fatta propria,
controvoglia, dal marxista Davidson, in contrasto con la prospettiva
delle entità sovranazionali che von Hayek auspica in odio alle
politiche statali redistributive. Questa riappropriazione trascura
però che le entità sovranazionali non sono nulla di nuovo sotto il
sole, e hanno un nome preciso. Le entità politiche in generale sono
di due specie: gli Stati, in cui virtualmente tutti godono gli
stessi diritti, qualunque ne sia l'estensione; gli imperi, in cui una
etnia gode di più diritti a spese delle altre. La UE non è
un'entità sovranazionale hayekiana, è il nome dell'imperialismo
regionale della Germania, che opera entro l'imperialismo globale
statunitense. Lo svuotamento dei poteri dello Stato all'interno
dell'entità sovranazionale di cui parla Hayek, tale da privare gli
Stati di capacità redistributive, vale dunque non in generale, ma
soltanto per le etnie assoggettate: gli operai tedeschi nella
UE non vivono i drammi della disoccupazione e della povertà propri
degli operai delle «entità» colonizzate – insieme alle merci la
Germania ha esportato anche la disoccupazione. Proprio questo rende
una stupida velleità ogni discorso sulla classe operaia europea,
ogni speranza su una solidarietà cosmopolita o internazionalista tra
colonizzatori e colonizzati. Così la lotta contro l'entità
sovranazionale hayekiana non è che lotta contro l'imperialismo, e
come tutte le lotte anti-imperialiste va condotta in nome dello
Stato-nazione. Senza troppe riserve mentali.
1
Cfr.
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2016/08/il-proletariato-non-ha-nazione.html#more
Comunque sia, a livello nazionale italiano ,non vedo ancora personalità del calibro intellettuale e morale di Rosa Luxemburg in grado di dettare le linee di azione al movimento operaio italiano, ai disoccupati , ai precari, ai giovani, ai piccoli imprenditori strozzari dalle banche ;ma vedo soltanto tante parole e tanto opportunismo, quindi da qui non si esce almeno per i prossimi 20 anni.
RispondiEliminaE nel lungo periodo, in attesa che gli intellettuali italiani (quali?)si sveglino, saremo tutti morti , marxisti al caviale compresi