Forse
il rifiuto di fare i compiti per le vacanze voleva essere un ultimo
gesto contro l'autorità della scuola1
– in ogni caso è sprofondato nelle sabbie mobili di una
imperturbata tolleranza: la scuola non ha reagito punitivamente;
configurata infatti secondo il modello dell'ospizio, come potrebbe
scomporsi se un suo cliente non segue delle prescrizioni dettate più
dall'abitudine che dalla convinzione? Rifiutarle, anziché essere un
atto di coraggiosa rottura, somiglia piuttosto all'accanimento contro
un corpo senza vita; e solo per questo trova un'eco nella stampa
italiana. Essa infatti sopravvive offrendo ai suoi lettori, anziché
informazioni, soddisfazioni occulte dei loro desideri2
e alimentando il sentimento di sé dell'ignoranza; il dilettantismo,
l'incapacità di argomentare, l'incolta soggettività che si riduce
ad avere se stessa come unico oggetto, possono acquisire nei suoi
articoli un'aria di importanza.
Al
padre che non ha fatto fare i compiti estivi al figlio perché lo ha
impegnato in tante bellissime attività, si poteva obiettare che lo
svolgimento di quei compiti non precludeva quello delle bellissime
attività, che le lunghe giornate estive offrono tempo per quelli e
per queste, che in generale durante le vacanze non solo ci si diverte
e riposa, ma ci si lava, si pulisce casa, si cucina come quando si
lavora – che insomma il rifiuto è del tutto pretestuoso dal punto
di vista pratico. Dietro l'inconsistenza pratica del rifiuto sarebbe
allora apparsa una sublime quaestio juris, il principio per
cui gli insegnanti devono insegnare ciò che hanno da insegnare nei
limiti del tempo-scuola loro concesso, e non devono esorbitare sui
pomeriggi e sui giorni di vacanze. In questa prospettiva il lavoro
domestico degli alunni appare una corvée imposta dal mancato
lavoro scolastico di insegnanti infingardi – un capitolo nel lungo
romanzo della corruzione e delle inadempienze dei lavoratori
pubblici. È per questo che nel rifiuto dei compiti a casa si avverte
un certo tono da denuncia al tribunale amministrativo o almeno quello
della rivendicazione sindacale. Toni del tutto fuori luogo: quanto
alla rivendicazione sindacale, forse non è superfluo ricordare che
essa è legittima per i produttori di ricchezza, per i lavoratori,
che gli studenti, benché ugualmente lavoratori, non producono
tuttavia ricchezza, che, anzi, la scuola costa alla famiglia e
alla collettività, che dunque ogni consegna scolastica non ha nulla
a che fare con l'estorsione di lavoro non pagato; quanto alla
denuncia del presunto illecito, essa si basa sulla grossolana
ignoranza dei fatti elementari della didattica. Innanzitutto,
la richiesta di limitare il lavoro scolastico a scuola
presuppone la convinzione discutibilissima che questo lavoro non
offra strumenti di applicabilità universale, in grado di
rendere l'individuo adeguato ai problemi di ogni ambito
vitale, che cioè le cose imparate a scuola per principio
servano solo a scuola e a null'altro. Se fosse così, allora sarebbe
meglio abolire del tutto l'obbligo scolastico – certi ambienti
neoliberali non si augurano di meglio. In secondo luogo, il rifiuto
di lavorare a casa implica la convinzione che il lavoro senza la
presenza dell'insegnante possa e debba essere
sostituito dal lavoro con la presenza dell'insegnante. Mentre la
prima convinzione equivale al rozzo pregiudizio dell'inutilità del
pensiero teorico, la seconda convinzione nasce dai profondi equivoci
che dominano la didattica da quando vi è stato importato il modello
anglosassone – quello che in ottemperanza all'anarco-liberalismo fa
dell'alunno un cliente.
Non
è questo il luogo di confutare il rifiuto della teoresi – lo ha
già fatto la storia del mondo. Può essere invece utile ricordare
che dalla frequenza della scuola l'alunno deve trarre competenze
– deve saper parlare, scrivere, capire e risolvere problemi in
generale – e che l'insegnante può dare molto ma, disgraziatamente,
non le competenze, perché queste non possono essere trasmesse
magicamente, ma ognuno se le forma a partire dal proprio lavoro
privato e nella misura estensiva (quanto tempo) e intensiva (con
quanta accuratezza) in cui lo svolge. Compito della scuola è 1.
scegliere, ordinare e illustrare i contenuti scientifici, 2.
prescrivere, correggere e valutare le esercitazioni. Si vede subito
che l'insegnante è protagonista del primo punto, che lo studente lo
è del secondo. Lo svolgimento puntuale del primo, per quanto
stimolante e creativo sia stato, equivale a «scrivere sull'acqua»,
come scrive Hegel nel brano proposto più sotto, se non gli si
accompagna lo svolgimento altrettanto puntuale del secondo, che è
compito individuale, solitario, dell'alunno. L'insegnante non
può imparare al posto dell'alunno, né lo può fare un alunno al
posto dell'altro, come accade di solito nei lavori di gruppo; può
stimolarlo con la sua scienza e creatività, può obbligarlo con la
minaccia delle valutazioni negative – in ogni caso l'alunno diventa
competente con il proprio lavoro, esercitandosi.
Il
frammento seguente, tratto dal discorso che Hegel in qualità di
rettore tenne il 14 settembre 1810 al Ginnasio di Norimberga,
contribuirà a sollevare il velo che la pigrizia torna eternamente a
stendere sugli elementi di ogni azione didattica.
«Affinché
per gli studenti la lezione impartita a scuola diventi fruttuosa,
affinché per suo tramite facciano effettivi progressi, la loro
diligenza privata è necessaria quanto la stessa lezione …
Nulla è più essenziale che perseguire con ogni severità e
sottomettere a un regolamento inesorabile il vizio della negligenza,
del ritardo o dell'omissione dei lavori, così che la consegna
puntuale del compito diventi qualcosa di immancabile come il sorgere
del sole. Questi lavori sono importanti non solo perché quanto
appreso a scuola si imprima più saldamente con la ripetizione, ma
soprattutto perché la gioventù sia condotta, oltre il nudo
recepire, all'occupazione attiva, al proprio sforzo. Infatti
l'apprendere come nudo recepire e memorizzare è un aspetto molto
incompleto dell'istruzione. Viceversa, la tendenza dei giovani a
ritrarsi nel proprio punto di vista e a disprezzare l'oggetto è
altrettanto unilaterale e va tenuta con cura lontana da essi. Per
tutti i primi quattro anni di apprendimento gli allievi di Pitagora
dovevano tacere, cioè non avere o manifestare proprie idee e
pensieri; infatti il fine principale dell'educazione è che siano
estirpati pareri, pensieri e riflessioni che la gioventù può avere
e fare, e il modo in cui può farseli da sé; come la volontà, anche
il pensiero deve iniziare dall'obbedienza. Se però l'imparare si
limitasse a un nudo recepire, l'effetto non sarebbe molto migliore
dello scrivere frasi sull'acqua; infatti non il riceverla, ma
soltanto l'attività dell'afferrarla e la facoltà di riutilizzarla
fanno di una nozione una nostra proprietà. Se invece la tendenza va
soprattutto all'affermare la propria superiorità sull'oggetto, nel
pensiero non arrivano mai disciplina ed ordine, nella conoscenza non
arrivano nesso e coerenza. È dunque necessario che al ricevere sia
aggiunto il proprio sforzo, non come un creare inventivo, ma come
applicazione dell'appreso, come tentativo di cavarsela per suo
tramite con altri casi singoli, con altro materiale concreto. La
natura di ciò che si insegana negli istituti scolastici, a partire
dalle prime determinazioni grammaticali, non è una serie di fenomeni
sensibili, isolati, ciascuno dei quali valga solo per sé e sia
soltanto oggetto dell'intuire e del rappresentare o della memoria, ma
è in primo luogo una serie di regole, di determinazioni universali,
di pensieri e leggi. In questi la gioventù acquisisce subito
qualcosa che essa può applicare e un materiale a cui può applicarlo
– strumenti e armi per cimentarsi con il singolo, una capacità di
venirne a capo. – La natura del materiale e la modalità di
istruzione, che non è inculcare una collezione di casi singoli, una
folla di parole e locuzioni, ma è un procedere interattivo tra
singolo e universale, conferisce all'apprendere … il carattere
dello studio …»3.
1
Per i primi gesti cfr. l'interessante
intervista rilasciata da Luigi Bobbio e contenuta al minuto 21:20
del seguente filmato
http://www.raistoria.rai.it/articoli/litalia-della-repubblica-studenti-e-operai-in-lotta/33654/default.aspx
2 «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». (Romani 8,26)
3
Il testo che abbiamo tradotto è contenuto in Hegel,
Nürnberger und Heidelberger Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt
am Main, 1970, pp. 331-333.
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