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domenica 3 luglio 2016

Miseria dell'europeismo (P.Di Remigio)

(Riceviamo da Paolo Di Remigio e volentieri pubblichiamo questo testo, già apparso su "Appello al popolo" M.B.)




MISERIA DELL'EUROPEISMO


Mentre l'estremismo islamico dispone i suoi adepti a sfidare la morte, gli eroi del sogno europeo sfidano in questi giorni non solo la realtà, ma perfino il ridicolo. L'europeismo è la più giovane delle ideologie. Come tutte le ideologie, esso è un modo per santificare con l'aureola dell'universalità interessi particolari. Ideologia è infatti una visione che non sa staccarsi dallo spirito fazioso, che afferma come bene un'esigenza opposta a un'altra esigenza da annullare come male. Questo bene affermato dall'ideologia è così la contraddizione di essere tutta la vera realtà e di non esserlo, ma di avere il residuo del male al di là di sé, di essere assoluto e di essere relativo. L'ideologia risolve questa contraddizione evitando di conoscere l'esigenza che smentisce la sua universalità e attribuendole a priori le idee contrarie alle proprie. Le sfugge così la risposta razionale alla contraddizione, che il bene va concepito non come innocenza prima della caduta, ma come virtù che conosce il male e la nullità del male; e le resta preclusa la filosofia, il pensiero fedele al logos eracliteo, che organizza il quadro in cui gli opposti armonizzano in una compatibilità sensata, la cui universalità non è omogeneità, ma sistema.


L'ideologia si presta a diventare un'arma nel contrasto sociale perché nega il diritto del differente. Il socialismo nega il diritto del talento particolare, il liberalismo nega il diritto dell'uguaglianza; entrambi sfuggono al compito di organizzare la compatibilità dell'uguaglianza con il talento, di far confluire l'égalité e la liberté nella fraternité. Rispetto al socialismo e al liberalismo, che hanno qualcosa di sublime in quanto l'esigenza che fanno valere con troppa esclusività è comunque elemento necessario di ogni società, l'europeismo si presenta subito come un misero aborto; gli manca infatti quella minima coerenza, vanto di ogni ideologia, con cui può acquisire la maschera della razionalità: esso si presenta da subito come la contraddizione di negare le frontiere spacciandole per un rudimento arcaico e di affermarle contro Stati sentiti come pericolosi rivali (la Cina, l'India ecc.), di essere cioè cosmopolita quando ha in mente le nazioni europee, di dimenticare il cosmopolitismo e abbracciare il nazionalismo quando ha in mente Stati extra-europei. Prima ancora che un'ideologia l'europeismo è uno stato di ebbrezza.


Essendo però ideologia, il sogno europeo deve opporsi a un male, deve negare il diritto di una realtà all'esistenza: l'europeismo nega il diritto dello Stato sovrano. In questo negare conserva il sentimento di essere nel bene e di rimanere nell'universalità, perché crede di negare non una realtà prima, un bene, ma soltanto un male, una negazione. Gli Stati sono infatti totalità esclusive; come totalità essi sono negativi in quanto restringono l'arbitrio degli individui – in questa critica l'europeismo è identico al liberalismo –, come esclusivi gli Stati sono negativi in quanto sono conflittuali – qui inclina al pacifismo. Così però l'europeismo fa propri gli errori del liberalismo e del pacifismo. Come il liberalismo, trascura che l'individuo presuppone la protezione della personalità e della proprietà, che la protezione implica obbedienza nei confronti di chi protegge, che dunque la libertà in senso pregnante, anziché arbitrio nell'ambito privato, è propriamente una forma di obbedienza, l'obbedienza dell'individuo alle leggi dello Stato in quanto le riconosce giuste. Quando poi gli imputa la guerra, l'europeismo commette lo stesso errore del pacifismo: non solo dimentica che la guerra è una delle forme della violenza, soppressa la quale resta la violenza in generale che può contenere forme ancora più orribili, ma soprattutto nega alla guerra ogni valore morale uguagliando scioccamente il soldato all'assassino, cioè presuppone la guerra come il male assoluto, dimenticando che ogni collettività può garantirsi la libertà e garantirla agli individui, solo se è capace di difenderli, e che più orribile della guerra è l'asservimento; il rifiuto della guerra spinto fino al pacifismo fanatico che nega allo schiavo il diritto alla ribellione è disprezzo della dignità dell'uomo non meno del culto della violenza: se questo riduce l'uomo alla sua pura biologia, il pacifista, con una riduzione simile, subordina la libertà alla nuda vita.


Lo Stato afferma la sua sovranità, cioè la sua libertà e quella dei cittadini che ne deriva, elevando muri e difendendoli; dunque limita il diritto di entrare nel suo territorio e di uscirne. L'universalismo europeista desidera il bene e lo concepisce come estensione dei diritti; dunque esige l'abbattimento dei muri. Poiché desidera il bene, ma non lo pensa, all'europeismo sfugge che ogni diritto è un effetto dello Stato sovrano e svanisce con l'indebolirsi del potere statale, che, in altri termini, la libertà dell'individuo è annullata non soltanto dallo Stato tirannico, ma in modo ancora più profondo dal venir meno dello Stato; infatti un diritto non è una beneficenza privata, ma è reale solo se può essere posto il corrispondente dovere, se dunque è effettiva la legalità. Così, estendere diritti è sempre anche estensione dei doveri: l'attuazione del diritto all'immigrazione, l'attuazione del diritto del capitale a spostarsi ovunque implicano per i lavoratori il dovere di accettare nuovi concorrenti, quindi di rassegnarsi a redditi più esigui, a tempi di disoccupazione più lunghi, ad aumenti dell'imposizione fiscale per allargare l'assistenza pubblica o, peggio, al degrado delle sue prestazioni, in definitiva possono comportare la disgregazione della vita sociale. È impensabile dunque che un'estensione dei diritti possa verificarsi tramite l'indebolimento della sovranità senza provocare effetti dirompenti.


Una vecchia abitudine contratta nel loro lungo passato cattolico e ormai inconsapevole spinge i popoli dell'Europa meridionale a disprezzare la realtà etica e ad anelare al suo altro, a lasciarsi privare del bene ingannati dalla prospettiva del meglio. L'europeismo ha saputo sfruttare questa antica debolezza, così da suscitare sogni e illusione nei progressisti e nei rivoluzionari, ancor più che nei conservatori di cui serve gli interessi immediati: gli è bastato sguazzare in un vuoto sentimentalismo parolaio che ha l'impudenza di fare appello alla gioventù proprio mentre ne tradisce le prospettive e la rimanda all'elemosina dei vecchi. Ne segue il paradosso che l'europeismo è più forte proprio dove provoca più danni. Se però la sua forza poggia ormai soprattutto sull'ingenuità, allora si può sperare che si avvicini il momento del disinganno.

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