(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Paolo Di Remigio. M.B.)
In
Italia parlare di Marx non ha un interesse solo teorico: se una presa
di distanza da Marx è stato il modo in cui la sinistra di
governo è passata
dalla parte del suo nemico, una rilettura critica è necessaria oggi
per intraprendere il percorso contrario; chi riconosce che il
capitalismo e il liberismo (inteso come sua ideologia) sono nemici
della razionalità e dell'umanità, responsabili di guerre mondiali e
del libero scambio che soffoca le prospettive dei popoli poveri e
minaccia la civiltà occidentale, non può non chiedersi come mai in
Italia, dove c'era il più forte partito comunista occidentale, la
grandiosa offensiva di classe lanciata dalla finanza e dal monopolio
internazionale si sia verificata senza
resistenza dei partiti e degli intellettuali che si richiamano o si
sono richiamati a Marx, anzi con la loro collaborazione a volte
rassegnata
ma spesso entusiasta.
Che l'uomo-simbolo di quanto è avvenuto in Italia negli ultimi venti
anni sia Giorgio Napolitano, storico dirigente comunista e poi, senza
perplessità e tentennamenti, eroe europeista della doppia Presidenza
della Repubblica, suggerisce una prima risposta: chi ha spacciato lo
stalinismo o il maoismo come fasi storiche superiori al capitalismo
può mettersi al servizio di qualsiasi causa; chi non ha voluto
vedere le immani tragedie nella rivoluzione russa e in quella cinese
affidandosi alle versioni di comodo dei capi-partito ha fatto della
cecità uno stile di vita e dell'affidarsi alla propaganda, anziché
allo studio, una presa di posizione politica. Così, se i Francesi
organizzano una risposta contro le politiche europeiste di deflazione
salariale, in Italia non si capisce ancora che dei poteri stranieri
usano la recessione per imporre le riforme strutturali e usano le
riforme strutturali per imporre la recessione, così che le si
accetta con la stolta speranza della ripresa economica. La nausea per
questo spettacolo di solidarietà tra von Hayek e Marx deve spingere
a un cambiamento di prospettiva: la sinistra ha abbandonato la
razionalità e si è fatta reclutare dall'ordoliberismo perché
ignara del lato scientifico di Marx ed erede del suo lato ideologico.
Ne segue la necessità di individuare in Marx l'elemento ideologico,
cioè irrazionale, antifilosofico, per cui comunica con il
positivismo e con il liberismo, e di separare e valorizzare il suo
contributo razionale.
Il
contributo razionale offerto da Marx alla comprensione del
capitalismo non
è la teoria del valore. Si crede ancora a un'incompatibilità tra
teoria economica marxiana che poggia sul valore e teoria economica
neo-classica che poggia sui prezzi; si è addirittura discusso a
lungo sulla difficoltà della sua teoria di trasformare i valori in
prezzi. Senza motivo. Infatti non solo il valore è la media a cui
tendono i prezzi, ma soprattutto, per
Marx come
per i neo-classici,
esso non è determinabile a partire dalla sola offerta, dal solo lato
della produzione: il valore non è tempo di lavoro del singolo
produttore, ma tempo di lavoro socialmente
necessario, ossia
quale è determinato dallo scambio, cioè dall'incontro tra offerta e
domanda.
Il contributo di Marx alla comprensione del capitalismo non è
neanche la teoria del plusvalore, perché da un lato essa prevede che
nel caso normale il salario paghi l'intero valore della forza lavoro,
che non dipende solo dal tempo, ma anche dal grado di istruzione e di
specializzazione, né, dall'altro, può negare che il capitale,
privato ma anche socializzato, sia una componente essenziale del
processo economico, dunque debba essere remunerato e possa esserlo
solo con il plusvalore. Il contributo scientifico di Marx è di avere
scoperto la legge
generale dell'accumulazione capitalistica:
la necessità per il capitalismo di assicurarsi l'esistenza
dell'«esercito industriale di riserva»1;
ossia, per Marx l'essenza classista del capitalismo non è la
distruzione creatrice o la divisione del lavoro o il profitto, è
l'esigenza che la quantità di forza-lavoro domandata dal capitale
sia sempre inferiore alla quantità di forza-lavoro offerta, cosicché
il capitalismo non
è una pura economia di mercato, come pretendono gli economisti
classici e neo-classici, ma un'economia di
mercato squilibrato,
dunque un'economia squilibrata, la cui dinamica normale è
precipitarsi dai boom
alle depressioni e viceversa; esso, infatti, ricorre 1.
all'innovazione tecnica, 2. all'importazione di manodopera, 3.
all'esportazione di capitali (gli investimenti diretti all'estero)
soltanto
per provocare l'eccesso di offerta di forza-lavoro così da
deprimerne la retribuzione sotto
il suo valore. Per quanto sia alla base della nostra civiltà e
costituisca la premessa per la vittoria dell'uomo sulla fame, dal
punto di vista capitalistico l'industrializzazione ha l'unico scopo
di creare disoccupazione e ridurre i salari sotto
il valore della forza-lavoro. Così, come ricorda Massimo Bontempelli
nei suoi indimenticabili manuali, l'introduzione delle prime
filatrici meccaniche fu causata dalla scarsità dell'offerta di
lavoro nel domestic
system; «le macchine
per fabbricare altre macchine vengono introdotte soprattutto per
stroncare le rivendicazioni dello strato operaio più competente che
è stato fino ad allora indispensabile per la fabbricazione e la
riparazione dei pezzi del macchinario industriale»2.
Solo per eterogenesi dei fini l'industrializzazione capitalistica è
più di uno strumento di sfruttamento dei lavoratori, e cioè il
dominio sulle forze naturali – un dominio quanto mai problematico
proprio a causa della sua origine ignobile. A differenza
dell'industrializzazione, la mobilità del lavoro e la mobilità del
capitale, le panacee dell'ideologia del libero scambio, sono soltanto
strumenti del potere di classe. La costante svalutazione salariale
per eccesso di offerta di lavoro provoca non solo la
sovrapproduzione, dunque la finanziarizzazione economica e la crisi;
essa è svalutazione dell'uomo in generale e spiega, anche meglio del
carattere feticistico della merce, il carattere antiumano del
capitalismo e delle sue ideologie, del liberalismo e del positivismo.
Se
tutto questo è esatto, allora l'essenza della lotta al capitalismo è
il perseguimento sistematico della piena occupazione, qual è
espresso dall'articolo 4 della nostra Costituzione, una di quelle che
irritano J. P. Morgan.
Rassegnandosi ai tre mezzi con cui il capitale si assicura il dominio
sul lavoro – lo sviluppo
tecnologico, le
migrazioni,
la globalizzazione
– o addirittura entusiasmandosene, la sinistra da un lato rinuncia
alla conquista scientifica e al progetto di liberazione di Marx,
d'altro lato, continuando ad essere fedele al materialismo storico
che la contamina con un lugubre evoluzionismo liberale e positivista,
non sa fare a meno del suo lato ideologico.
A
differenza di quanto lo stesso Marx crede, il materialismo storico
non è un rovesciamento della filosofia della storia di Hegel, a cui
è in realtà del tutto estraneo, ma ha i suoi presupposti in
Saint-Simon ed è una variante delle ideologie positiviste
dell'evoluzione. Alcuni esponenti del marxismo, in Italia in
particolare Labriola e Gramsci, hanno reagito all'assimilazione
progressiva tra il materialismo storico e il positivismo, ma senza
gli strumenti intellettuali in grado di emancipare il loro tentativo
dall'impostazione positivista, quindi senza successo. Per uscire dal
quadro del positivismo era del tutto inutile l'allentamento del
determinismo economico; questo allentamento, mentre rischia di
togliere mordente all'indagine storica, neanche si avvicina al punto
saliente, alla visione del valore etico dello Stato e del
patriottismo. Per emanciparsi dal positivismo occorreva invece fare
il salto mortale nella filosofia classica tedesca da Kant a Hegel.
Solo così sarebbe stato possibile distinguere evoluzione
da progresso:
mentre questo è essenzialmente quantitativo
e caratterizza la storia, che si può dunque definire come
accrescersi di una eredità, l'evoluzione
è un modificarsi di forme tale per cui le successive cancellano le
precedenti.
Chiamo
positivismo
il naturalismo
evoluzionistico moderno,
l'ideologia per cui la storia dell'uomo è un episodio dell'evolversi
naturale, essa stessa scandita da un'evoluzione necessaria, nel corso
della quale l'uomo conosce le leggi della natura (scienza),
la piega al servizio dei suoi bisogni (tecnica),
così da non dover più ricorrere alla violenza e da poter essere
felice.
In questa definizione rientrano non solo Saint-Simon, Comte, Mill,
Spencer (anche Nietzsche, sebbene come suo critico disperato),
rientra anche il materialismo storico. Nella prefazione del gennaio
1859 a Per la critica
dell'economia politica
Marx afferma di considerare i rapporti giuridici e le forme
politiche, dunque il lato autocosciente della storia, come risultanti
dalle forme della società civile e queste come risultanti dai modi
di produzione, le cui leggi restano non solo insondabili,
ma anche intangibili
dagli uomini, fino a che esse stesse non promuovano, «con
l'ineluttabilità di un processo naturale»3,
il proprio superamento. Non costituisce differenza dal positivismo
evoluzionistico né che Marx consideri la sequenza dei modi di
produzione preistoria dell'umanità, anzi, semmai proprio questo
vedere soltanto natura nella storia è un indice di un atteggiamento
esasperatamente positivistico, – né che consideri indispensabile
la rottura rivoluzionaria per il superamento dell'ultima società
antagonistica, anzi la necessità della violenza per l'affermazione
della società libera ribadisce il carattere naturale, non razionale
di questa libertà.
Essendo
essenzialmente positivista, il materialismo storico non
è, come afferma Engels, erede della filosofia classica tedesca.
Questa si colloca su un terreno toto
coelo differente dal
positivismo, sulla kantiana Fondazione
della metafisica dei costumi.
Per Kant, come per tutta la filosofia classica tedesca, l'uomo è
anche
momento della natura in quanto le leggi naturali gli si impongono
tramite i sentimenti di piacere e di dispiacere; ma
non è solo momento della natura.
Su questo punto Kant e la filosofia classica tedesca non
sono assimilabili al positivismo. Per Kant e per Hegel l'uomo supera
la subordinazione al piacere e al dispiacere, quindi alle leggi
naturali, una prima
volta in quanto vuole non semplicemente il piacere, ma la felicità,
dunque deve temperare questo con quel piacere, negare la loro
onnipotenza e rendersi relativamente
libero, cioè relativamente necessitato. Il positivismo (con
l'utilitarismo e il pragmatismo) giunge a questa prima e imperfetta
forma di libertà, ma non va oltre, dunque non va oltre il
naturalismo. Kant e Hegel (eredi della grande filosofia politica del
‘600 e del ‘700) vanno oltre: più profonda dell'esigenza di
felicità
è nell'uomo l'esigenza di dignità.
La dignità dell'uomo, il suo valore di persona e non cosa, consiste
semplicemente
nel fatto che egli, oltre a conoscere
le leggi di natura cui obbedisce e a usarle
a suo vantaggio, cioè per la sua felicità, è legislatore,
crea
le leggi cui obbedisce: agire secondo massime in quanto sono
suscettibili di diventare leggi universali significa superare la
natura e creare
un regno dei fini. Mentre questo regno della libertà per Kant è un
semplice dover-essere,
per Hegel è un dover-essere
che è, cioè lo
Stato: qui, non nella dignità dell'uomo in quanto legislatore, è la
differenza tra le loro etiche. In altri termini, la filosofia
classica ha riconosciuto il carattere artificiale
(non natura, ma natura seconda
– dice Hegel) della società umana e la dignità dell'uomo nella
sua capacità di vivere in base alla legalità del suo
artefatto, cioè alla sua
legalità: la dignità umana nasce da un forzare (consapevole o
inconsapevole) la propria naturalità; poiché la natura è il
negativo in sé (l'ambito della casualità e della necessità, per
dirla con Monod, l'ambito della paura, come dice Nietzsche nei suoi
momenti migliori), negare la natura, creare la seconda natura, il
regno dei fini, lo Stato, ha il carattere positivo della libertà.
Questa è la prospettiva della filosofia classica e di Hegel, e
finché lo si vorrà leggere a partire da prospettive successive,
positivistiche, si rinuncerà a capirlo e a capire la filosofia
classica.
L'osservazione
che i marxisti, Gramsci in particolare, hanno riconosciuto
l'importanza dello Stato, sottostà a un equivoco: essi hanno sempre
riconosciuto questa importanza, ma in un'ottica positivistica, cioè
storicistica; per loro lo Stato non ha nulla a che fare con il valore
della libertà (che lo Stato sia la realtà della libertà è per lo
stesso Marx pura mistificazione), si tratta soltanto di stabilirne
l'efficacia
nella causalità storico-empirica. Per esempio nella lettera a Bloch
Engels scrive: «La situazione economica è la base, ma i diversi
momenti della sovrastruttura … esercitano altresì la loro
influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne
determinano in modo preponderante la forma»4.
Per tutti i marxisti è scontato che la legislatività universale
dello Stato sia una semplice finzione, che esso sia soltanto
uno strumento di costrizione di cui dispongono interessi particolari,
i feudatari se lo Stato è feudale, i capitalisti se lo Stato è
capitalista, i proletari se lo Stato è diventato dittatura del
proletariato. Per esempio, nella stessa lettera Engels determina i
momenti della sovrastruttura come «forme politiche della lotta di
classe ed i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla
classe vittoriosa dopo la battaglia vinta ecc.»5:
in altri termini, lo Stato non è espressione della legislatività
dell'uomo sui diritti e sui doveri, dunque della sua dignità, è per
sua essenza esercizio
di violenza, quindi espressione della sua naturalità anti-sociale.
In coerenza con ciò, la libertà dell'uomo (il socialismo e il
comunismo) è pensata non in termini di diritti e doveri consapevoli,
ma in termini di abitudine.
Lenin è molto chiaro in proposito: nello società comunista «gli
uomini si abituano
a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza
sociale … senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione,
senza
quello speciale
apparato di
costrizione che si chiama Stato».
Nel
negare allo Stato ogni valore etico il materialismo storico concorda
con il liberalismo e con il cattolicesimo. Questo contribuisce a
spiegare come sia accaduto che in Italia la devastazione liberista
non abbia avuto nessuna
opposizione: non dai cattolici per i quali la civitas
hominis è priva di
valore in sé, semplice strumento utile ai loro fini; non dai
marxisti, per i quali è lo strumento del vincitore; non dai liberali
per i quali è solo tasse e corruzione. Così, mentre in Germania si
sottopone la legislazione europea alla Costituzione, in Italia si fa
il contrario: si sottopone la Costituzione alla legislazione europea.
E il sillogismo è facile da chiudere.
1
Cfr. il cap. XXIV del Capitale.
2
Bontempelli, Bruni, Storia
e coscienza storica,
vol. III, Milano 1983, p. 14.
3
Marx, Il capitale,
Libro I, Roma 19809,
p. 826.
4
Lettera a J. Bloch del 21. IX. 1890; in Marx – Engels, Opere,
vol. XLVIII, Roma 1983, p. 294.
5
Ibidem.
l'articolo è interessante e complesso ,ma sono convinto che le ragioni che hanno spinto la sinistra italiana verso il neo liberismo e l'europeismo siano di bassa lega , e sostanzialmente dovute a esigenze di carriera , di interesse personale , di opportunismo , di autoconservazione dell'elite comunista; ricordo che Lucrezia Reichlin per essendo figlia di due dirigenti che si sono sempre battuti per le cause dei lavoratori( a Parole) sta dall'altra parte e una ragione pur ci sarà; quindi ben vengano le analisi storiche ma non perdiamo il senso della misura per giustificare un fatto che è più banale e confomista di quanto sembri; siceramente dalle mie parti, in Veneto, in passato si diceva " compagno lavora ti che mi magno" con il quale si alludeva ai dirigenti di partito ; esso in fondo, nella sua pochezza, svelava saggiamente la realtà che ora è sotto gli occhi di tutti
RispondiEliminaL'interesse personale non può essere espunto da nessuna azione di nessun vivente, compreso l'uomo; farne un principio di spiegazione non è mai sbagliato, dunque, ma appunto per questo non è mai risolutivo. Più interessante, mi sembra, è mostrare la misura in cui un interesse che si pretende universale sia veramente tale; infatti l'interesse universale non è sempre santificante, anzi può essere universale solo in apparenza, può essere espressione di un risentimento o di un autolesionismo inconsapevole, così da risultare anche più distruttivo dell'interesse particolare. Il sen. Monti, ad esempio, si lamenta perché i politici attuali danno ascolto agli interessi particolari dei loro popoli, e non li EDUCANO perché si sacrifichino agli interessi universali dell'Europa; se dietro queste espressioni ci sia una convinzione o un interesse o la pulsione di morte o la pulsione erotica, è un problema che riguarda il suo psicologo; l'esame critico degli interessi universali dell'Europa è invece un compito che riguarda tutti.
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