(Riceviamo questo scritto da Paolo Di Remigio, e lo pubblichiamo volentieri. E' apparso anche su "Appello al popolo". M.B.)
Le
barriere sono un sinonimo di divisione e la divisione lo è del male.
Forse per questo, abolire i confini tra le nazioni è diventato un
obiettivo per amore del quale si dimenticano i confini tra le
ideologie: contro i governi che li ripristinano a dispetto della
Commissione Europea e dei poteri retrostanti si mobilitano ormai non
solo questi poteri e le loro legioni di giornalisti, ma anche le
potenze celesti e le impotenze terrene, il papa e i centri
sociali. Nella
posizione della chiesa cattolica non solo si indovina il legittimo
desiderio di evitare atteggiamenti interpretabili come ostili dal
mondo islamico, si avverte anche la sopravvalutazione della potenza
dell’amore nel risolvere i problemi degli uomini; dietro la
posizione dei centri sociali c’è non solo una psicologia maschile
primitiva che accorda la preferenza al caos pur di rifiutare l’ordine
paterno, ma anche l’incapacità intellettuale di difendersi dai
pregiudizi. E il pregiudizio universalmente diffuso, contro cui solo
la cultura umanistica potrebbe qualcosa, è l’idea positivistica di
progresso storico. È sufficiente che la propaganda dei poteri
finanziari qualifichi un loro piano come «nuovo» perché scatti il
riflesso condizionato dell’evoluzionismo storico, questa versione
moderna del fatalismo per cui in ogni caso è vano opporsi a ciò che
«la storia» ha decretato; e «la storia», nel suo progresso verso
il meglio, mostra di voler spianare le barriere e dissolvere i
confini, perché l’umanità dispersa dal fallimento babelico torni
a riunirsi.
Se
si guarda il contesto storico in cui cade questo progetto di
ecumenismo laico non è difficile accorgersi della sua natura del
tutto illusoria: gli unici confini da cancellare sul globo terrestre
risultano essere quelli tra gli Stati europei, perché confluiscano
negli Stati Uniti d’Europa. Della natura di questi nuovi Stati
Uniti si presenta però una doppia interpretazione: se la loro unione
arrivasse alla fusione in un unico Stato, essi, nati per abolire le
frontiere, ne formerebbero delle nuove, il sogno europeo sarebbe così
la contraddizione di negare e porre le frontiere; se invece non
raggiungessero natura unitaria, allora l’intera Europa diventerebbe
una moltitudine di individui dispersi, permeabile a qualunque
movimento. La spilorceria degli Stati dell’Europa centrale che
volevano risparmiarsi le spese della nuova frontiera per accollarle
agli Stati periferici, il desiderio di importare senza costi in
centro Europa una nuova classe media dalle pretese economiche
ridotte, hanno imposto questa seconda interpretazione; ma oltre
all’evocazione lugubre del fatto che la permeabilità a qualunque
movimento è proprio ciò che definisce il cadavere, anch’essa reca
una sua contraddizione, e ancora più profonda della prima, che si
radica nella dialettica propria della nozione di confine.
Nel
confine si esprime la categoria di limite.
Kant l’ha posto come terza categoria della qualità,
quindi come sintesi delle prime due, della realtà
e della negazione.
Questa sua natura sintetica ne fa una categoria terribilmente
complicata. Il limite è il cessare, il non-essere, del qualcosa,
dunque l’essere dell’altro:
limitandosi, il qualcosa permette all’altro di essere. Ma il limite
è altrettanto il cessare, il non-essere, dell’altro; e poiché
l’altro è il non-essere del qualcosa, il limite, il non-essere
del qualcosa, è anche il suo essere.
Ne segue, insomma, la contraddizione per cui il limite è non solo
non-essere, mio e dell’altro, ma è anche essere, mio e dell’altro.
Questa contraddizione comporta che il limite abbia una doppia natura:
in quanto è il non-essere dei qualcosa, essi vi cessano e sono
separati l’uno dall’altro; al contrario, in quanto il limite è
l’essere dei qualcosa, essi vi sono entrambi, vi sono dunque la
stessa cosa e il limite è ciò in cui comunicano. Così il limite è
il comunicare tra qualcosa che sono altri tra loro.
Poiché
il limite ha natura doppia, la sua negazione, anziché promuovere una
superiore armonia, provoca una regressione: innanzitutto poiché il
limite è non-essere e insieme essere del qualcosa e dell’altro,
l’annullamento del limite sopprime non solo la separazione tra
qualcosa e altro, ma anche l’essere del qualcosa e dell’altro;
inoltre, mentre prima i qualcosa nel limite si differenziavano e
insieme annullavano la loro differenza così da comunicare tra loro,
ora insieme al limite sono annullati sia la loro differenza che il
loro comunicare e tutto regredisce nell’indeterminazione astratta.
Un
celebre autore taccia di nichilismo
chi conferisce realtà al nulla e al divenire; forse è più fecondo
dare al termine il senso opposto e parlare di nichilismo a proposito
dell’inettitudine a scorgere la determinazione positiva in ogni
negazione, quell’inettitudine che per trovare l’assoluto,
abbandonata la determinatezza, regredisce nella pigra prospettiva
dell’indifferenziato. È facile che i propagandisti dell’abolizione
delle frontiere contino, più che sul contenuto logico del loro
progetto, su questa inclinazione del pensiero alla semplicità.
Se
si inseriscono questi rapporti logici nel contesto politico, segue
che nella relazione tra gli Stati il confine è non solo ciò in cui
ciascuno finisce, il non-essere di entrambi, ma anche ciò da cui
inizia, il loro essere, e che questo essere è condizionato da quel
non-essere. Estraniandosi dagli altri oltre il confine, l’individuo
riduce
l’estraneità con gli altri individui dentro il confine, si allea
con loro. Respinta una lettura troppo ottimistica della tesi
aristotelica per cui l’uomo è ζῷον
πολιτικόν, Hobbes
ha sostenuto che l’individuo
è istintivamente asociale; la necessità di cercare alleanza per
difendersi dallo stato di guerra lo spinge a seguire il dettame della
retta ragione e ad accettare limiti al suo arbitrio. Si
ama credere che sia finito il tempo in cui le comunità potevano
aspettarsi da altre comunità non solo vantaggi, ma anche danni;
anche se fosse vero, in realtà, con la fine della percezione del
pericolo cessa anche la percezione della necessità della difesa, e
la ricerca di alleati diventa superflua. Ma ogni rapporto etico, la
laboriosità, la lealtà, l’onestà, dipendono, più che
dall’inclinazione naturale, che non può essere supposta sempre e
in tutti, dalla decisione
di assumersi doveri per associarsi e difendersi. Questa decisione è
l’origine degli Stati e dei diritti: in quanto si è residenti
entro di confini di uno Stato, ci si vincola a doveri fissati dalle
sue leggi e si acquisiscono i relativi diritti. Viceversa, il
desiderio di estendere i diritti eliminando gli Stati e i loro
confini sfocia nella corruzione universale. L’ignorare che i
diritti sono prodotto dei doveri imposti
da uno Stato entro i suoi confini porta infatti a concepire i diritti
come gratuiti; ma la gratuità di un diritto è la volontà che gli
altri soddisfino la mia esigenza senza che io soddisfi la loro
esigenza; questa volontà, in quanto guidata da una massima che non
può costituirsi a legge universale, è la definizione stessa di
immoralità.
L’abolizione
dei confini implica che non ci siano più popoli diversi con proprie
leggi e propri interessi generali, che nel confine si contrastano e
nel contempo superano questi contrasti. Che non ci siano popoli
diversi significa che ci sono soltanto individui indifferenti
all’ambito in cui vivono, che parlano questa e quest’altra
lingua, seguono questa e quest’altra religione, praticano questo e
quest’altro lavoro, scelgono addirittura questa e quest’altra
sessualità. A ben vedere tutto ciò non vuol dire affatto che la
differenza sia scomparsa, ma che si postula un individuo
infinitamente adattabile su cui caricare l’onere di sopportarla,
cioè che rinunci alla sua
lingua materna e parli questa e quest’altra lingua, che rinunci al
suo
culto e tolleri questa e quest’altra religione, che rinunci a un
suo
lavoro e insegua questa e quella opportunità. Oppure, da altro punto
di vista, che una stessa politica economica debba applicare gli
stessi strumenti ad aree economiche continentali, dunque più
eterogenee, implica o una massa di trasferimenti di risorse dalle
zone ricche alle zone povere, quindi una più forte imposizione
fiscale sugli individui delle aree ricche, o, in caso contrario, il
degrado degli individui nelle zone povere.
Gli
individui senza confini e senza comunità sono assoluti, ma proprio
per questo respingenti, puri limiti che si ritraggono da ogni
relazione. Ne segue che l’abolizione del confine non abolisce la
negatività della separazione, anzi la radicalizza nella repulsività
degli individui. La rinuncia ai legami sociali è facile quando
l’abbondanza di opportunità fa sentire l’individuo onnipotente.
Ma è proprio delle opportunità esserci o anche non esserci. Quando
l’individuo si accorge di non avere chance,
allora la sua regressione ad atomo assolutamente repulsivo si ribalta
nel suo opposto e genera una sinistra forma di società. Per una
diabolica eterogenesi dei fini il pio desiderio di sostituire le
barriere con ponti, costituendo moltitudini di individui che sono
soltanto degli uno,
delle barriere assolute (i campi di concentramento ne sono stati il
prototipo), non lascia loro altro mezzo per ricostituire il legame
collettivo che l’estinzione nell’uno
unico, cioè
nell’individuo che restaura il confine verso l’altro. Ma mentre
prima era anche
rapporto positivo, comunicazione, con l’altro, ora il confine
assume dall’individuo assolutizzato il carattere di negatività
assoluta e diventa essere-per-sé,
negazione dell’alterità – qualcosa che perfino gli improvvidi
distopisti di Bruxelles iniziano a presentire.
L’abolizione
dei confini quale si è verificata in Italia ha avuto sin
dall’inizio, più che l’apparenza di una utopia benintenzionata,
il carattere autolesionistico dell’accettazione di una disciplina
punitiva. L’incapacità di conciliarsi con la propria storia ha
prodotto l’abitudine a considerare nemico l’italiano e alleato lo
straniero, ad odiare il prossimo e ad amare il lontano. La nostra
abolizione dei confini ha così calpestato l’esigenza
costituzionale della reciprocità ed è consistita nel riconoscere la
legittimità dell’essere altrui, senza riflettere che il senso più
profondo dell’essere
non è l’inerzia, ma l’attività del conservarsi, eventualmente a
spese del suo
altro. Il nobile ideale dell’accoglienza che il grande capitale, la
chiesa cattolica e i centri sociali invocano è così deturpato dal
suo inerire a una prospettiva che concepisce il proprio essere come
colpa, come un’esistenza illegittima, uno spazio vuoto nel quale
ogni materia può espandersi senza forzature. A questo spazio vuoto è
ridotto il nostro sé. Ma il sé non è un dato naturale, è la
capacità di difendersi che si sostanzia come diritto; cessare di
confidare sulla sua gratuità significa liberarsi dalla vergogna
dell’asservimento e riconquistare la soggettività.
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