(Proponiamo ai nostri lettori un breve testo riassuntivo che comparirà in una futura pubblicazione a cura dell'ARS)
Euro
M.Badiale, F.Tringali
Quando,
nel 2011, abbiamo cominciato ad argomentare la necessità per il
nostro paese di abbandonare l'euro1,
non era facile imbattersi, nel dibattito pubblico, in critiche
esplicite alla moneta unica. Per fortuna abbiamo quasi subito
incontrato persone che andavano nella stessa nostra direzione, a
partire da Alberto Bagnai2
e dagli amici che avrebbero poi dato vita all'ARS. Nel corso del
tempo, i contenuti che diffondevamo hanno mostrato in pieno la loro
correttezza, tanto che alcuni di essi sono entrati a far parte del
mainstream
economico.
Recentemente,
un gruppo eterogeneo di economisti molto noti ha pubblicato una
comune analisi, una “consensus narrative”, della crisi che ha
raccolto ampie adesioni3.
Ciò che ha messo d'accordo esperti appartenenti a orientamenti
diversi, non diverge da quanto abbiamo cercato di diffondere già
diversi anni fa. Il punto fondamentale è che la crisi dell'euro non
è una crisi di debito pubblico, bensì una crisi di debito estero
(pubblico e privato), generata dai deficit delle partite correnti nei
paesi della periferia dell'eurozona. Tali saldi negativi si sono
perpetuati nel tempo a causa delle profonde differenze fra le diverse
economie nazionali.
È
accaduto che con l'unificazione della moneta i paesi più deboli si
sono trovati in mano una valuta troppo forte, mentre quelli del
centro hanno goduto di un cambio più favorevole alle loro politiche
economiche basate sulle esportazioni. Essi hanno colto la palla al
balzo ed hanno realizzato riforme del lavoro che hanno diminuito la
forza contrattuale dei lavoratori, e di conseguenza i loro salari.
Perdita di potere di acquisto significa inflazione contenuta, e così
proprio quei paesi che all'interno dell'unione monetaria erano
economicamente più forti, hanno visto un aumento della competitività
e, quindi, dei loro surplus commerciali. Il rovescio della medaglia,
però, è stato il peggioramento della condizione dei paesi con
inflazione più alta, che ovviamente hanno perso competitività
rispetto ai primi. Gli squilibri fra le economie sono aumentati. Una
volta scoppiata la crisi, ad essa non si è saputo rispondere
adeguatamente perché la moneta unica ha privato i paesi
dell'eurozona degli strumenti tradizionali che fungono da meccanismi
di riequilibrio, come una banca centrale che ricopra il ruolo di
prestatore di ultima istanza e la flessibilità del cambio valutario.
Sebbene le recenti mosse della BCE abbiano raffreddato il clima, la
situazione resta ancora molto difficile, e la crisi è ben lontana
dall'essere risolta. Tutto ciò ormai va considerato assodato.
Una
volta comprese le cause della crisi, diventa relativamente semplice
immaginare le soluzioni. Molti autori hanno descritto strade
percorribili, che seppur per vie diverse, conducono tutte allo stesso
approdo: un meccanismo automatico di riequilibrio fra le diverse
economie nazionali dei paesi che condividono la moneta.
Senza di
esso, l'unica
risposta possibile è quella che effettivamente è stata data fino ad
oggi: la deflazione. Anche i paesi della periferia devono puntare al
contenimento dei consumi interni. Diritti conquistati in decenni di
lotte vengono sacrificati sull'altare della competitività. Le
condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggiorano, ma
la bilancia commerciale, lentamente, migliora. Tuttavia la crisi
tende comunque ad avvitarsi su sé stessa, perché gli squilibri fra
le economie non sono risolti e i paesi si trovano a competere in una
gara che spinge continuamente al ribasso le condizioni di vita e di
lavoro dei loro cittadini. Le riforme del lavoro hanno reso tutti i
lavoratori facilmente licenziabili, così anche coloro che hanno un
contratto a tempo indeterminato perdono la garanzia di avere un
reddito nel prossimo futuro. Le banche chiudono i rubinetti del
credito, stentano ad erogare mutui, lasciano le imprese senza
liquidità. Una volta sconquassato l'assetto economico-produttivo e
spinto i lavoratori in una condizione di diffusa precarietà diventa
impossibile far ripartire l'economia.
Diventa
chiaro, come si diceva poco sopra, che per poter resistere agli urti
delle crisi, all'interno di un'unione monetaria, diventa
imprescindibile inserire un meccanismo automatico di riequilibrio fra
le economie. Fra le molte proposte emerse, vale la pena citare quella
di Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze di Atene, dato che
egli si è trovato ad essere protagonista di uno dei momenti più
drammatici dell'ultimo periodo.
Egli
aveva ben descritto, nel 20114,
una via d'uscita dalla crisi, che possiamo riassumere in tre
passaggi:
a. La
BCE deve subordinare l'assistenza alle banche alla condizione che
queste ultime cancellino una quota consistente di crediti verso i
paesi deficitari.
b. La BCE deve emettere propri bond e contestualmente incamerare una quota del debito pubblico di tutti gli Stati, pari al valore nominale del debito consentito dai trattati (cioè fino al 60% del PIL). I bond dovrebbero essere garantiti direttamente dalla BCE e non dai singoli Stati.
c. La BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l'assistenza della BCE, deve assumere il ruolo di riequilibratore fra i surplus e i deficit dei vari Stati. Varoufakis sottolinea che la BEI ha buone capacità di finanziare investimenti redditizi, ma le sue potenzialità non sono sfruttate. Il motivo è che per attivare i finanziamenti, gli Stati devono anticiparne una parte, ma non hanno il denaro per farlo (soprattutto quelli che hanno più bisogno dei finanziamenti). L'idea dell'ex ministro è che gli Stati possano utilizzare a questo scopo risorse derivate dall'emissione di bond della BCE, la quale, in pratica, rastrellerebbe le eccedenze dei paesi in surplus (dando loro i bond) reinvestendole in quelli in deficit.
b. La BCE deve emettere propri bond e contestualmente incamerare una quota del debito pubblico di tutti gli Stati, pari al valore nominale del debito consentito dai trattati (cioè fino al 60% del PIL). I bond dovrebbero essere garantiti direttamente dalla BCE e non dai singoli Stati.
c. La BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l'assistenza della BCE, deve assumere il ruolo di riequilibratore fra i surplus e i deficit dei vari Stati. Varoufakis sottolinea che la BEI ha buone capacità di finanziare investimenti redditizi, ma le sue potenzialità non sono sfruttate. Il motivo è che per attivare i finanziamenti, gli Stati devono anticiparne una parte, ma non hanno il denaro per farlo (soprattutto quelli che hanno più bisogno dei finanziamenti). L'idea dell'ex ministro è che gli Stati possano utilizzare a questo scopo risorse derivate dall'emissione di bond della BCE, la quale, in pratica, rastrellerebbe le eccedenze dei paesi in surplus (dando loro i bond) reinvestendole in quelli in deficit.
In
estrema sintesi, quindi, le tre mosse sono: la cancellazione di una
parte del debito pubblico; la copertura della BCE su una ampia quota
della restante parte (fino al 60% del PIL); l'introduzione di un
meccanismo di riequilibro fra le economie, che trasformi le eccedenze
dei paesi in surplus in investimenti nei paesi in deficit.
È
evidente che queste tipo proposte si inserisce dentro lo schema
generale che vede il superamento della crisi dell'euro in un
approfondimento del processo di unità europea, perché la loro
realizzazione presuppone la trasformazione dell'UE in uno Stato
federale, o comunque in una sorta di entità statale unitaria, dotata
di un proprio bilancio e della capacità di indirizzare flussi
finanziari da una regione ad un'altra. È lo schema che si riassume
nello slogan “più Europa”. Assieme a proposte economiche
anti-austerità, questo tipo di approccio è diventato la linea di
un'ampia gamma di forze politiche, prevalentemente di sinistra (ma
non solo), che si dicono critiche verso le politiche economiche
attuali, ma favorevoli alla UE e all'euro.
Purtroppo
questo tipo di impostazione è
politicamente fallimentare, come le vicende greche del 2015
hanno ampiamente dimostrato. Varoufakis è stato messo da parte, e
con lui le sue proposte. Mentre il governo greco si è piegato ed ha
accettato tutte le richieste tedesche.
Quali
sono le reali ragioni di un tale fallimento?
E' chiaro che la crisi non è un problema solo economico, e le sue
soluzioni non vengono valutate esclusivamente sul piano economico. Su
tale piano, infatti, le soluzioni esistono. Le proposte sopra
riportate, se applicate integralmente, probabilmente funzionerebbero.
Il problema è se tutto ciò sia realizzabile sul piano politico, ed
a quali costi.
Il
problema, cioè, è se sia pensabile realizzare, e a quali costi, una
forma di unità europea nella quale la Germania finanzia
indefinitamente i
deficit della Grecia, dell'Italia, della Spagna.
E'
facile immaginare che i paesi del centro Europa non accetteranno mai
una simile situazione, a meno che gli altri non cedano,
integralmente, la loro sovranità, diventando meri vassalli.
L'Eurozona dunque, è di fronte ad un bivio: frantumarsi o diventare
un “superstato” dominato dalla Germania e incentrato sulle sue
politiche di austerità e deflazione.
L'idea
che un eventuale “superstato” europeo possa assumere connotati
diversi da quelli esposti è totalmente irrealistica.
La
costruzione di uno Stato europeo che adotti una politica economica
radicalmente contraria alla vulgata neoliberista che è dominante da
circa trent'anni, presuppone l'esistenza di una forza politica
europea che lo ponga come obiettivo e abbia ragionevoli speranze di
conseguirlo. Una tale forza politica, per esistere, deve avere una
base sociale effettiva. E chi potrebbe comporre una tale base
sociale? Forse i ceti dominanti europei? Basta formularla, questa
ipotesi, per capirne l'assurdità. I ceti dominanti hanno costruito
questa UE e questo euro esattamente perché essi servono al meglio i
loro interessi. È semplicemente insensato pensare che, di colpo,
possano rovesciare completamente le politiche tenacemente perseguite
da decenni, per impostarne altre, favorevoli alla riconquista di
diritti e redditi da parte dei ceti subalterni.
L'alternativa
è pensare che la riscossa possa nascere dai ceti subalterni europei,
uniti in una lotta comune contro austerità, deflazione,
neoliberismo. Si tratta di un'impostazione ampiamente diffusa nel
mondo della sinistra radicale. Essa rappresenta la base per una
possibile proposta di azione politica: organizzare i ceti popolari in
una lotta unitaria a livello europeo, senza “tornare indietro”
allo Stato-nazione, ormai
superato, secondo i fautori di tale impostazione.
Per
capire se questa impostazione rappresenti una possibilità reale o
sia un mero flatus vocis è
sufficiente rendersi conto che questa idea campeggia da almeno
cinquant'anni. Oltre mezzo secolo, durante il quale i ceti dominanti
sono stati effettivamente capaci di costruire unità, mentre le forze
popolari non hanno potuto farlo (né
ci sono motivi per pensare che lo potranno in futuro).
Era
il 1964 quando, all'interno della sinistra, si affermava quanto
segue5:
“C'è
stata una trasformazione dei rapporti di forza a vantaggio della
borghesia e a spese dei lavoratori per tutto il periodo di avviamento
del Mercato Comune.
Questo
cambiamento dei rapporti di forza deriva da tutta una serie di cause
(…). Non ci soffermeremo ad esaminarle una per una, ma ci
limiteremo ad illustrare un fatto fondamentale: l'internazionalismo
dei padroni e delle loro organizzazioni è risultato molto più
concreto ed efficace di quello dei lavoratori e delle loro
organizzazioni.
D'altra
parte, era facile prevederlo, e chi, nel movimento operaio, ha
cercato di tapparsi gli occhi e ha predetto che la realizzazione del
Mercato Comune avrebbe favorito la lotta operaia e persino la lotta
socialista contro il padronato non ha fatto che nutrire pie
illusioni. Era inevitabile che la borghesia e il padronato, per la
loro stessa tradizione, per il loro modo di vivere, per l'ambiente in
cui si muovono e i mezzi di cui dispongono, fossero molto più pronti
ad un'azione su scala europea che non la classe operaia (…).
In
proposito, possiamo esprimere un moderato ottimismo. È innegabile
che, a lungo andare, la realtà riuscirà a spuntarla sul
pregiudizio, la lezione dell'esperienza insegnerà a tutti i settori
sindacali che ancora non lo capiscono, che è indispensabile un'unità
d'azione in seno al Mercato Comune.”
Dopo
cinquant'anni, la sinistra radicale odierna continua a considerare
valide queste idee nonostante tutta la storia recente abbia
dimostrato inequivocabilmente che non vi è nessuna solidarietà fra
i ceti subalterni europei, mentre l'unico soggetto sociale capace di
agire sul piano europeo è rappresentato dai ceti dominanti. Sono
essi ad essere unificati dalla lingua (l'inglese internazionale),
dalla cultura e dal modo di vita, mentre tutti gli altri sono
divisi6.
L'unico piano sul quale è possibile lottare contro di loro è quello
nazionale. Non a caso, è questo l'unico piano
sul quale siano stati costretti a concedere qualcosa ai ceti
subalterni.
Nei
prossimi decenni non è realizzabile alcuna “altra Europa” che
imposti un riequilibrio fra i diversi paesi e realizzi politiche
favorevoli ai ceti popolari. I ceti dominanti, in particolare le loro
frazioni egemoni concentrate nei paesi del Nord, non lo accetteranno
mai. Probabilmente, per evitare di perdere l'euro, consentiranno un
qualche tipo di finanziamento dei paesi in deficit, ma solo in cambio
della totale espropriazione della loro sovranità. E, come ovvio,
useranno il potere così ottenuto per difendere interessi che, in
parte, potranno anche accordarsi con quelli dei ceti dominanti dei
paesi vassalli, i cui cittadini non avrebbero altra prospettiva che
quella di diventare “gli ultimi” di una struttura di tipo
neocoloniale.
La
lotta contro euro e UE, per la riconquista della sovranità popolare
e per l'integrale applicazione della Costituzione Italiana del 1948,
è l'unica possibilità di sfuggire a questo destino.
1Marino
Badiale, Fabrizio Tringali, Liberiamoci dall'euro, Asterios,
Trieste 2011. Si veda anche Id., La trappola dell'euro,
Asterios, Trieste, 2012.
2Alberto
Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur, Reggio Emilia
2012. Id., L'Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano 2014.
Si veda anche il blog http://goofynomics.blogspot.it/
(in
traduzione italiana
http://vocidallestero.it/2015/11/23/ce-consenso-su-crisi-delleuro-giavazzi-blanchard-de-grauwe-ecc-ovvero-la-crisi-delleuro-e-dovuta-alleuro/
).
4
YanisVaroufakis, Il Minotauro Globale, Asterios, Trieste
2012. L'edizione inglese originale è dell'anno precedente.
5
Ernest Mandel, Neocapitalismo e crisi del dollaro, Laterza,
Roma-Bari 1973, pagg. 92-93. Mandel (1923-1995) è stato un
economista e uomo politico marxista, esponente di rilievo
dell'indirizzo trotskista.
6Marino
Badiale, Fabrizio Tringali, Liberiamoci dall'euro, cit.,
pagg.15 segg.
Questo articolo esce anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=15288
Questo articolo esce anche su "Appello al popolo": http://www.appelloalpopolo.it/?p=15288
Non è che "non vi è nessuna solidarietà fra i ceti subalterni europei". E' piuttosto che non vi è alcuna coscienza dei problemi comuni dal momento che non vi è informazione al riguardo, sostituita dalla disinformazione, metodica e capillare, perseguita dai media controllati dai "ceti dominanti".
RispondiEliminaQuindi solo i fatti, nudi e crudi, alla fin fine avranno ragione di questa demenza popolare, in base al vecchio detto "la fame aguzza l'ingegno". La Grecia rappresenta l'avanguardia di tale processo storico, destinato inesorabilmente ad aggravarsi col progredire dei BRICS prima, e forse un giorno anche dei continenti più disastrati, come la nostra Africa.
"Liberté, Égalité, Fraternité" dura da 2 secoli in Francia, dove, ben lungi dall'essere realizzata, la popolazione è ancora la più assistita d'Europa. E' qui che dovrebbe innescarsi la reazione popolare, nelle forme moderne del rispetto universale, visto anche il contrasto col neocolonialismo degli ultimi fallimentari governi.
Gli aspetti esposti sulla questione europea in questo articolo, a mio parere, sono corretti. Personalmente, anche io credo che le proposte di Varoufakis siano “idealiste”, nel senso di “non realiste” perché non tengono conto della reale, concreta strategia tedesca di conquista del dominio su tutta l’area europea.
RispondiEliminaNon mi dilungo su questi aspetti perché così come sono esposti, sono condivisibili. Aggiungerei che la strategia tedesca di realizzare la Grande Germania (il continente europeo) si scontra contro una realtà oggettiva. Le politiche mercantiliste, basate sull’esportazione, sono necessariamente abbinate ad un attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori. Hanno però un “piccolo” difetto. Cioè hanno bisogno della DOMANDA. Come l’aria, come il sangue per il vampiro. Questo modello, adottato dalla Germania, ma anche dalla Francia, dall’Italia, si è andato a frantumare sugli scogli della crisi americana. Per semplificare, possiamo dire con la crisi del consumo a debito. Dove trovare la domanda? Questa è una contraddizione reale su cui le forze di opposizione devono fare leva. È illusione, follia, pensare che possa avere successo.
L’altro punto riguarda l’Italia. Perché spesso si trascura di parlare della nostra storia. Cioè, si dà per scontato che il ritorno all’interno dei confini nazionali non possa che fare bene. In questi giorni mi è capitato per le mani un vecchio libro-intervista (del ’77) che Scalfari fece a Carli.
Carli era a pieno titolo “classe dirigente italiana”. Assieme a tanti altri, a Ciampi, Cuccia, Prodi, Andreotti, Andreatta e tanti altri. Carli era figlio di un professore universitario, che insegnava nell’università fascista. Carli era anche parente del cardinale Montini, futuro papa Paolo XI. Carli fu governatore della Banca d’Italia, presidente della Confindustria. E ministro delle finanze nel ’92. Il racconto di Sarcinelli, che lo accompagnò a Maastricht per firmare il trattato, era che fosse eccitatissimo. Nonostante la notte gelida e la sua malattia (andava in giro con la bombola d’ossigeno), volle festeggiare per tutta la notte.
Per Carli uno dei problemi era che la nostra costituzione fosse “troppo socialista”, che servisse un vincolo esterno.
A titolo d’esempio, quando parla del ’69 e dello statuto dei lavoratori (1970) dice così: “Comunque, i sindacati, in presenza di una vera e propria « ondata » rivendicativa proveniente dalla base operaia, scatenarono la loro azione nonostante la presenza di condizioni congiunturali restrittive. E puntarono non soltanto e addirittura non tanto su rivendicazioni puramente salariali, ma sul tema della rigidità della forza-lavoro. Fu questo il punto cruciale di quello scontro: sottrarre completamente e definitivamente la forza-lavoro agli automatismi del mercato, all'andamento della congiuntura e alle autonome decisioni degli imprenditori.” (Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, 1977,Laterza).
È solo un esempio di un personaggio molto influente della politica italiana. La domanda è: qual è la garanzia che l’eventuale ritorno alla moneta nazione e alle politiche nazionali porti alla fine dell’austerità, porti la democrazia? La storia italiana dimostrerebbe il contrario.
"qual è la garanzia che l’eventuale ritorno alla moneta nazione e alle politiche nazionali porti alla fine dell’austerità, porti la democrazia?"
EliminaNessuna garanzia, Francesco. Nessuna.
Dall'altra parte, hai però l'assoluta garanzia che euro ed UE ci condurranno sempre più a fondo nella precarietà e nelle politiche colonialiste, mercantiliste ed in ultima istanza neofeudali.
Quindi, a mio avviso la domanda vera è: fra la probabilità di un miglioramento e la certezza di un ulteriore peggioramento, tu cosa sceglieresti?
P.S.: nella storia italiana sono esistiti anche gli Enrico Mattei e gli Aldo Moro.
Ed è sempre esistito un popolo ricco, generoso e creativo, pronto a scatenare le proprie immense potenzialità appena gliene è stata data l'opportunità.
Sono d'accordo sulla analisi delle politiche europee. Che ritengo devastanti.
EliminaLa domanda che però bisogna farsi è perché la nostra "classe dirigente" ci ha portato dentro questa situazione? La distinzione manichea tra italiano "bbuono" e tedesco "cattivo" è improponibile. Non fu Kohl, né tantomeno la Merkel, a costringerci ad sottoscrivere il trattato di Maastricht. Galloni racconta bene come ci fu un movimento di tutta la classe dirigente, Andreotti in testa. Carli, il fascista, era ministro del tesoro nel 1992. Ed era euforico!
Consiglio di leggere la storia economica del dopoguerra di Graziani. La cosiddetta "classe dirigente italiana" è stata sempre così. Nel '63, in pieno boom, per piegare il movimento dei lavoratori, misero in atto un feroce piano di austerity.
La storia dobbiamo vederla tutta. C'era Hitler e il nazismo. Ma ci fu anche Mussulini e il fascismo.