(Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di Paolo Di Remigio
M.B.)
Dopo
la fine del pensiero politico del mondo classico si è disposti a
riconoscere all'individuo almeno la possibilità di essere onesto, ma
è pregiudizio comune che lo Stato sia essenzialmente un male. Per i
cattolici è una costruzione soltanto umana, quindi bisognosa di
guida trascendente; per i liberali è una sgradevole necessità; Marx
lo concepisce come una ipocrisia; il fascismo, che pure sembrerebbe
volerlo esaltare, non accetta il pluralismo, la divisione dei poteri
che consente il dominio della legge e impedisce l'esercizio del
potere carismatico, e ciò equivale a dire che non ne accetta
l’essenza.
La
sequenza di queste visioni non è solo storica, ha una base logica.
Nel cristianesimo la natura dell’uomo è corrotta dalla
colpevolezza originaria che soltanto lo spontaneo gesto salvifico di
Dio può espiare; così l'uomo, perduto finché il suo destino è
nelle sue mani, è salvo solo se si affida all'istituzione che quel
gesto salvifico ha fondato; questo significa, nella sfera politica,
che gli uomini sono perduti nell'ambito dello Stato, che non può
andare oltre l'attuazione di un diritto punitivo, redenti soltanto
nella Chiesa che li immerge nella caritas.
Come
il liberalismo che ne ha raccolto l'eredità, l'illuminismo respinge
il peccato originale tra gli inganni dei preti: gli uomini sarebbero
naturalmente
ragionevoli, dunque in grado di conoscere, senza bisogno di guida
ecclesiastica, che il loro utile è raggiungibile solo tramite la
mediazione sociale, che l'egoismo coincide con la generosità;
sarebbero semmai la superstizione diffusa dalla Chiesa e la tirannia
esercitata dallo Stato ad accecare gli individui e a impedire il
dispiegamento della loro libertà e del progresso di cui essa è
portatrice.
Questa
convinzione illuminista forma uno dei presupposti più profondi del
socialismo. Che tuttavia il socialismo non vi si possa limitare, è
avvertibile in Marx. Con le nozioni di alienazione
religiosa e alienazione
politica Marx fa sua la critica illuminista alla religione e alla
politica; ma nel contempo le considera meri sintomi di un'alienazione
originaria, l'alienazione economica, superata la quale esse sarebbero
dissolte a fortiori.
Poiché però l'alienazione economica sorge sul terreno naturale
della società civile e dell'egoismo individuale, non su quello
consapevole quindi colpevole
dello Stato, Marx deve oltrepassare l'illuminismo e recuperare la
nozione teologica di peccato originale, deve cioè considerare
l'individuo naturale
stupido e colpevole. Questa separazione di Marx dall'illuminismo è
evidente nella sua nozione di ideologia;
essa esprime la stessa invincibile opacità degli uomini su se stessi
contenuta nella rappresentazione teologica di peccato
originale. Dal momento poi che il
male non può essere superato né dall'individuo né dalla ragione,
ma dal movimento storico, Marx recupera un secondo motivo teologico:
affida a quella che chiama la classe operaia il compito messianico
di interrompere il corso della storia, di ribaltare il male del mondo
e di realizzare la libertà naturale dell'individuo. Così, mentre
nell'illuminismo la libertà naturale è già presente, in Marx è il
sogno dell'umanità che la storia, animata dallo sviluppo della forza
produttiva, sta per realizzare. Nelle sue diverse varianti il
socialismo ha oscillato tra illuminismo e messianismo, tra fede
nell'individuo naturale e fede nell'avvento
dell'individuo naturale, come si dice di solito: tra riformismo e
rivoluzione. Mentre poi il riformismo ha saputo rivalutare il
significato dello Stato, le ali rivoluzionarie hanno condiviso con
l'illuminismo e la teologia la diffidenza verso lo Stato, anzi
l'hanno acuita in disprezzo. Senza questo disprezzo sarebbe
incomprensibile l'attuale disponibilità della sinistra a offrire i
suoi servizi alla criminalità finanziaria mondializzata in cui
l'illuminismo ha conosciuto la sua ultima degenerazione.
Sorge
così, su basi soltanto ideologiche, cioè a prescindere dalla
conoscenza effettiva dello spirito delle costituzioni statali, un
senso comune che contrasta con il realismo della teologia cattolica,
perché ne contesta la rappresentazione del peccato originale
sostituendole quella della bontà naturale dell'individuo, e
contrasta ancora di più con la filosofia, che a partire dalla Grecia
riconosce nello Stato la realtà etica fondamentale. Questo senso
comune svela la sua superficialità nella sua inettitudine a
distinguere tra arbitrio e libertà. La confusione ha la sua prima
origine nel cristianesimo, nel suo rifiuto di riconoscere la libertà
come un prodotto
della volontà razionale umana, e nel concepirla come un dono
divino. Senza il dono della libertà, la volontà soltanto naturale
dell'uomo decade a una mobilità tra i diversi impulsi, cioè
all'arbitrio;
e poiché questi impulsi sono indipendenti dall'arbitrio, sono dati
per natura,
per il cristianesimo la volontà naturale è di per sé un servo
arbitrio, una scelta tra diversi
modi di peccare1.
L'illuminismo rovescia la valutazione della natura: la natura è
buona,
la mobilità tra gli impulsi naturali è dunque una mobilità tra
beni,
dunque un libero arbitrio.
Il libero arbitrio è la libertà, questo è il πρῶτον
ψεῦδος del senso comune. Il
suo precursore, John Locke, vi incorre cercando di separare lo stato
di natura, cioè il libero arbitrio, dallo stato di guerra, cioè dal
servo arbitrio; così può identificarlo alla ragione e trasformarlo
in libertà (perfect freedom),
uguaglianza (equality)
e fraternità tra gli uomini (mutual
love amongst men): la polemica
contro gli abusi dell'assolutismo monarchico lo ha indotto a fingere
una natura dell'uomo già redenta dal male, già libera, cosicché
allo Stato non resta che minimizzarsi a giudice nelle controversie
tra proprietari e a boia– come vuole l'ideologia liberale.
A
partire da Locke è difficile comprendere che la libertà è un
prodotto
della volontà razionale, antecedente e l'arbitrio. È possibile
scegliere liberamente tra impulsi solo in un ambiente in cui non
occorra difendersi da minacce mortali; ma la somma degli arbitri
naturali, come ha visto lucidamente Hobbes , è il proprio immediato
mutare nello stato di guerra; quindi l'esistenza stessa degli arbitri
è condizionata dall'essere in atto della libertà, che impedisce lo
stato di guerra, li rende compatibili e li accorda nella
loro differenza. La libertà, che si
manifesta dunque come accordo presupposto
tra arbitri, è prodotta dall'accettazione
consapevole del dovere in vista del godimento del diritto.
Essa è
questo nesso tra diritto e dovere, reale, e non semplicemente
desiderato, in quanto è fissato dalle leggi di uno Stato: la libertà
è cittadinanza.
Voler considerare con
Locke i diritti un dato naturale significa non comprendere che essi
sono sempre e soltanto un derivato dei doveri dei cittadini e che
fuori dallo Stato e dal nesso reale tra dovere e diritto, fuori della
legge positiva,
si apre soltanto il dominio dell'arbitrio naturale, l'orrore dello
stato di natura. – Il senso comune vede però che gli Stati fanno
uso della violenza; poiché non tollera l'idea di violenza legittima,
neanche quella di pena a chi rifiutando il dovere gode
parassitariamente del diritto, la sua povertà di spirito si illude
che la guerra sia un effetto degli Stati, che svanisca con il loro
estinguersi. Contro questo grossolano fraintendimento, che dimentica
la genesi della violenza spontanea dall'arbitrio naturale2,
va osservato che, anziché generare violenza, gli Stati la limitano,
non solo al loro interno: la polizia deve
difendere l'integrità fisica del colpevole dalla furia vendicatrice
della folla, ma anche al loro esterno: in quanto si riconoscono, gli
Stati applicano un diritto di guerra per cui la violenza è
legittimata come mezzo
per il ritorno alla pace; essa si degrada in impulso alla
devastazione, in quanto i contendenti non si riconoscono come Stati,
nelle guerre coloniali, o nel dissolvimento dello Stato, nella guerra
civile3.
Lo Stato non è violenza, come il senso comune vaneggia, ma difesa
dalla violenza; il suo ambito, quello della libertà, non è infatti
il dominio dell'arbitrio naturale e del sentimento particolare, ma
l'universalità della ragione, il pensiero.
L'uomo
pensa. Già il linguaggio umano non è mai soltanto voce,
espressione di sentimento particolare, ma sempre anche parola,
nesso convenzionale,
cioè stabilito da leggi consapevoli, della voce con un significato
universale, ossia che rimanda per la
sua comprensione a una legge, quella formulata dalla definizione4.
L’uomo pensa: conosce e produce leggi.
Ha questo rapporto duplice con l’universale5:
non solo gli è sussunto, ossia è
guidato e costretto, come tutti gli
enti naturali, dalle leggi di natura che lo allettano con il piacere
e lo inibiscono col dolore senza
che egli le conosca; ma anche le conosce,
così da farne un mezzo (τέχνη)
per i suoi impulsi, e rispetta
leggi che lui stesso produce e dunque
sa, le leggi della libertà (νόμοι)
che gli impongono doveri in cambio di diritti, così da produrre la
libertà6.
Come
la legge delle cose lega l'una all'altra le variazioni quantitative
di determinazioni differenti, così la legge degli uomini, cioè la
legge prodotta
dal pensiero per il pensiero, è un nesso tra determinazioni
differenti, tra dovere e diritto. Questo nesso tra doveri e diritti,
come essenza della libertà e dello Stato, è così elementare da
essere presente in ogni legislazione. Nella Costituzione Italiana
appare già nel primo articolo, che fonda la Repubblica sul lavoro:
la cosa pubblica, ossia i diritti di cui ognuno gode, è prodotta dal
dovere del lavoro cui ognuno è tenuto. Ancora più espressivo il
secondo articolo, che lega i diritti inviolabili
(con estrema lucidità i costituenti hanno evitato l'espressione
illuminista «diritti naturali»)
all'adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale. Per quanto elementare,
questo nesso resta oscuro al senso comune, che, credendo il diritto
un dono
della natura,
non capisce il dovere e lo rifiuta come se fosse asservimento.
Hegel
ha esplicitato la difficoltà di cogliere il nesso tra dovere e
diritto sia a livello del diritto astratto, quello proprio della
persona e del contratto, che di quello dell'eticità. Nella nota al §
261 dei «Lineamenti di filosofia del diritto» egli mostra che nel
diritto astratto
dovere e diritto sono distribuiti su due
persone: a ciascuna è evidente che il suo
diritto è dovere altrui,
molto meno che il diritto altrui
è suo
dovere. Invece nell'eticità diritto
e dovere sono sì uniti in uno stesso riferimento: ho il diritto e
il dovere di lavorare, ho il diritto e
il dovere di educare i miei figli, ho il diritto e
il dovere di conoscere le leggi – a questa unità si allude con
l'espressione “diritto/dovere” –, ma anche in questa sfera si
forma una necessaria differenziazione. Nell'ambito etico, infatti,
non ci sono soltanto personalità astratte, dunque identiche, in
rapporti contrattuali esterni, ma individui concreti, dunque
differenti, in rapporti vitali: donne, uomini, adulti, vecchi,
bambini, operai, proprietari ecc.; quindi nella loro identità etica
il diritto e il dovere assumono un contenuto differente: i genitori
hanno il diritto/dovere di educare
i figli, i figli hanno il diritto/dovere di essere
educati,
il cittadino ha il diritto/dovere di conoscere
e rispettare le leggi, le
istituzioni dello Stato hanno il diritto/dovere di emanarle
secondo i principi della costituzione. Nell'ambito etico si forma
dunque un'oscurità più pericolosa che nel diritto astratto; qui la
separazione in due
persone coesiste con l'identità del contenuto, che è il principio
della libertà della persona; là si forma l'apparenza per cui, ad
esempio, l'educare sia un diritto soltanto e non anche un dovere, e,
viceversa, che l'essere
educati sia soltanto un dovere (quello della docilità) e non anche
un diritto; oppure che la legislazione dello Stato sia soltanto un
diritto e l'obbedienza del cittadino soltanto un dovere, che lo Stato
sia quindi essenzialmente
tirannia, la cittadinanza
essenzialmente servitù. In questa
oscurità proliferano le fantasie paranoiche sul potere. Ma è
assurdo derivare dall'esistenza
della tirannia e della servitù, dall'esistenza
di cattivi governanti e cattivi genitori, la conclusione che i
rapporti etici, che sono la libertà, siano un'offesa alla libertà;
essere cattivi governanti o cattivi genitori significa infatti
sostituire l'arbitrio alla libertà, l'impulso al diritto, cioè
vivere nell'ambito etico come se fosse lo stato di natura.
«Quel
concetto di unificazione di dovere e diritto è una delle
determinazioni più importanti e contiene la forza intima degli
Stati»7.
Una determinazione che era sfuggita a Kant. L'imperativo categorico
kantiano è la constatazione che, essendo pensiero, ci rappresentiamo
come un dovere la possibilità di agire in base a massime che, rese
leggi, non si contraddicono. Esso ha il merito di porre l'etica non
nella natura particolare del singolo, nei suoi sentimenti più o meno
nobili, o nella sua natura metafisica,
ma nel pensiero, nella capacità di rappresentarsi
e nel volere
leggi come tali, sovrane rispetto all’individuo naturale, la cui
differenza dalla volontà universale è vergogna
e colpa.
Il limite della concezione kantiana è il non aver colto il nesso tra
dovere e diritto. L'entusiasmo per l'indipendenza dal condizionamento
naturale promessa dal dovere lo ha accecato sul fatto che
l'indipendenza è una libertà negativa, cioè una libertà non
libera. La connessione tra dovere e diritto è però ineludibile: se
non ho diritti, non ho doveri; essa si fa dunque valere anche nella
«Critica della ragione pratica», ma ridotta in forma teologica: la
virtù deve essere compensata con la felicità, e questa esigenza è
l'unica prova che Kant accetti dell'esistenza di un Dio.
L'esigenza
di recuperare la teologia invalidata nella “Critica della ragione
pura”, la simpatia per l'illuminismo, quantunque se ne distacchi
nel punto centrale dell'innocenza della natura umana, inducono Kant a
trascurare che il nesso tra dovere e diritto costituisce il fine
proprio dello Stato: nella misura in cui una moltitudine riconosce i
doveri stabiliti dalle leggi per goderne i diritti, quella
moltitudine si innalza oltre lo stato di natura, cioè di guerra
potenziale o effettiva tra i molti, alla libertà ed è Stato. Lo
Stato è la negazione determinata
dello stato di natura, della guerra inevitabile tra gli arbitri: nel
sottometterli alla legge esso non li annulla, li rende compatibili,
cioè offre loro lo spazio di attuazione; negando l'arbitrio
naturale, lo Stato ne annulla in effetti soltanto la repulsività, la
pretesa irrazionale di un diritto senza dovere, così costituisce lo
spazio in cui l'arbitrio può realizzarsi. Lo stato di natura nella
versione idillica del secondo capitolo del trattato di Locke non è
precedente lo Stato e radicato nella metafisica dell'individuo, ma il
prodotto più prezioso dello Stato moderno, che a differenza di
quello antico consente al cittadino anche di appartarsi nel suo
privato. Così lo stesso libero arbitrio degli individui non
precede lo Stato, ma risulta dallo Stato. Non che sia una graziosa
concessione dei governanti, non che l'individuo debba piegarsi
all'orientamento arbitrario di una totalità monolitica: lo Stato in
quanto tale non ha altro orientamento che la libertà dei cittadini
contro lo stato di natura che sorge dall'infrazione delle leggi e dal
rapporto con gli altri Stati.
Poiché
è il nesso tra diritti e doveri fissato nelle leggi, la libertà dei
cittadini si manifesta nell'accordo
dei loro arbitri in quanto differenti. Lo
Stato ha fatto esplicitamente suo il compito di accordare le
differenze da quando, in corrispondenza della rinascita dello spirito
scientifico in epoca moderna, si è emancipato dalla religione e si è
avviato a diventare Stato
costituzionale. Gli individui e i
loro diversi gruppi vedono bene i propri diritti, possono ignorare i
diritti altrui e sottovalutare l'importanza del loro rispetto. Ne
nascono prospettive incompatibili, ognuna confermata da evidenze,
nessuna in grado di esercitare critica autentiche: le ideologie. Tra
le evidenze di una ideologia la più importante è la condivisione
collettiva, da cui si genera ciò che si chiama “senso di
appartenenza”.
In base a questa prima forma di universalità,
un'universalità particolare, i gruppi, incapaci di scorgere i propri
punti di debolezza, sentono assurdi i pregiudizi degli altri gruppi e
si sforzano di convertirli o di eliminarli. Rifiutare la pluralità,
pretendere che soltanto una convinzione, la propria, sia valida è il
fanatismo – non solo le religioni, anche i partiti politici – che
smania per ricorrere alle vie di fatto. Il dibattito del senso comune
sul rapporto tra politica e morale, in cui quella sarebbe l'agire
maligno più o meno giustificato da fini, questa la sfera della
purezza, riportato ai suoi termini effettivi, è il contrasto tra
prospettiva settaria
individuale che, non comprendendo il pluralismo costitutivo
dell'ambito politico, lo concepisce come un complotto ai suoi danni,
e prospettiva universale,
e contiene il paradosso per cui la prospettiva settaria critica nella
prospettiva universale proprio il suo essere inquinata dal
settarismo, cioè vi critica se stessa, ma nel contempo auspica la
soppressione della prospettiva universale come se fosse la
soppressione del settarismo. Rispetto all'afa dell'appartenenza, lo
scetticismo, l'atteggiamento dominante di ogni democrazia, appare
come una ventata liberatoria. Gli stessi scettici sono però accecati
sulla questione più importante, la questione filosofica della
verità.
Poiché
ha in ogni caso dalla sua parte delle evidenze, l'ideologia non è
mai infondata; il suo difetto è invece l'esclusività, cioè la
pretesa che le altre ideologie non siano altrettanto ben fondate su
evidenze. La realtà, figlia di polemos8,
è complessa e contrastante; è vano pretendere dalla filosofia la
sua riduzione alla semplicità di una tautologia; la logica stessa,
infatti, riconosce, oltre l’identità tautologica, la differenza,
la contraddizione e l'implicazione. La filosofia accetta la presenza
di un insieme di ideologie, ma non le abbandona alla loro arida
diversità rassegnandosi all'insuperabilità del falso, come fa lo
scetticismo, anzi assolve il compito di accordare l'universalità
semplice
dei settarismi nell'universalità concreta
del λόγος.
Solo a uno sguardo superficiale un insieme differenziato di
pregiudizi costituisce dunque l'autorizzazione all'atteggiamento
scettico. Ogni storia
della filosofia prima di Hegel (e dopo) è caduta vittima di questa
superficialità, e anche filosofi grandissimi hanno visto nella
pluralità delle filosofie soltanto
il sintomo della sua incapacità di elevarsi dall'opinione alla
verità, anziché il manifestarsi di un principio logico di
differenza non meno essenziale di quello d'identità. È pigrizia
intellettuale voler credere che la verità sia semplice come l’essere
parmenideo, che una filosofia debba consistere in un termine o in una
proposizione e che non debba abbandonarsi alla vicenda di una via
crucis interna. In questa sua
vicenda essa rende giustizia alla pluralità: ogni filosofia
autentica è così un'integrazione di fanatismi in una pluralità
interna, in cui è soppressa la loro incompatibilità. Questa
pluralità nell'unità è il significato vero di una delle voci più
scioccamente disprezzate della terminologia filosofica, del termine
«sistema».
L’idea
di Stato moderno è la forma che il sistema filosofico assume
nell'ambito dell'etica. Essa sorge quando Bodin, sotto l’ispirazione
degli ideali rinascimentali di tolleranza religiosa e di fronte
all'orrore delle guerre civili di religione, concepisce lo Stato come
sovrano
rispetto alle diverse chiese diffuse nel popolo. Che le diverse
chiese (cioè i diversi dogmi) siano indotte a convivere, a
costituire un insieme differenziato, ne riduce la pretesa di verità
esclusiva, ossia le riduce da pubbliche verità a convinzioni
private: esse si riconoscono universalità particolari e riconoscono
il diritto supremo
dello Stato ad accordale. Lo spazio pubblico, abbandonato dalle
religioni ferme alla loro universalità semplice ed esclusiva, è
riempito, non dallo scetticismo, ma dalla sovranità inclusiva che
lascia dispiegare la differenza necessaria, dall'universalità
concreta,
quindi superiore all'universalità monocorde delle singole
dogmatiche: ossia dalle leggi che è necessario rispettare affinché
ci sia compatibilità tra le differenti dogmatiche. Il pluralismo
emancipa la costituzione interna dello Stato dal legame naturale
della religione e la pone sulla base razionale del diritto. Questo è
ben chiaro al massimo teorico dell'eticità dello Stato: «È nella
natura della cosa che lo Stato adempia un dovere dando ogni appoggio
e garantendo protezione agli scopi religiosi della comunità, anzi,
poiché la religione è il momento che integra lo Stato per la
profondità più intima del sentimento, esigendo da tutti i suoi
membri che essi appartengano a una comunità ecclesiastica – a una
qualunque9,
perché lo Stato non si intromette nel contenuto, in quanto riguarda
l’interiorità della rappresentazione»10.
Che la differenza sia garantita dall’identità è l’essenza
razionale dell'autentico Stato etico, la legge che regola tutti gli
ambiti. La stessa insistenza con cui Hegel sottolinea che la
monarchia
costituzionale è la forma razionale dello Stato non è un rigurgito
medievale, ma la preoccupazione che il vertice dello Stato, la sua
identità come esistenza presente, sia espressione non di una
maggioranza o di una minoranza, cioè di un partito, ma di quella
volontà generale unanime
dalla cui formazione le differenze interne allo Stato traggono la
loro compatibilità, quella volontà generale, implicita
in ogni volontà particolare, che produce
il diritto come premessa di composizione dei contrasti tra i partiti.
Quest'attenzione
alla pluralità necessaria dello Stato rispetto all’intima
convinzione ha trovato un'eco in Benedetto Croce. Solo che la sua
dialettica dei distinti, dopo aver sussunto con grossolana
superficialità lo Stato a momento dell'economia, cioè dopo averlo
ristretto al principio dell’utilità,
ignorando che l’utilità non è affatto una categoria pratica ma
teoretica, commette il grave errore di non considerare il pluralismo
quintessenza della sovranità dello Stato, ma di concepirlo come una
particolare ideologia politica, come liberalismo11.
In questo modo egli nasconde il fanatismo proprio dell'ideologia
liberale. Il liberalismo, divenuto ormai senso comune, è l’errore
simmetrico a quello di Kant: mentre questi identifica la libertà con
il semplice dovere e ne rimanda a una sfera teologica il rapporto
necessario con il diritto, il liberalismo dimentica che i diritti
risultano
dal rispetto dei doveri
fissati dalle leggi positive; astratto dal dovere che lo produce, il
diritto dell’individuo è mistificato in un fatto metafisico, in
una natura soprasensibile dell'individuo; e come tutti i fatti
sovrasensibili è destinato a generare totalitarismo. Poiché i
diritti piovono all'uomo dal cielo oppure dalla sua natura concepita
con tutto l'ottimismo sognante di cui l'illuminismo è capace, non
c'è bisogno di uno Stato in cui diritti e doveri siano connessi
dalle leggi. Anzi, poiché percepisce il dovere delle leggi positive
essenzialmente come ricatto e imposizione esterna, il liberalismo non
solo considera lo Stato come un ostacolo da minimizzare,
respingendone innanzitutto l'imposizione fiscale, ma, contaminandosi
con temi socialisti, delira che la sua estinzione, l'abbattimento
delle frontiere, apra, anziché lo stato di guerra, l'epoca di
godimento indisturbato dei diritti; non percepisce che nella misura
in cui i doveri di cittadinanza vengono meno, vengono altrettanto
meno i diritti di cittadinanza e ci si ritrova nello stato di guerra.
«Totalitarismo» è
l'appellativo che i liberali rivolgono al fascismo e al comunismo. A
ragione. Lo Stato assicura il pluralismo e l'individualità in quanto
la sua legge sottomette tutti al principio del nesso tra doveri e
diritti. Il dominio della legge, che i governanti
stessi le siano sottomessi, è
assicurato dall'articolazione
dei poteri: poiché l'etica e la ragione sono concrete, ossia sono
l'accordo del differente, il potere è etico e razionale solo se è
differenziato in poteri. C'è però più di un modo di abolire la
differenziazione del potere, non solo l'Uno fascista o la Comune
rivoluzionaria che legiferano e insieme
eseguono e giudicano; ce n'è un secondo non meno foriero di
totalitarismo: l'irrigidimento dell'articolazione dei poteri fino
alla loro divisione.
L'ambiguità del termine «divisione», già rilevata da Hegel12,
è il sintomo di un totalitarismo liberale che si è infine
realizzato nella creazione di banche centrali dal potere monetario
supremo e indipendente, che, vanificati gli altri poteri, si fanno
strumento del fanatismo della proprietà. La cittadinanza è il primo
diritto, dunque anche il primo dovere: c'è una costituzione solo se
la si serve, e soltanto se c'è una costituzione l'interesse
particolare, essenzialmente la proprietà, può realizzarsi. Per
l'ideologia liberale tutto è invertito: la costituzione c'è per
natura, è superfluo il dovere di volerla, non ci sono doveri
politici, ma solo proprietà da accumulare e da godere. Essa fa
dell'eticità il mezzo della proprietà, senza comprendere che
appunto la proprietà è lo stato di natura e senza ricordare che
Locke stesso, dopo averne cantato l'idillio nel secondo capitolo del
suo trattato, nel nono capitolo lo riconosce come un immediato e
incontenibile mutare
nello stato di guerra: umiliandola a mezzo della proprietà, il
liberalismo dissolve la cittadinanza, ma così riattiva lo stato di
guerra, cioè abolisce la stessa proprietà13.
1
La confessione cattolica e quella protestante concordano nella
valutazione che l'arbitrio naturale è insufficiente alla salvezza
dell'uomo; discordano sul problema se l’arbitrio naturale possa
volere la grazia oppure questa non possa che operare alle sue
spalle.
2
Almeno su questo punto il pensiero di Nietzsche coglie nel segno.
3
Il fatto che le armi atomiche abbiano reso impossibile la
distinzione tra guerra e devastazione nel secondo Novecento ha avuto
come conseguenza l'impossibilità per gli Stati che le possiedono di
farsi guerra. Viceversa, la presente decadenza degli Stati può
avere come conseguenza non soltanto la diffusione della criminalità
finanziaria alla quale si è assistito finora, ma anche la
devastazione finale della Terra.
4
Per chi apprezza le etimologie, si può osservare che da λόγος
deriva lex.
– La definizione di uomo come animale
razionale, che
filosofie non riuscite disprezzano scioccamente, è esatta e
profonda, in quanto esprime con un nesso di differenti – animalità
e razionalità – la legge propria della condizione umana. –
Peraltro la teoria delle idee di Platone è la scoperta della natura
universale dei significati delle parole, dunque del loro carattere
legale; la contemplazione di questa legalità è la sua nozione di
dialettica. L’avere soltanto avvertito questa universalità,
l'averla trattata come un mistero, è l'insufficienza, ma anche il
fascino, dell’opera di Wittgenstein.
5
«Universale»
significa innanzitutto il semplice – come tale lo hanno pensato i
primi filosofi, lo stesso Parmenide; significa poi una collezione
completa di elementi, cioè “tutti” o “nessuno” – come
tale lo concepisce la logica formale; significa infine il nesso tra
differenti – come tale lo concepisce la grande filosofia da Kant a
Hegel. Questi tre significati sono presenti nel concetto di legge;
essa è infatti semplice rispetto ai casi che sussume, inoltre
riguarda ognuno, infine unisce determinazioni differenti.
6
Aristotele
ha colto con stupenda chiarezza questo nesso tra linguaggio e
libertà: « … l'uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce
indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l'hanno anche gli
animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la
sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a
vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole
e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto:
questo è, infatti, proprio dell'uomo rispetto agli altri animali,
di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e
dell'ingiusto e degli altri valori: il possesso di questi
costituisce la famiglia e lo Stato.» Aristotele, Politica,
Libro A, 2, 1253 a; trad. di R. Laurenti, Bari 1972.
7
Hegel, Lineamenti di
filosofia del diritto,
§ 261 n.
8
Cfr. il framm. 53 di Eraclito: «Πόλεμος
πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ
βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε
τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους
ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους»
(Di tutti polemos è padre, di tutti sovrano; e quelli rivelò dei,
questi uomini; quelli rese servi, questi liberi).
9
Enfasi nostra.
10
È la nota al § 270 dei Lineamenti
di filosofia del diritto
di Hegel. La nota prosegue: «Lo Stato sviluppato nella sua
organizzazione, dunque forte, qui si può comportare in modo tanto
più liberale, può trascurare del tutto singolarità che lo
colpirebbero e tollerare al suo interno perfino comunità (qui certo
è importante il numero) che, per la loro religione, non riconoscono
i doveri diretti verso di esso, affidando cioè i loro membri alla
società civile sotto le sue leggi e accontentandosi di un
adempimento passivo dei doveri diretti, mediato eventualmente da
scambio e sostituzione».
11
Cfr. B. Croce, La
concezione liberale,
in Etica e politica,
Milano 1994, pp. 331 – 341.
12
Cfr. Lineamenti di
filosofia del diritto,
§ 272 n.
13
Questo è l'enorme significato del bail
in: il liberalismo
giunge a negarvi l'unico valore che consideri sacro, a mostrarvi la
contraddizione della propria essenza.
Diritti dell' UOMO e Doveri degli Stati
RispondiElimina- Per una nuova Etica pubblica -
. . .
Al fine di 'edificare'
Una Democrazia Integrale,
per il rispetto dei diritti dell' Uomo,
va ricordata
la lezione fondamentale
di NORBERTO BOBBIO
...
"La Dichiarazione dei Doveri degli Stati
potrebbe essere la soluzione
del <> del terzo millennio :
il rispetto dei diritti umani"
( NORBERTO BOBBIO )