Autocritica
Ripubblico
un intervento scritto nel 2008 assieme a Bontempelli. In esso
cercavamo di indicare quali potevano essere i punti fondamentali di
una nuova forza politica in grado di lottare contro il degrado civile
al quale ci sta portando l'attuale organizzazione sociale.
Rileggendolo, mi sembra di poter affermare che le tesi fondamentali
in esso esposte abbiano retto al passare del tempo, e che i punti che
avevamo all'epoca delineato siano ancora validi. Certo, nel
frattempo ho aggiunto alle mie riflessioni la tematica dell'uscita da
euro/UE, ma non vedo nessuna contraddizione: quest'ultima tematica si
inserisce senza problemi nello schema generale a suo tempo delineato.
Sulla tenuta intellettuale, teorica, di quanto scritto da Massimo e
me all'epoca, non mi pare ci sia quindi nessuna autocritica da fare.
Diverso è il discorso per quanto riguarda la valutazione politica di
questo documento. Nello scriverlo, infatti, assumevano implicitamente
che avesse appunto senso scriverlo: cioè che vi fosse una
possibilità concreta di nascita di una forza politica avente le
caratteristiche delineate, forza politica alla quale le nostre
riflessioni generali potevano essere utili. Rispetto a questa
valutazione implicita penso adesso di poter affermare che ci eravamo
sbagliati. In questi anni ho partecipato direttamente ad alcuni
tentativi di costruzione di una forza politica di quel tipo, e altri
ne ho seguiti indirettamente. Si è sempre trattato di tentativi
generosi, portati avanti da persone oneste e serie, che non hanno in
sostanza mai portato a nulla, dando luogo, nei casi migliori, a
piccole realtà di nicchia del tutto ininfluenti (nei peggiori, sono
esplosi fra scontri e dissapori vari). Si potrebbero fare lunghe
analisi per capire i motivi di tutto ciò, e spero di poter dare
qualche contributo a questo proposito in futuro. In ogni caso, la
discussione su quali fossero nel 2008 le possibilità concrete di
costruzione di una forza antisistemica del tipo delineato, è ormai
oggi una questione del tutto accademica: infatti, qualsiasi fosse la
situazione nel 2008, è chiaro che l'entrata in campo del Movimento 5
Stelle ha cambiato radicalmente i dati del problema, togliendo ogni
spazio politico ad una formazione politica antisistemica. Ma allora,
oggi in Italia, che fare? Se al verbo “fare” diamo un significato
ampio, ci sono ovviamente moltissime cose che si possono fare, per
cercare di diffondere le idee “antisistemiche”: usare la rete,
parlare con gli amici e i conoscenti, organizzare incontri, gruppi di
studio e di discussione, e così via: ognuno può immaginarsi le
azioni di questo tipo più adatte alle proprie possibilità. Se
invece per “fare” si intende, in senso più ristretto, l'azione
politica, allora credo di poter concludere che l'unica cosa che si
può fare, oggi in Italia, è o entrare nel Movimento 5 Stelle oppure
cercare in qualche modo di influire sul suo dibattito interno. Con
questo non intendo dire che si tratti di qualcosa di facile, o che
ci siano molte possibilità di trasformare il M5S in un vero
movimento politico anticapitalistico: dico solo che sono uguali a
zero le possibilità di costruire qualcosa di sensato al di fuori del
M5S. Questo, almeno nel breve e medio periodo, perché in questa fase
il M5S ha occupato lo spazio politico dell'opposizione. E quello che
succede nel lungo periodo, non credo ci sia bisogno di ricordarlo ai
lettori di questo blog. Ho tardato a rendermi conto di questo, cioè
del fatto che sono nulle le possibilità di costruzione di una forza
politica antisistemica esterna al M5S, e su questo faccio la mia
autocritica.
(Marino
Badiale)
Prima
che sia troppo tardi
Marino
Badiale, Massimo Bontempelli
1.
I conti tornano.
Le
elezioni politiche dell’aprile 2008 segnano un momento importante
nella storia del nostro paese. Si tratta della fine della sinistra in
Italia. Nel Parlamento italiano uscito da quelle elezioni non è
presente nessun partito che si definisca, o possa essere definito,
come “sinistra”. Non si tratta di un fatto congiunturale.
Naturalmente continueranno ad esistere realtà politiche, sociali,
culturali che si definiranno “sinistra”, e può anche darsi che
tornino ad essere presenti in Parlamento. Ma si tratterà di realtà
sempre più secondarie e residuali. La fine della sinistra ha infatti
una radice profonda, strettamente legata ai caratteri della fase
attuale e alla natura essenziale della sinistra stessa. Come abbiamo
cercato di mostrare ne “La sinistra rivelata”1,
la sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua
esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè
la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per
l’emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo
economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile
perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano
compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi
decenni. La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai
di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo”
rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed
emancipazione si separano e si contrappongono. Mentre fino a pochi
decenni or sono lo sviluppo economico e tecnologico poteva davvero
portare al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti
subalterni, oggi sviluppo significa attacco ai redditi e ai diritti
conquistati dai ceti subalterni nella fase precedente, significa
attacco ai territori per le grandi opere necessarie allo sviluppo
stesso, significa degrado ambientale e sociale. In questa situazione
la posizione che definisce la sinistra, quella cioè di volere
l’emancipazione dei ceti subalterni attraverso lo sviluppo, non è
più possibile e appare come una contraddizione in termini. O si
sceglie lo sviluppo, e allora, anche se ci si illude di essere
progressisti o magari addirittura anticapitalisti, nella realtà si
sceglie la de-emancipazione dei ceti subalterni e il degrado
ambientale e sociale, oppure si sceglie l’emancipazione dei ceti
subalterni, e in tal caso occorre combattere lo sviluppo fine a se
stesso e porsi nell’ottica delle decrescita.
Questo
carattere contraddittorio della nozione stessa di sinistra, nella
fase attuale, ha potuto essere rimosso per qualche tempo. Lo
strumento della rimozione è stato, per lunghi anni,
l’antiberlusconismo ossessivo. Incapaci di dare un senso
all’esistenza delle proprie organizzazioni, che non fosse
l’attaccamento personale al potere e ai suoi vantaggi, i ceti
dirigenti della sinistra italiana hanno posto il rifiuto di
Berlusconi come unico contenuto e collante della propria parte
politica. Ma nel momento in cui il Partito Democratico di Veltroni ha
scelto di presentarsi da solo alle elezioni, l’antiberlusconismo ha
funzionato contro la sinistra (cioè la sinistra arcobaleno). Se per
anni si ripete che la cosa fondamentale, alla quale tutto il resto va
subordinato, è impedire l’accesso al potere di Berlusconi, se in
nome di questo si sacrifica ogni contenuto reale della propria
politica, è chiaro che i partiti di sinistra finiscono per perdere
il proprio elettorato: nella situazione in cui ci si è trovati alle
politiche del 2008, chi era legato ai contenuti reali di una politica
di sinistra si è astenuto (o ha espresso un ininfluente voto per
piccole formazioni di estrema sinistra) perché ha capito che tali
contenuti verranno sempre e comunque sacrificati alla necessità
delle alleanze antiberlusconiane, mentre chi ha davvero introiettato
la necessità di combattere Berlusconi come fine principale della
politica ha votato PD.
Questa
scomparsa della sinistra non ci addolora. Essa sgombra il campo dagli
equivoci, fa chiarezza, e la chiarezza è sempre benvenuta. La realtà
ha fatto tornare i conti, cancellando dalla storia ciò che era ormai
un’impossibilità logica. Non si tratta ora di ricostruire una
nuova sinistra (o un nuovo partito comunista), che sarà finalmente
quella buona, quella giusta, quella vera. Si tratta invece di capire
come sia possibile far vivere gli ideali di emancipazione, giustizia,
solidarietà, in una situazione in cui non è più possibile la
sinistra.
L’attuale sistema sociale ed economico rappresenta la negazione degli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà. Ben più di questo, esso mostra in profondità tratti distruttivi e mortiferi, che ne fanno il nemico dell’umanità. La difesa degli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà, può essere pensata solo come contrasto e opposizione radicale all’attuale organizzazione sociale ed economica. Ma questa opposizione non può essere fatta in nome di un progetto di società alternativa. Non abbiamo un tale progetto, e non è pensabile che esso possa essere elaborato in una situazione in cui le forze antagoniste sono ultraminoritarie e ininfluenti. L’unica politica realistica è una politica di opposizione guidata da principi alternativi a quelli oggi dominanti, una politica che porti a spezzare, dove è possibile, la logica che regge l’attuale sistema socioeconomico, e affronti le situazioni inedite che così si creeranno seguendo i propri principi alternativi, indirizzando la società lungo vie che oggi non è possibile prevedere. Ma per iniziare anche solo a pensare ad una tale politica, occorre riflettere sulle caratteristiche più significative della realtà attuale. E occorre, come diceva Fortini, scrivere i nomi dei nemici. Fra questi vi sono, oggi in Italia, i componenti della Casta.
Nel nostro sistema sociale ed economico non c’è più nessuno spazio per la politica intesa come sfera in cui si confrontano idee diverse sulla direzione da imprimere allo sviluppo sociale. Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto. A cosa si riduce allora la politica, se si accettano gli assiomi dell’attuale sistema sociale ed economico? A pura e semplice amministrazione dell’esistente, a competizione fra cordate di amministratori, il cui unico ruolo, ben pagato, è quello di gestire il consenso sociale alle politiche economiche neoliberiste. Ma tali politiche comportano la distruzione di tutte le conquiste (crescita effettiva dei salari, Welfare State) ottenute dai ceti popolari nella fase riformistico-socialdemocratica della storia del mondo occidentale, la fase del secondo dopoguerra. La perdita di diritti e redditi, il peggioramento lento e costante della qualità della vita nei paesi occidentali prosegue a ritmo costante qualunque sia il colore della parte politica al governo. Far accettare questa situazione di lento depauperamento, rendere impossibile la protesta o incanalarla in direzioni che non mettano in questione i dati fondamentali dell’attuale sistema economico e sociale: è questo il ruolo del ceto politico, indifferentemente di destra, di sinistra o di centro.
Poiché le contrapposizioni interne al ceto politico non hanno più nessuno spessore politico o ideologico, e sono semplici scontri sulla distribuzione di posti e prebende fra gang contrapposte, è corretta la caratterizzazione del ceto politico come Casta.
La Casta è al servizio della dinamica distruttiva del mondo attuale, e va combattuta come nemica della civiltà e della società. Il fatto che essa non decida nulla (perché tutto è deciso dall’economia) non significa che essa sia irrilevante: è un’articolazione fondamentale dell’attuale sistema sociale ed economico, è l’ingranaggio che deve conquistare il consenso di masse sempre più impoverite sia sul piano materiale sia su quello culturale.
E’ chiaro, lo diciamo per sgombrare il campo da possibili equivoci, che la lotta contro la Casta non è di per sé lotta contro i fondamenti dell’attuale sistema socioeconomico, non è di per sé lotta rivoluzionaria. Ma in ogni situazione di lotta contro un potere dominante, si può lottare solo contro quelle articolazioni del potere che il potere stesso ci contrappone. La lotta dei vietnamiti contro l’esercito USA non andava a colpire il cuore del capitalismo USA (e infatti i vietnamiti hanno vinto ma il capitalismo USA è vivo e vegeto), ma questo non era certo un buon motivo per non farla. Oggi in Italia occorre lottare contro la Casta perché è la Casta l’arma delle oligarchie per l’attacco ad ogni possibilità di emancipazione della classi subalterne.
Esiste uno spazio sociale nel quale agire questa lotta contro la Casta? Esso esiste, a nostro avviso, e si manifesta oggi come rifiuto generalizzato della Casta, che la Casta stessa denomina “antipolitica” (denominazione ovviamente menzognera come tutto quanto proviene dalla Casta: è la Casta a negare la politica, a rappresentare la vera antipolitica). Ma su quali punti si può tentare di mobilitare questo diffuso rifiuto della Casta politica, per far sì che esso esca dalla fase della rabbia silenziosa ed impotente?
3.
Assi di riferimento.
Un
primo punto è quello della difesa dei territori da progetti
invasivi, e quindi il sostegno a tutti quei movimenti (NO TAV, NO
ponte sullo stretto, NO rigassificatori ecc.) che nascono in
opposizione a progetti economici invasivi e devastanti per gli
equilibri del territorio stesso. Questa invasività e queste
devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno
meccanismo dello sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno
dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture
produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti,
strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre
smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo
(altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese
piccolo e sovrappopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso
dalle realtà fisiche legate allo sviluppo. Non essendoci più spazio
libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono
inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata,
mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove
strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del
territorio, sconvolgendola. L’opposizione da parte degli abitanti
del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non
necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche
generali, ma, questo è il punto cruciale, essa va nella direzione
della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non
averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della
critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte,
dando ad esse un valore e una prospettiva generali. Al di fuori di
tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e
isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono
cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa
critica sta appunto nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè
la decrescita, come interesse generale del paese.
Una
forza politica che intenda opporsi all’attuale sistema
socioeconomico dovrebbe quindi assumere la critica allo sviluppo come
asse fondamentale della propria azione. Si tratta di una scelta
cruciale per ricollegarsi alle tante realtà di lotta che stanno
sorgendo in Italia e che si diffonderanno sempre di più.
Un
secondo punto si collega a un altro dato profondo della realtà
contemporanea, cioè il progetto di dominio globale del pianeta, e in
particolare delle zone rilevanti per il controllo delle risorse,
progetto che gli USA hanno iniziato a mettere in atto a partire dagli
ultimi anni dell’amministrazione Clinton, e in maniera evidente a
tutti dopo l’11 settembre. Un simile progetto di dominio
inevitabilmente genera resistenze, e nella situazione attuale la
repressione delle resistenze comporta la messa in mora, nei paesi
occidentali, della rete di diritti e garanzie che la civiltà
borghese aveva elaborato come diritti del cittadino: l’habeas
corpus, il diritto ad un giusto processo, l’indipendenza della
magistratura. Sono tutti aspetti della civiltà giuridica borghese
che la misure legislative adottate negli USA dopo l’11 settembre
(dal “Patriot Act” in poi) hanno cominciato ad attaccare e
indebolire. Analoghi fenomeni stanno avanzando negli altri paesi
occidentali (si pensi alle “extraordinary renditions”). Non si
tratta di una tendenza momentanea destinata a rientrare, ma di un
aspetto profondo e fondamentale della realtà attuale. Se è così,
allora una linea di resistenza è rappresentata dalla difesa dello
Stato di diritto.
Un
altro aspetto decisivo del capitalismo contemporaneo è l’ossessiva
ricerca del profitto senza limiti e a breve e brevissimo termine.
Questo non è possibile rimanendo nell’ambito della legge (della
stessa legge borghese!): di qui il carattere criminale di una parte
sempre più grande dell’economia capitalistica contemporanea.
Criminale nel senso di essere legata a pratiche di truffa e di
corruzione, e nel senso di lasciare uno spazio crescente all’economia
delle grandi organizzazioni criminali, che si confonde sempre di più
con quella “legale”. Gli esempi sono innumerevoli. Basti pensare
ai collegamenti che si devono instaurare fra imprese industriali del
nord e camorra per lo smaltimento illegale dei rifiuti, secondo le
denuncie dell’ormai famoso “Gomorra” di Roberto Saviano. Basti
pensare a come il commercio delle armi porti necessariamente ad
analoghi collegamenti, visto che le armi iniziano con l’essere
prodotte legalmente da rispettabili industrie e finiscono poi in mano
a criminalità e gruppi armati di vario tipo. Basti pensare a quali
devono essere i legami che rendono possibili la “ripulitura”
dell’immenso fiume di denaro sporco prodotto da attività come
appunto il commercio di armi o la droga, e a come questo fiume di
denaro accresca, in questi tempi di capitalismo finanziario, il
potere di chi, nel mondo dell’economia “ufficiale”, riesce a
sfruttarlo. E si potrebbe continuare notando come la corruzione sia
ormai un aspetto strutturale dell’economia contemporanea. Tutto ciò
implica che i ceti dominanti nel mondo contemporaneo hanno sempre più
bisogno di disattivare il controllo di legalità sui grandi crimini
economici. Anche in questo caso, dunque, la richiesta di difendere lo
Stato di diritto ha un carattere di resistenza e ostacolo al
dispiegamento della logica dell’attuale sistema sociale ed
economico.
E’
probabile che all’analisi appena svolta venga mossa, specie da
persone di formazione marxista, l’obiezione che nei caratteri da
noi sottolineati non c’è nulla di nuovo. I ceti dominanti dei
paesi occidentali avanzati, si dirà, hanno sempre sospeso i diritti
individuali quando si trattava di reprimere movimenti che li
attaccassero seriamente, e hanno sempre intrallazzato ai limiti
della legalità, o anche oltre tali limiti, quando questo appariva
possibile e conveniente. Questa obiezione manifesta secondo noi una
profonda incomprensione della realtà attuale. Il pensiero che la
ispira appare analogo a quello di chi affermi che, poiché da che
mondo è mondo gli esseri umani hanno sempre usato strumenti omicidi
per farsi la guerra, e hanno sempre cercato di inventare l’arma
migliore e più efficace, allora l’invenzione della bomba atomica
non cambia nulla di sostanziale, perché si tratta in fondo pur
sempre dell’invenzione di un’altra arma. Allo stesso modo, è
verissimo che i caratteri di crisi della legalità, che noi abbiamo
individuato nella fase attuale, si possono ritrovare in fasi
precedenti delle società capitalistiche, ed è pure vero che gli
aspetti fondamentali del rapporto sociale capitalistico sono sempre
gli stessi, ma le dimensioni in cui si presentano oggi quei caratteri
ne fanno qualcosa di inedito che inaugura appunto una fase nuova.
Oggi la sospensione dei diritti individuali non è una risposta
estrema ad una crisi imminente o in atto, ma si pone esplicitamente
come dato permanente delle nostre società, senza che al loro interno
si levino movimenti di protesta. La simbiosi fra economia legale ed
economia illegale non è un dato episodico o legato a situazioni
locali, ma è diventata la normale modalità di funzionamento
dell’economia contemporanea.
Possiamo
concludere che una forza politica che voglia contrastare la folle e
distruttiva direzione di marcia della nostra società dovrebbe, oggi
in Italia, scegliere come assi di riferimento la difesa del
territorio e la difesa dello Stato di diritto. A questi assi di
riferimento non sarebbe poi difficile collegare la difesa complessiva
dei diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase
“socialdemocratica” del capitalismo del secondo dopoguerra.
La
tesi che vogliamo affermare con forza a questo punto è che il
miglior quadro possibile in cui inquadrare questo indirizzi è, in
Italia, quello rappresentato dai valori e dai principi che sono stati
sintetizzati nella nostra Costituzione.
4.
Perché la Costituzione.
La
Costituzione della Repubblica italiana, formalmente (ma soltanto
formalmente) tuttora in vigore, è nata come alto compromesso tra le
tre grandi forze ideali, culturali e politiche che avevano alimentato
la lotta antifascista, vale a dire quella laico-risorgimentale
(rappresentata dai partiti liberale, repubblicano e d’azione),
quella marxista (rappresentata dai partiti socialista e comunista), e
quella cattolica (rappresentata dalla democrazia cristiana). Il
terreno del compromesso è stato, trattandosi di una Costituzione,
quello istituzionale, nel senso che aspirazioni laiche, cattoliche e
marxiste dovevano trovare una espressione curvata sul piano giuridico
ed una reciproca limitazione nelle norme regolatrici delle nuove
istituzioni statuali che dovevano venire edificate.
Il
compromesso allora perseguito nell’Assemblea costituente risultò
alla fine, quando un lungo e schietto applauso quasi generale
sottolineò l’approvazione della carta costituzionale il 22
dicembre 1947, riuscito sul piano dei principi ed avanzato sul piano
sociale e culturale.
La
riuscita del compromesso istituzionale sul piano dei principi risulta
evidente da una semplice lettura degli articoli della carta, i cui
principi da un lato lasciano trasparire una specifica genesi ideale
(ad esempio, liberale per l’articolo 13, cattolica per l’articolo
29, marxista per l’articolo 43), ma dall’altro sono incorporati
in prescrizioni normative non ascrivibili univocamente ad un
determinato indirizzo ideologico e politico, ed accettabili da
diverse angolazioni sulla base di pure ragioni di giustizia.
La
natura storicamente avanzata del compromesso costituzionale appare
chiara dalla contestualizzazione della Costituzione della Repubblica
italiana nel suo tempo storico. Essa entra in vigore il 1° gennaio
1948, sette mesi dopo la fine dei governi di unità nazionale con
l’estromissione totale dei comunisti e dei socialisti, tre mesi e
mezzo prima della disfatta elettorale del Fronte popolare, e
nell’ambito di un periodo di controffensiva padronale nelle
fabbriche che inchioda la classe operaia ad un duro sfruttamento e
allarga grandemente la disoccupazione al suo interno. In questo
contesto storico una carta costituzionale che esige, oltre
all’eguaglianza formale di fronte alla legge, anche elementi di
eguaglianza sostanziale, che vieta l’iniziativa economica privata
quando sia in contrasto con l’utilità sociale, che prevede
numerosi casi di possibile statalizzazione delle attività
economiche, esprimeva statuizioni più avanzate dei rapporti di forza
allora esistenti, tanto è vero che rimase fin dall’inizio in larga
misura inattuata. Per fare un altro esempio, si pensi a come il
partito dei cattolici, conquistata nel 1948 la maggioranza assoluta
in Parlamento, si sia trovato di fronte al limite di articoli
costituzionali che prevedono la scuola pubblica in ogni ordine e
grado, il divieto di finanziamenti statali delle scuole private, la
tutela dei figli nati fuori dal matrimonio.
Se
il compromesso costituzionale era nel 1948 più avanzato della
situazione sociale, politica e culturale coeva, oggi è a un livello
semplicemente incommensurabile, in termini di civiltà, di giustizia,
di tutela della persona, rispetto a quello in cui si colloca il
concreto esercizio dei poteri dello Stato e dell’economia, al punto
che, nel contesto dell’attuale organizzazione sociale ed economica
e delle miserabili caste partitiche che la servono, l’attuazione
della carta costituzionale configurerebbe una vera e propria
rivoluzione economica, sociale e politica. L’incapacità di capire
questo punto decisivo è indice di profondi limiti da parte delle
realtà politiche e culturali (oggi disperse e minoritarie) che
vogliono opporsi alla dinamica distruttiva del mondo contemporaneo.
Come si potrebbe altrimenti rinunciare a presidiare una trincea così
avanzata come quella della carta costituzionale? Certo, occorrerebbe
farlo senza minimamente confondersi con quei difensori della
Costituzione che, insistendo solo sui principi di funzionamento ed
equilibrio dei poteri dello Stato conformi alle norme della seconda
parte del documento, tralasciano il rispetto dei principi della prima
parte. In questo modo la pretesa difesa della Costituzione si riduce
ad una intransigenza antiberlusconiana piuttosto grottesca, quando si
coniuga, ad esempio, con il supporto, o comunque la non opposizione,
alla partecipazione alla guerra infinita statunitense e alla spesa
militare per sistemi d’arma di chiara valenza offensiva, in
spregio all’articolo 11 della carta. Certo, occorre non coltivare
illusioni giuridiciste: oggi non servono, alla difesa della
Costituzione, le cosiddette istituzioni di garanzia, come la Corte
costituzionale, la commissione affari costituzionali del parlamento,
la Presidenza della Repubblica. La partita non si gioca sul terreno
giuridico, dato che chi dovrebbe garantire su quel terreno è interno
a quelle stesse oligarchie partitocratiche che hanno manomesso la
Costituzione.
Quel
che servirebbe sarebbe incoraggiare e promuovere lotte in difesa dei
diritti del lavoro (contro il precariato, la sottoretribuzione, gli
orari eccessivi, i sistemi di appalto), in difesa della vivibilità
del territorio (contro le cementificazioni speculative, le opere
dissestanti, le emissioni avvelenatrici, la valanga dei rifiuti), per
la demercificazione dell’economia (con più beni conviviali e
locali, meno consumo di merci e di energia, e quindi meno produzione
di rifiuti), per la definanziarizzazione dell’economia (contro lo
strapotere di banche e società speculative), per un più rapido
esito dei processi penali e civili (senza barriere di accessibilità
e di costo per i soggetti socialmente deboli), contro mafie e
corruzioni, inscrivendo tutti questi obiettivi nell’attuazione
della nostra Costituzione.
I
vantaggi di una simile impostazione sarebbero molteplici e rilevanti:
1) proporre obiettivi di giustizia sociale e di salvaguardia
ambientale sotto forma di principi costituzionali da attuare
sottrarrebbe tali obiettivi alle definizioni e agli schieramenti
correlati allo spettro politico esistente ed a cascami di ideologie
oggi vuote di contenuti (liberalismo, cattolicesimo sociale, fascismo
“di sinistra”, comunismo), rendendoli maggiormente capaci di
saldarsi alle ragioni effettive di malcontento, a esperienze vive di
lotta, al rifiuto della Casta che serpeggia nel paese. 2) La carta
costituzionale è, sia pure soltanto formalmente, legge dello Stato,
anzi legge fondamentale dello Stato, cui tutta la legislazione
ordinaria sarebbe tenuta a conformarsi. Ovviamente ciò non è in
alcun modo determinante, ma altrettanto ovviamente chi lotta per
obiettivi prescritti da una legge almeno formalmente in vigore è
meno svantaggiato di chi lotta per obiettivi preclusi dalla legge.
3) I principi costituzionali sono talmente avanzati rispetto allo
stato attuale dei rapporti di forza fra le classi ed al livello
culturale delle masse in via di impoverimento, e così contrari alla
logica di funzionamento della società contemporanea, che la loro
prassi attuativa sarebbe insieme legalitaria e rivoluzionaria. Basti
pensare a come, basandosi sulla Costituzione, sia possibile
rivendicare il diritto di ogni cittadino al lavoro retribuito, da
parte dello Stato se i privati e il loro “mercato” mantengono la
disoccupazione (articolo 4), oppure la tutela da parte dello Stato
della salute non di ogni cittadino, ma di ogni individuo umano,
(articolo 32), oppure il diritto di ogni lavoratore ad una
retribuzione che gli assicuri un’esistenza libera e dignitosa
(articolo 36), o la piena parità di trattamento del lavoratore e
della lavoratrice (articolo 37), o la soppressione dell’iniziativa
economica privata là dove essa leda o la sicurezza o la dignità del
lavoratore (articolo 41). E si potrebbero fare altri esempi.
Quale
dovrebbe essere il modo concreto di utilizzare le potenzialità
insite nella nostra Costituzione? Non si tratta, a nostro avviso, di
creare una associazione per la difesa della Costituzione o dello
Stato di diritto. Questo per due motivi. Il primo è che si difende
qualcosa che più o meno è presente e sotto attacco, mentre la Casta
ha ormai completato l’opera di svuotamento della Costituzione, per
quanto essa resti formalmente vigente. E’ ben noto che la
Costituzione è rimasta largamente disapplicata fin dall’inizio,
specie per quanto riguarda i suoi aspetti più avanzati sul piano
sociale. Negli ultimi decenni questo processo di esautoramento
sostanziale è arrivato a compimento: basti pensare a come l’Italia
venga ormai normalmente coinvolta in teatri di guerra, in spregio
all’articolo 11, o a come vengano stravolti perfino gli aspetti di
equilibrio istituzionale, per esempio esautorando il potere del
Presidente della Repubblica di scegliere la persona alla quale
affidare l’incarico per la formazione del governo2.
Oppure basti pensare a come, nei decenni del dopoguerra, l’obiettivo
della piena occupazione (che, senza essere esplicitamente inserito
nel testo costituzionale, è chiaramente sottinteso negli articoli
che riguardano il tema del lavoro) sia stato effettivamente uno degli
obiettivi dell’azione di governo, e come invece oggi la
disoccupazione, al di là di esercizi retorici, sia nella sostanza
accettata come un dato di fatto.
Il
secondo motivo è che una “associazione per la difesa di” ha
senso quando si parla di questioni in qualche modo settoriali, mentre
i principi che hanno ispirato la Costituzione hanno oggi un valore
generale.
Quello
che ci sembra necessario oggi non è dunque una “associazione per
la Costituzione”, ma un movimento politico che si ispiri ai
principi della Costituzione e ne sappia trarre un programma politico.
Gli articoli della prima parte della Costituzione non sono un tale
programma, ma i principi che li ispirano possono fornire i valori e
stabilire i vincoli di un programma politico.
4.
Prima che sia troppo tardi.
Il
nostro paese sta attraversando una crisi gravissima. Non si tratta
solo del declino dell’economia ma del degrado sociale, del
predominio della criminalità, del peggioramento di ogni aspetto
della vita sociale. Questo degrado è una conseguenza dei meccanismi
distruttivi dell’attuale organizzazione economica e sociale, che va
quindi combattuta da chi si ispiri a ideali di giustizia,
emancipazione e solidarietà. Il principale nemico contro cui
combattere è, oggi in Italia, la Casta politica. La lotta contro la
Casta e, dietro essa, contro l’attuale sistema economico e sociale,
può essere fatta con qualche speranza di successo da un movimento
politico che abbandoni ogni richiamo a ideologie ormai prive di
agganci con la realtà (come il comunismo) e che si ispiri invece ai
principi e ai valori della nostra carta costituzionale. Solo in
questo modo c’è almeno la speranza di uscire dalla sterile
contrapposizione fra estremismo ultraminoritario e accettazione
dell’esistente, e di incontrare le esigenze e le speranze dei tanti
che vivono il degrado sulla propria pelle, con rabbia e angoscia
impotente. Non c’è molto tempo. L’acuirsi del degrado porterà
necessariamente alla crescita del malessere. Se le forze che si
ispirano a giustizia, solidarietà, emancipazione non riescono a dare
uno sbocco a questo malessere, possiamo ipotizzare una crisi dagli
esiti imprevedibili nei particolari, ma complessivamente negativi. I
casi dell’Argentina e della Jugoslavia ci ricordano ciò che può
succedere a paesi grandi e apparentemente solidi. Alla fine di
“Underground”, lo struggente film che Kusturica ha dedicato alla
storia della Jugoslavia e alla sua dissoluzione, una voce fuori campo
ripete la frase “io avevo un paese”. Parla della Jugoslavia. Non
vogliamo dover ripetere la stessa frase, fra qualche anno, per
l’Italia. E’ l’unico paese che abbiamo.
Genova-Pisa,
maggio 2008.
1
M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore,
Bolsena 2007.
2
E’ il risultato
del fatto che nelle recenti elezioni gli schieramenti indicavano
sulla scheda il nome del candidato premier. Senza dilungarci in
questioni giuridico-istituzionali, facciamo solo notare che si
tratta si una innovazione che rafforza l’esecutivo a scapito degli
altri poteri istituzionali, introducendo squilibri che
prevedibilmente verranno risolti con ulteriori rafforzamenti
dell’esecutivo.
Gent.mo prof. Badiale, lei pensa che il m5s sia influenzabile? Ci credevo agli inizi. Ora ho molti dubbi, ma vorrei una sua autorevole opinione sul come influenzarlo.
RispondiEliminaPenso che dipenda molto dalle diverse situazioni. C'è chi può avere per esempio contatti personali, chi magari a livello locale ha fatto delle lotte assieme ai grillini. La casistica è molto ampia. In generale non penso che sia un compito facile, però mi sembra che, per esempio, sul tema dell'euro il M5S abbia avuto una evoluzione, il che significa che tutto quanto è stato detto e scritto in questi anni qualche influenza l'ha avuta.
EliminaCredo che il fatto di non essere riusciti a costruire un partito politico sia il non essere riusciti a creare una massa critica di persone, ma soprattutto di gruppi già esistenti che riescano a trovare un denominatore comune che contraddistingua la loro azione.
RispondiEliminaPer esempio come per i referendum sull'acqua di qualche anno fa.
Bisogna avere una idea generale da progandare e trovare in tutti i campi dei sostenitori.
In effetti Podemos e Syriza sono nati così, anche se per Syriza la traiettoria è stata a dir poco deludente, per non dire peggio.
Ce la farà il m5s a rappresentare una forza di opposizione anche perchè di governo la vedo per ora un po' dura?
Credo però che una forza, non per forza in natura di partito, possa in effetti fare da pungolo non solo per il m5s.
Tante volte è più positivo avere una forte opposizione che essere direttamente al governo.
Io credo che un movimento culturale di sinistra con parole chiare ed esponenti in grado di portare avanti nella società e nella cultura certe idee potrebbe fare alla lunga la differenza.
Perchè non bisogna dimenticare che bisogna ricostruire una opinione pubblica devastata da buoni 30 anni di propaganda neoliberale e questo non si contrasta con 2 slogan e un partito politico.
Credo che il lavoro culturale sarà decisivo, forse così si riusciranno a costruire quelle forze che magari tra qualche anno riusciranno a costruire, magari cercando alleanze a tutto campo nella società e nei gruppi sociali, una vera opposizione in forma di partito politico.
Credo che il lavoro culturale sia fondamentale.
Riccardo.
Credo che la situazione sia più fluida di quanto temuto da Badiale. Non dimenticate che le demoplutocrazie occidentali sono un carrozzone sempre più vuoto interiormente; i partiti-azienda non hanno più militanti, sono un intreccio di bande clientelar-mafiose percorse da faide perpetue, che dipendono da un uomo-spettacolo per incassare consenso elettorale. Sono costrutti fragili: Se vanno via Renzi, Grillo e Berlusconi i tre principali partiti nazionali hanno buone probabilità di sfasciarsi nel giro di pochi mesi. La crisi si avvita su se stessa e nessuno fa nulla perché i padroni del vapore ne sono i beneficiari. Il sangue versato nelle guerre petrolifere sta cominciando a tornare al mittente. L'occidente è marcio le mele marce si aprono d'improvviso.
RispondiEliminaCaro Badiale, premesso che lo scrivente è un vecchio baggiano genovese, le
RispondiEliminarispondo proprio con un suo splendido articolo scritto giovedì 20 febbraio 2014
"Perchè la gente non si ribella?".
Va bene anche Grillo,ma non è che il degrado civile ( parole sue ) ce lo portiamo
dentro come un bubbone collettivo? suo GFC