(M.B.)
Uno sguardo all'indietro
M.Badiale, M.Bontempelli, F.Dinucci
Modo
di produzione, Storia.
Nella tradizione marxista la nozione di “modo di produzione”
presuppone e giustifica un atteggiamento che potremmo qualificare
come “riduzionismo economico”: la storia e la società umane
vengono in sostanza ridotte a variabili dipendenti rispetto alla
sfera della produzione materiale, a effetti dei quali tale sfera è
la causa, e il modo di produzione è inteso appunto come la forma
organizzativa della produzione materiale. La sfera della produzione
materiale, secondo le note metafore, è la “struttura”, la solida
base sulla quale si eleva la “sovrastruttura” politica, giuridica
e culturale. La storia è storia del succedersi dei diversi modi di
produzione, e il motore ultimo di questa evoluzione (la lotta di
classe, il potenziamento delle forze produttive, etc.), è sempre
collocato entro il modo di produzione. Sono le contraddizioni interne
alla logica di uno specifico modo di produzione a indurre la sua
crisi e la sua sostituzione con un altro modo di produzione, cosicché
ciascun modo di produzione appare destinato a trasmutarsi in quello
successivo e la storia appare retta da un meccanismo deterministico
che garantisce un progresso ineluttabile e la vittoria finale del
proletariato.
Questa
tradizione, con i suoi limiti ed i suoi errori, ci ha insegnato
alcune cose importanti. Attraverso di essa abbiamo imparato a pensare
la storia come la
forma
intelligibile del divenire:
quell’ordine razionale che è necessario presupporre per dare un
senso all’altrimenti caotico susseguirsi degli eventi. Se è vero
che per ogni sequenza di eventi vi sono innumerevoli ordinamenti
possibili, l’ordinamento che abbiamo imparato a preferire è quello
che interpreta la storia come una successione “inclusiva” di
strutture ed eventi. Un evento acquista senso solo entro la struttura
che gli fa da contesto; tale struttura può essere a sua volta vista
come evento di una struttura più ampia, e così via, fino ad un
livello di profondità sufficiente, un livello costituito da
strutture molto vaste e pervasive: i modi di produzione della
tradizione marxista sono appunto strutture di questo tipo.Sono però evidenti i gravi limiti della vulgata marxista, che la rendono insostenibile come concezione generale dell’uomo e della storia. Proprio tali limiti hanno giustificato una serie di critiche e di contrapposizioni che sarebbe giunto il momento di superare. Un esempio di tali contrapposizioni è quella fra vetero-marxismo (che riduce immediatamente strutture e istituzioni sociali al modo di produzione) e sociologismo post-moderno (che si rifiuta di collegare l’infinita ricchezza dei fenomeni sociali ad un qualsiasi ordine concettuale complessivo). Un altro esempio è quello della contrapposizione fra ”materialisti” (sostenitori della riduzione di tutti gli aspetti della realtà sociale all’economia) e “spiritualisti” (sostenitori della tesi secondo la quale il fattore causale ultimo della storia è dato dall’evoluzione delle idee o delle mentalità). E’ facile rispondere a questi ultimi, come hanno sempre fatto i marxisti, che gli uomini devono mangiare e coprirsi prima di potersi dedicare alle idee, ed è altrettanto facile replicare ai primi che fra i bisogni umani fondamentali che devono essere soddisfatti da una società vi è anche quello, specifico dell’essere umano, del dare un senso alla propria vita. Tali dibattiti appaiono sterili, immobilizzati nella contrapposizione di due mezze verità, ed è nostra convinzione che solo un profondo rinnovamento culturale possa aiutare a scioglierne le aporie.
Un piccolo contributo a questo rinnovamento culturale, e al dibattito ad esso necessario, può venire dalle seguenti osservazioni, che rappresentano in sostanza una fra le possibili “ipotesi di lavoro” nell’elaborazione di una concezione generale della storia umana che superi i limiti del marxismo conservandone le valenze conoscitive.
Per prima cosa osserviamo che già in Marx e nella tradizione marxista esistono strumenti teorici che permettono di limitare il determinismo economicistico. Uno di questi strumenti è rappresentato dalla nozione di “formazione sociale”. Mentre il modo di produzione e la sua logica si collocano d un livello profondo e astratto, rappresentando un meccanismo logico “semplice” che si suppone governare la società, e si contrappongono quindi all’infinita ricchezza, molteplicità e casualità della realtà sociale, con il termine “formazione sociale” intendiamo la sintesi di quest’infinita molteplicità e complessità del tessuto sociale unificata alla luce della struttura “semplice” del modo di produzione. In questo modo i multiformi aspetti della realtà sociale non sono “dedotti” dalla logica del modo di produzione, ed è possibile pensare la dinamica storica non come risultato delle contraddizioni del modo di produzione, ma come esito aleatorio della specifica interazione, entro la formazione sociale, tra modo di produzione e tessuto sociale.
Per illustrare questa dinamica, ci serviremo di un paragone. Una formazione sociale può essere vista come il sistema formato da un frullino e dalla panna sulla quale il frullino agisce. La panna (il tessuto sociale innervato dalla logica riproduttiva del modo di produzione) si trova inizialmente in forma liquida, in un secondo momento monta, infine si solidifica. Il frullino (modo di produzione) svolge la stessa identica attività durante questi tre stadi: si limita a ruotare (sempre alla stessa velocità, sempre nello stesso senso). Chi volesse trovare nel movimento del frullino le ragioni delle varie “transizioni di stato” della panna rimarrebbe deluso. Dal movimento rotatorio (in sé logicamente infinito) non è possibile dedurre meccanicamente o dialetticamente alcunché. Allo stesso modo, dalla logica autoriproduttiva di un modo di produzione non è possibile dedurre gli stadi di sviluppo attraverso cui passa la formazione sociale, né tantomeno la logica del modo di produzione successivo. Le motivazioni di questi passaggi epocali vanno cercate non tanto nella logica riproduttiva del modo di produzione, quanto nell’interazione specifica (e per certi versi aleatoria) tra questa logica e le caratteristiche del tessuto umano e sociale da essa innervato; non vanno cercate insomma nel movimento rotatorio del frullino, ma nell’interazione tra questo movimento, in sé logicamente semplice e ripetitivo, e le caratteristiche della panna.
Entro questo tipo di concettualizzazione, la logica di un modo di produzione non implica in nessun modo la necessità del suo superamento. Nessuna scienza del modo di produzione può dunque garantire un certo decorso degli eventi (con l’annessa inevitabile vittoria futura dei “buoni”). Le cause delle “transizioni intermodali” (le transizioni da un modo di produzione all’altro, secondo una felice espressione di Costanzo Preve) vanno individuate entro le formazioni sociali, in tutta la loro complessità.
Modo di produzione capitalistico. Non vogliamo però dilungarci su categorie troppo generali (tanto da apparire generiche), cercheremo dunque adesso di concentrarci sulle società capitalistiche, che sono le società che abbiamo oggi di fronte. Una delle caratteristiche principali delle società contemporanee ci sembra proprio quella che in esse l’intera società è profondamente determinata dalle caratteristiche specifiche del modo di produzione capitalistico. Detto altrimenti: che sia vero oppure no che in tutte le società umane la logica della sfera economica è quella che domina l’intera società, (questione sulla quale non prendiamo qui posizione), questo è certamente vero per le nostre società capitalistiche. Per comprendere il mondo in cui viviamo occorre quindi comprendere la logica del modo di produzione capitalistico.
Che cosa intendiamo quando parliamo di “modo di produzione capitalistico”? Il modo di produzione capitalistico è quella logica astratta che sostiene ed innerva la maggior parte dei processi produttivi (di beni, di istituzioni, di individualità, etc.) lungo tutto il variegato arco della storia moderna e contemporanea. Il modo di produzione capitalistico è come una filigrana che possiamo scorgere, per così dire “in controluce”, analizzando il funzionamento concreto delle istituzioni economiche, politiche e culturali degli ultimi tre-quattrocento anni. Dilagando come un contagio virale1 si è diffuso dall’Inghilterra alle colonie (in particolare quelle nordamericane), alla Francia, poi da quest’ultima – sulla punta delle baionette napoleoniche – al resto dell’Europa, spezzando violentemente o erodendo lentamente le istituzioni dell’Ancien Régime. Oggi lo troviamo praticamente in ogni parte del globo, sia pure a differenti stadi di sviluppo (o, volendo proseguire con l’immagine del virus, di decorso). Non abbiamo qui lo spazio per farne un’analisi precisa e articolata, e non abbiamo comunque a questo proposito idee definitive. Una tale analisi è uno dei compiti intellettuali che il nostro gruppo si propone. E’ chiaro comunque che fra gli aspetti essenziali di tale modo di produzione vi sono la dominanza della logica del profitto (che viene estesa ad ogni ambito sociale), la diffusione universale della forma di merce, lo sviluppo di un individualismo sempre più sfrenato e la riduzione di ogni tipo di razionalità a quella strumentalista della tecnica.
Poiché non siamo profeti, non siamo in grado di dire nulla di sicuro sull’evoluzione futura delle attuali formazioni sociali capitalistiche, che ormai ricoprono il globo. Ci sembra però possibile indicare alcuni aspetti essenziali della logica del modo di produzione capitalistico che indicano la possibilità di una sua crisi futura, dovuta non tanto alla contraddizione fra borghesi e proletari (su questo si veda la voce classi), ma piuttosto alla contraddizione fra logica intrinseca del modo di produzione capitalistico e logica intrinseca dell’essere umano.
Ci sembra che uno degli aspetti fondamentali del modo di produzione capitalistico (e forse anche di altri modi di produzione) sia il suo carattere espansivo, la sua tendenza a invadere ogni ambito della vita sociale (anche a questo proposito funziona la metafora del virus). Vediamo bene come nel mondo contemporaneo tutto venga mercificato e sottomesso alla logica del profitto. Ora, vi sono ambiti fondamentali della vita umana, per esempio quello legato alla riproduzione di legami comunitari stabili, o quello del rapporto con la natura, la cui logica intrinseca è irriducibile alla logica del profitto e della merce, e che quindi non possono funzionare nel modo più adeguato quando vengono sottomessi a tale logica.
Crediamo che questo aspetto “invasivo” del modo di produzione capitalistico rappresenti un pericolo grave per l’umanità. La conquista capitalistica di ambiti della vita estranei alla logica del profitto risulterà alla fine insostenibile e sfocerà in crisi durissime, crisi di un’intera organizzazione sociale. Si aprirà allora uno spazio possibile di critica e superamento dell’attuale società. Si tratta di uno scenario molto generale, che non permette di indicare tempi e modalità. E’ probabile che niente di tutto questo risulterà visibile nel tempo delle nostre vite. Siamo però convinti che lo scenario così delineato sia uno scenario di gravissime crisi e conflitti, di grandi distruzioni di esseri umani e civiltà, delle quali le attuali guerre imperiali USA sono solo un’avvisaglia. Il nostro impegno intellettuale è rivolto a combattere le forze politiche, sociali, culturali che collaborano all’attuazione della logica distruttiva dell’attuale organizzazione sociale, e a mantenere viva una tradizione di pensiero critico che possa essere utilizzata da chi si troverà a vivere queste crisi (si veda la voce che fare?).
Queste osservazioni generali non danno, naturalmente, molte indicazioni sull’attuale congiuntura storica. Per suggerire rapidamente un giudizio, possiamo usare varie immagini (sempre necessariamente metaforiche), paragonando le formazioni sociali a organismi viventi che nascono, crescono e muoiono, oppure parlando (con Spengler) di primavera, estate, autunno e inverno delle varie società. Occorre tenere presente che le differenti formazioni sociali innervate da un medesimo modo di produzione percorrono questa parabola in tempi differenti: quelle sviluppatesi più precocemente possono arrivare alla decadenza quando le ultime arrivate si trovano ancora in piena crescita.
Volendo leggere in questo modo l’attuale congiuntura mondiale, possiamo affermare, in maniera rapida e necessariamente “dogmatica”, che l’Europa occidentale si trova nella prima fase di decadenza (autunno), gli Stati Uniti vicino all’apice (estate), mentre il resto del mondo si trova in fase di crescita più o meno precoce (primavera), ma anche più o meno bloccata (si veda la voce imperialismo).
Imperialismo. In Lenin, com’è noto, la fase imperialistica del capitalismo viene caratterizzata da cinque tratti distintivi (concentrazione dei capitali, fusione del capitale bancario con quello industriale, centralità dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, formazione di associazioni monopolistiche internazionali, spartizione della terra fra le potenze imperialistiche). E’ chiaro che a distanza di 85 anni tale analisi risulta invecchiata. Ci sembra però che della tradizione di analisi marxista dell’imperialismo si possa conservare un’idea molto generale, quella cioè che l’imperialismo non possa essere pensato in termini esclusivamente politici e militari ma debba anche essere visto come diffusione ed estensione di una determinata organizzazione di rapporti sociali ed economici.
Definiamo quindi “imperialismo” la proiezione di potenza di uno Stato su realtà ad esso esterne, proiezione finalizzata a trasformare dette realtà in appendici del proprio modo di produzione. L’imperialismo si esercita su tutte le sfere della società. Definiamo altresì “impero” l’area geopolitica entro la quale un singolo imperialismo si è affermato (o si sta affermando) su tutti i potenziali concorrenti. Il “centro” dell’impero è il paese che esercita questo imperialismo vincente. A partire da questo centro si dispongono2 aree geopolitiche a diversi gradi di subordinazione (dalla quasi pariteticità degli “alleati” alla condizione praticamente coloniale di alcune zone sotto controllo militare). Il livello di subordinazione dei paesi soggetti ad un certo imperialismo (e dunque facenti parte di un determinato impero) è dato dal grado di inclusione subalterna entro le relazioni sociali e politiche del paese-centro.
La presente congiuntura internazionale può essere correttamente definita Impero Statunitense. L’Impero Statunitense è il risultato della volontà politica dello stato oggi militarmente dominante di integrare stabilmente l’intero pianeta entro i rapporti sociali capitalistici, in posizione subordinata rispetto agli interessi degli USA. Ciò non significa che gli Stati Uniti siano la sola e unica potenza, né che la loro egemonia sia indiscussa. Il quadro è sicuramente molto complesso, ma ciò non deve impedirci di riscontrare un certo ordine: appunto il nuovo ordine mondiale che gli Stati Uniti hanno cominciato
attivamente a costruire almeno dalla fine degli anni ’803. Le guerre e le campagne “umanitarie” degli ultimi anni sono parte della strategia imperialistica statunitense, una strategia che fino ad oggi si è rivelata vincente.
Chi intenda opporsi alle storture che la logica capitalistica del profitto e della merce genera ormai in tutto il mondo deve perciò, oggi, coscientemente opporsi al predominio politico e militare degli USA. Se al tempo dell’Impero Romano fosse esistita una forza politica o sociale o culturale antischiavista, essa avrebbe necessariamente dovuto essere antiromana, visto che all’epoca l’Impero Romano era appunto la massima espressione politica e militare dello schiavismo. Allo stesso modo, chi oggi vuole opporsi alle devastazioni che il modo di produzione capitalistico genera in tutto il mondo e agli ancora più gravi disastri futuri che ci prepara, non può che opporsi all’Impero Statunitense. Questo “antiamericanismo” non è allora un rigido pregiudizio o il residuo di vecchie tradizioni ideologiche, ma una posizione razionalmente fondata su una analisi critica del tempo presente.
Ovviamente, per ostacolare un imperialismo vincente occorre qualcosa di più che la semplice opposizione dei singoli. Occorre che si manifestino forze in grado di incepparne il meccanismo espansivo. Chiediamoci dunque: quali ostacoli e quali forze potrebbero contrapporsi a tale progetto di dominio globale da parte degli USA? Rispondere non è semplice. In linea di massima, nel breve periodo potrebbe trattarsi della capacità di resistenza di qualche paese aggredito4, nel medio periodo della forza di qualche imperialismo concorrente (per esempio cinese o russo), nel lungo periodo del declino epocale del modo di produzione capitalistico (alla cui possibilità abbiamo accennato all’inizio).
Classi. Per “classi sociali” intendiamo la particolare forma assunta, entro una certa società e in un determinato periodo storico, dal continuum Dominanti-Dominati. Non si tratta di un continuum omogeneo, bensì di una sgranatura “a scaglioni” la cui specifica struttura viene prodotta (e riprodotta) dal modo di produzione di volta in volta egemone. Una classe è una sorta di traccia lasciata sul tessuto sociale dal movimento riproduttivo del modo di produzione. Dal nostro punto di vista sono importanti le osservazioni seguenti: primo, una classe non è separabile dal modo di produzione che la riproduce. Secondo, la classe è un effetto e non un soggetto, dunque non possiamo attribuirle una volontà, né tantomeno una “coscienza”. Terzo, le classi prodotte da un certo modo di produzione sono in tutto e per tutto suoi effetti, quindi non si vede come possano trascenderne i limiti, facendo da levatrici a qualche ordine futuro. I marxisti hanno riconosciuto questa caratteristica a tutte le classi del passato, affermando ad esempio che né gli schiavi, né i servi della gleba avrebbero potuto fare la rivoluzione. L’unica eccezione – invero un po’ sospetta – era costituita dal moderno proletariato. Si tratta di una eccezione alla quale ci sembra necessario rinunciare. Il proletariato è, come classe sociale, interno al modo di produzione capitalistico e incapace di rivoluzionarlo, esattamente come gli schiavi erano interni al modo di produzione schiavistico e incapaci di rivoluzionarlo.
Una autentica rivoluzione intermodale non ha il suo fulcro nelle rivolte delle classi dominate e sfruttate del vecchio modo di produzione (che pure possono avere un ruolo nell’acuirne la crisi) ma nella lenta crescita di nuovi rapporti sociali, produttivi, culturali, e delle classi sociali corrispondenti, all’interno della società preesistente. Quando, tra le maglie sempre più disarticolate di una società in declino, si apre la possibilità di una nuova organizzazione dei rapporti sociali ed economici, assistiamo alla nascita, negli interstizi della realtà sociale, di nuove classi sociali. Queste nuove classi sono sganciate dal vecchio modo di produzione e dunque sono portatrici (in particolare le loro frange dominanti) di una logica allogena e potenzialmente distruttiva dei vecchi equilibri sociali. Prima o poi vi saranno soggetti disposti a farsi carico di tale logica, traducendo l’anonima determinazione di classe in ideologia, conferendole quindi dignità politica.
Ma non c’è nessuna garanzia che questo avvenga prima che una crisi epocale abbia spazzato via patrimoni immensi di umanità e di civiltà. Abbiamo a questo proposito in mente due modelli: quello del passaggio dal mondo antico al medioevo e quello del passaggio dal mondo feudale all’età moderna. In quest’ultimo caso la nuova società capitalistica si sviluppò lentamente, con avanzate e riflussi, all’interno della vecchia società feudale. I secoli che vanno dalla rinascita dell’Europa dopo il Mille alle Rivoluzioni Inglese e Francese mostrano appunto il lento formarsi dei nuovi rapporti sociali, ai quali corrisponde lo sviluppo di nuove classi che forgiano la propria cultura, creano le proprie tradizioni, e alla fine riescono a darsi una soggettività politica che porta a compimento il passaggio dal vecchio al nuovo mondo. In questo modo la crisi rivoluzionaria ha sì, naturalmente, aspetti forti di violenza e distruttività, ma essi si intrecciano strettamente alla costruzione di un nuovo mondo e di una nuova civiltà. Nell’altro caso, invece, la nuova società feudale non riesce a delinearsi per tempo all’interno della realtà sociale del mondo antico, e la crisi che coglie quest’ultimo è una crisi fortemente distruttiva nella quale non si scorgono elementi di creazione di un nuovo ordine. Solo dopo gravissime catastrofi sociali ed economiche, solo dopo distruzioni tali da causare lo spopolamento di interi paesi, comincia faticosamente a nascere il nuovo ordine sociale ed economico.
Non sappiamo a quale di questi due modelli corrisponderà una eventuale crisi futura del capitalismo, ma la totale assenza di significative forze sociali o politiche capaci di porsi su un terreno non capitalistico ci fa pessimisticamente propendere per il modello “distruttivo”.
Politica. Per “politica” intendiamo la risposta soggettiva alla situazione sociale oggettiva, risposta finalizzata alla trasformazione (o alla conservazione) della situazione oggettiva stessa.
Nel mondo contemporaneo, la situazione oggettiva è quella determinata dalla rete degli effetti del modo di produzione capitalistico. E’ una rete che avvolge l’intera società contemporanea, e non appare come il risultato dell’azione cosciente di un soggetto sociale, ma come un "processo senza soggetto né fini”5. Perché la storia possa darsi e conseguire scopi occorre che dei soggetti (individuali o collettivi) si facciano carico dei processi oggettivi, traducendoli in fini, ideologie e programmi. E’ a questo livello che nasce la politica.
Il comportamento dei soggetti politici non sarebbe comprensibile per chi volesse prescindere dalla struttura della divisione di classe, ma sarebbe altrettanto opaco per chi volesse leggervi la traduzione meccanica di presunti “interessi di classe”. Siamo invece in presenza di una risposta soggettiva ad una dinamica oggettiva (strutturale), una risposta sempre aperta e mai del tutto univoca. Precisare ciò è molto importante perché è proprio lungo questo margine sfumato che l’azione soggettiva può abbandonare le strade battute, sperimentare, addirittura divergere apertamente dalla situazione oggettiva. E’ in questi interstizi tenuti aperti dalla possibilità di uno iato tra soggettivo e oggettivo che vengono conservati elementi culturali in contraddizione con la realtà sociale dominante, elementi che in tempi di crisi potrebbero favorire la nascita di nuovi rapporti sociali.
Il contesto storico di riferimento è comunque molto importante. La valenza e dinamicità della politica muta infatti a seconda della fase dell’evoluzione sociale in cui ci troviamo. Durante le fasi di crescita (primavera ed estate) una determinata posizione politica può corrispondere, oltre che ad una certa collocazione di classe (anche se non sempre la stessa), anche ad alcune potenzialità di sviluppo della società (dunque a un concreto allargarsi delle libertà). Viceversa, durante le fasi di decadenza (autunno e inverno), il secondo aspetto scompare (gradualmente), lasciando alla politica, pensata con le categorie del vecchio mondo, quasi soltanto la funzione meschina di favorire gli uni a discapito degli altri, in una lotta sempre più dura per la spartizione di risorse decrescenti, lotta che si traduce spesso in una limitazione della libertà di tutti. È in questa seconda fase che purtroppo oggi ci troviamo ed è per questo motivo che oggi la politica sembra ormai priva di risposte, a destra come a sinistra.
Destra e sinistra. Destra, (centro) e sinistra sono le collocazioni politiche dei soggetti entro le società capitalistiche. Si tratta, come per le classi, di un continuum disomogeneo, a scaglioni (estrema destra, destra, centrodestra, centro, centrosinistra, sinistra, estrema sinistra).
Seguendo le indicazioni delle voci classi e politica, possiamo affermare che destra e sinistra sono, allo stesso tempo, espressione di un certo blocco di classe e portatrici di determinate progettualità sociali complessive.
Per quanto concerne il primo aspetto, vale a dire l’essere destra e sinistra espressione di una determinata configurazione sociale, premettiamo che sarebbe un errore sovrapporre il continuum di classe a quello politico, e ciò per due motivi: primo, le due ali estreme non corrispondono praticamente mai ai dominati e ai dominanti; secondo, le preferenze politiche dei soggetti appartenenti ad una determinata classe mutano nel tempo. Ciò che possiamo fare è valutare la dicotomia destra-sinistra entro determinati e circostanziati contesti storici e territoriali. Nell’attuale congiuntura italiana ed europea, ad esempio, la maggioranza del lavoro dipendente sostiene la sinistra e il centrosinistra (almeno fino ad oggi), mentre la maggioranza del lavoro così detto autonomo sostiene la destra e il centro destra. Le figure di spicco dell’oligarchia dominante si dividono e oscillano fra le forze maggiormente centriste (centrodestra, centro e centrosinistra), mentre buona parte di quello che un tempo veniva chiamato “sottoproletariato” si frammenta in tutti gli schieramenti, con particolare preferenza per la destra e la sinistra estreme.
Per quanto concerne il secondo aspetto, quello del valore progettuale espresso dalle formazioni politiche di destra e di sinistra, vale ancora di più la richiesta di circostanziamento geostorico. In una fase di decadenza come quella che stiamo cominciando a sperimentare oggi in Europa, destra e sinistra hanno ormai perduto ogni prospettiva progettuale. Ambedue mirano soltanto a soddisfare le richieste delle oligarchie dominanti, togliendo di mezzo qualsiasi ostacolo alla riproduzione incontrollata del modo di produzione capitalistico. Certo, entrambe tentano di ridurre gli effetti negativi di questa loro politica sulle rispettive basi sociali6, ma ciò si rivela sempre più difficile. Destra e sinistra hanno quindi perso quelle caratteristiche che permettevano di distinguerle, e appaiono come semplici variazioni dello stesso tema, quello dell’accettazione integrale del dominio dell’economia sulla società. In questo senso, destra e sinistra sono finite, anche se i loro dirigenti e il circo mediatico-intellettuale che occupa la scena dei mezzi di comunicazione di massa hanno tutto l’interesse a raccontare la favola della contrapposizione fra destra e sinistra. Finché le menti dei cittadini sono invase dalle strida e dai clamori dello scontro fra destra e sinistra, eviteranno di farsi imbarazzanti domande su quale sia l’effettiva differenza fra le politiche della destra e quelle della sinistra.
Un discorso parzialmente diverso andrebbe forse fatto per la destra e la sinistra estreme (gruppi neofascisti, MSI, AN, Comunisti italiani, PRC, no/new globals, centri sociali). A livello progettuale queste frange conservano tutta una serie di ideali (per lo più acriticamente mutuati dalle rispettive tradizioni), ideali che si stemperano man mano che ci si avvicina al centro (esemplare il caso di AN e Comunisti italiani). A livello sociale, man mano che si procede verso i poli estremi (neofascisti e centri sociali), abbiamo l’impressione di trovarci di fronte all’espressione di un disagio socio-culturale, sostanzialmente analogo alla droga o alla violenza da stadio, che accomuna sottoproletari arrabbiati, ceti medi allo sbando e rampolli radical-chic della classe dominante.
Le due ali estreme dello schieramento politico vivono dunque in un oscillante stato di confusione: se si avvicinano troppo al centro vengono risucchiate nelle coalizioni di governo (AN e Comunisti italiani), se accentuano il loro estremismo si riducono a mera espressione di disagio sociale (neofascisti e centri sociali); se invece tentano di rimanere a metà (è questo il caso di Rifondazione), rinunciano comunque ad una prospettiva di lungo periodo, dovendo infatti attivamente e continuamente prevenire derive filogovernative o estremiste.
Resta in ogni caso il fatto che sull’asse dell’opposizione destra/sinistra non sembra possibile scorgere realtà capaci di porre seriamente in questione, almeno con lucidità teorica se non con efficacia pratica, i caratteri più profondamente inquietanti del mondo contemporaneo.
Possiamo spendere qualche parola in più sulla sinistra, che è la “parte” dalla quale proveniamo. La sinistra è stata una realtà storico-culturale caratterizzata da una particolare costellazione ideale, cioè dal fondere assieme le istanze di emancipazione delle classi subalterne (e poi dei più svariati tipi di gruppi sociali in posizione svantaggiata o vittime di pregiudizi e discriminazioni) e le istanze di modernizzazione e progresso. La sinistra è stata cioè caratterizzata dal volere assieme l’emancipazione e il progresso, o meglio, dal volere l’emancipazione attraverso il progresso. Data questa caratterizzazione originaria, la sinistra ha sempre fatto del progresso un assoluto da non mettere in discussione: è sempre stato un suo assioma che lo scorrere del tempo porterà, prima o poi, alla liberazione e al bene. Ma questa assunzione è un errore teorico. Non c’è nessuna garanzia che il semplice scorrere del tempo abbia un valore positivo; il progresso non si identifica col bene, al contrario è a partire dal nostro concetto di bene che dobbiamo giudicare cosa è accettabile e cosa non lo è fra ciò che il progresso ci porta. Questo errore teorico costitutivo della sinistra non è risultato però decisivo nei due secoli di vita della sinistra stessa, perché si è data in questi due secoli una realtà storica nella quale, di fatto, emancipazione e modernizzazione in larga misura coincidevano. Negli ultimi due secoli è stato cioè di fatto vero, almeno in larga misura, che favorire il progresso significava favorire l’emancipazione.
Oggi non è più vero, e l’errore teorico costitutivo della sinistra emerge in piena chiarezza. Oggi progresso e modernizzazione significano progresso e modernizzazione del capitalismo, di un capitalismo sregolato e distruttivo, che non porta emancipazione ma riduzione dei diritti, distruzione dell’ambiente, guerre imperiali in ogni angolo del pianeta. Oggi dunque modernizzazione ed emancipazione si contrappongono ed una scelta è necessaria. Si può scegliere la modernizzazione capitalistica contro i diritti delle classi subalterne, contro la salvaguardia dell’ambiente, contro la pace: questa è la scelta della sinistra istituzionale in tutti i paesi occidentali. Oppure si possono scegliere alcuni valori umani fondamentali (rispetto per l’essere umano e per il suo ambiente), e allora si è contro la modernizzazione capitalistica distruttiva di tali valori, "contro il progresso"7.
Osservazioni analoghe si possono forse fare nei confronti della cultura di destra (rispetto alla quale non abbiamo la competenza necessaria ad un’analisi approfondita): si può infatti notare che buona parte della cultura tradizionale della destra coniuga istanze antimoderniste ed istanze antiemancipatrici, mentre nelle sue versioni contemporanee abbandona l’antimodernismo ma non l’antiemancipazione. Gli sviluppi recenti di AN, disposta a rinnegare qualsiasi cosa del proprio passato pur di entrare nei “salotti buoni” delle oligarchie neoliberiste, illustrano questa dinamica.
Per tornare alla sinistra, la nostra tesi è che non resta più alcuno spazio per quella fusione di modernizzazione ed emancipazione che ne ha costituito l’essenza e caratterizzato la storia. Tale storia è finita. Non si tratta più oggi di “rifondare” o “ricostruire” la sinistra, di cercare una sinistra nuova o alternativa o plurale o antagonista. Si tratta di avere chiara la fine della sinistra (e della destra), per potere finalmente andare oltre. E per andare oltre abbiamo bisogno prima di tutto di una nuova cultura.
1
Il
paragone tra diffusione di un modo di produzione e contagio virale
non ha valenza negativa e vuole mettere in evidenza un carattere
fondamentale di tutti i modi di produzione. Quando un virus infetta
le cellule di un organismo, vi inietta il proprio DNA e si replica
al loro interno, emergendo alla fine, pronto ad aggredire altre
cellule.
Allo stesso modo un nuovo modo di produzione si inserisce in un
determinato contesto sociale, sviluppandosi nei suoi interstizi ed
emergendo solo alla fine, quando non è più possibile arrestarlo.
2
Ovviamente
non si tratta di una disposizione puramente geografica, ma
geopolitica. Un paese geograficamente lontano può benissimo essere
geopoliticamente molto vicino al centro dell’impero (è il caso,
per fare un esempio, dello stato di Israele).
3
L’inizio
di questa rinnovata proiezione di potenza su scala globale può
essere fatto risalire ai profondi mutamenti di strategia militare
avvenuti negli anni ’80 e trova la sua prima concretizzazione –
come a suo tempo fece acutamente notare Noam Chomsky – nel blitz
di Panama City.
4
Ciò
non significa dare credibilità a regimi dittatoriali come quello di
Saddam Hussein. Significa solo rendersi conto che l’attuale
politica USA, che è un pericolo per l’umanità intera, potrebbe
subire un momentaneo arresto, o almeno un rallentamento, di fronte
ad un nuovo Vietnam.
5
L’espressione
è di Louis Althusser. La usiamo per caratterizzare la logica del
sociale, ma non quella del politico.
6
Notare
la differenza. Nelle fasi di crescita si tenta di “dare di più”,
mentre in quelle di decadenza si tenta di “togliere di meno”.
7
Non è un
caso che chi oggi si batte contro ogni tipo di manipolazione
genetica venga accusato di oscurantismo conservatore.
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