Un excursus hegeliano.
Nelle
rappresentazioni comuni la libertà appare come arbitrio degli
individui, lo Stato come il limite delle libertà individuali. Più è
largo questo limite e lo Stato si ritrae dalla vita degli individui,
più gli individui sono liberi – questa la visione liberale; più
la gestione dello Stato è espressione della volontà degli
individui, più questi sono liberi – questa la visione democratica
e socialista. Si è concordi nel supporre che gli individui siano il
positivo, il bene, lo Stato il negativo, il male. Ciò contrasta però
con l'estensione logica dei termini; l'individuo è infatti il
particolare, rispetto a lui lo Stato è l'universale; poiché il
particolare (ossia l'equivalente al quantificatore «qualche») è
ciò che implica opposizione ad altro e l'universale (l'equivalente
al quantificatore «tutti») ciò in cui i differenti sono
uguagliati, il particolare è il conflittuale, dovrebbe perciò
corrispondere alla rappresentazione del negativo e del male,
l'universale è il pacificato, corrisponderebbe dunque al positivo e
al bene. In verità la visione liberale e quella democratica traggono
la loro plausibilità da un presupposto non tematizzato e per nulla
ovvio: esse si riferiscono a un individuo che è non soltanto
particolare, ma anche universale. Rispetto a questo individuo
che sa coniugare il suo interesse con la cosa pubblica, lo Stato deve
essere liberale e ritrarsi quanto è possibile, così come lo Stato
deve essere democratico ed affidarsi alla volontà degli individui in
quanto questi sono consapevoli della mediazione tra il loro
interesse e l'interesse universale.
La
filosofia ha identificato la volontà chiusa nel suo particolare con
l'arbitrio, la volontà consapevole della mediazione tra la
sua particolarità e l'universale con la libertà. L'arbitrio
è la volontà irriflessa, trascinata dalla tempesta degli impulsi
naturali fino all'autolesionismo e incapace di pensare e realizzare
il bene comune; la libertà è l'esistenza di diritti e doveri e la
loro corrispondenza. Tra arbitrio e libertà non c'è alternativa
reale, piuttosto: l'arbitrio è la forma iniziale della volontà che
l'educazione spinge a diventare libera. Rappresentare questa
educazione è l'obiettivo esplicito di ogni esposizione etica
hegeliana, non solo di quella della Fenomenologia, anche di
quella dei Lineamenti della filosofia del diritto; la prima si
riferisce all'individuo che dalla cupidità arriva alla ragione, la
seconda all'individuo socializzato che dalla proprietà privata
arriva al patriottismo. Percorreremo la prima di queste due vie per
abbozzare un'introduzione alla seconda.
Iniziamo
con l'esporre il nucleo del pensiero di Hegel. Al prezzo di una certa
imprecisione si usa indicarlo con il termine «dialettica»; ma
ancora più fuorviante è l'espressione di «logica dialettica»:
proprio come non esiste una matematica dialettica o una fisica
dialettica, così non esiste una logica dialettica alternativa alla
logica comune, questa in uso nella scienza della natura, quella
raccomandata per l'indagine sociale; esiste invece un metodo
dialettico-speculativo, che si applica ai principi di tutte
le scienze e ne misura la portata di verità. Esso procede oltre
l'analisi e la sintesi cui ricorre l'esposizione delle scienze.
Analisi e sintesi sono procedimenti della conoscenza, non processi
dell'oggetto1:
vanno dal complesso dei teoremi al semplice dei principi e viceversa,
così da comunicare al complesso l'evidenza che è propria del
semplice; la verità che assicurano è dunque quella, soltanto
soggettiva, dell'evidenza. Paghe dell'evidenza del semplice, non ne
discutono la verità, dunque delegano la decisione ultima sulla
verità del teorema all'esperienza – che però non è in grado di
prenderla. Il credo del metodo dialettico-speculativo è invece: non
c'è nulla di semplice e l'evidente non è il vero; la semplicità è
superstizione e l'evidenza ingenuità.
Il suo
compito inizia dal criticare la verità dei principi evidenti;
il suo contegno è dunque quello dello scetticismo radicale
che trova la contraddizione in ogni oggetto. A differenza dello
scetticismo, che abbandona l'oggetto dopo averne mostrato la nullità
e rivolge ad altro il suo potere corrosivo, la dialettica indugia
sull'oggetto negato, fino a quando questa stessa negazione non
si mostra come oggetto positivo, come nuovo principio. Il mostrarsi
del nuovo principio nella confutazione stessa, ciò che Hegel chiama
«speculazione», ciò per cui lo scetticismo diventa scettico nei
propri confronti, comporta che l'avanzamento dialettico sia un
arretramento: il nuovo principio non è una conseguenza del vecchio
principio, è, anzi, principio rispetto al quale quello precedente è
solo un elemento. Poiché nell'avanzare retrocede, lo sviluppo
completo del metodo dialettico-speculativo espone in un superiore
circolo logico la verità dei principi teorici e pratici2.
Applicato
alla storia, il metodo filosofico produce la conoscenza del processo
per cui le categorie storiografiche sorgono ognuna nell'annullamento
critico dell'altra, per comporsi infine come elementi conciliati nel
moderno stato monarchico-costituzionale. La filosofia hegeliana della
storia dunque, per quanto straordinariamente ricca di conoscenze,
molte delle quali di una esattezza empirica che sfida ancora il
tempo, è estranea allo storicismo, sia a quello che, in fuga dal
presente, cerca l'immedesimazione col passato, sia a quello che cerca
le leggi naturali della storia; il suo oggetto non è la storia,
ma la verità della storia, la libertà, esposta nella
genesi speculativa dei suoi principi dalla reciproca confutazione
dialettica.
L'uomo
ha storia, cioè si stacca dalla natura e produce libertà, perché
ha il potere di inibire la cupidità naturale. Questo potere
di inibizione è il vero tema del secondo capitolo della
Fenomenologia, sull'autocoscienza, cioè sull'io.
La coscienza, da cui l'opera inizia, è la certezza della
verità dell'oggetto; ma nel suo sviluppo questa verità si
inabissa nelle contraddizioni e la coscienza è negata;
l'autocoscienza è il significato positivo del nulla di quella
verità: certezza non più della verità dell'oggetto, ma
dell'inconsistenza dell'oggetto. L'io è, così, l'oggetto rispetto
al quale ogni oggetto è nullo. In altri termini, nella sua forma
iniziale l'io è egocentrismo, l'orgoglio infinito per il
quale gli oggetti sono privi di essere proprio. Lo sviluppo
dell'autocoscienza, poiché per il metodo dialettico-speculativo lo
sviluppo è la completezza della confutazione, non è che la
punizione del suo orgoglio.
L'oggetto
si presenta di fronte all'autocoscienza certa di se stessa; questa ne
sa l'inconsistenza, così procede a distruggerlo; la distruzione
dell'oggetto ne dimostra la nullità e insieme prova la verità
dell'autocoscienza3.
Hegel chiama cupidità l'autocoscienza che realizza il proprio
essere con la distruzione, e soddisfazione questa
realizzazione. Nella sua forma naturale l'autocoscienza non è un
rapporto positivo con persone e cose, ma piacere della distruttività,
la nietzschiana volontà di potenza. – Ma la cupidità è
contraddittoria: la sua soddisfazione implica l'annullamento
dell'oggetto, l'annullamento dell'oggetto ne implica la consistenza;
dunque la certezza della nullità dell'oggetto, nel fare esperienza
della soddisfazione, ha fatto anche esperienza della verità
dell'oggetto, ossia è insoddisfatta nella stessa misura in
cui è soddisfatta. L'autocoscienza può liberarsi di questa
contraddizione solo se l'oggetto stesso annulla la propria
indipendenza4.
Ma
questa condizione è già data: la distruzione dell'oggetto non gli è
soltanto esterna ma è la sua natura; il fatto che ci sia
un'autocoscienza significa che l'oggetto è già nullo in se stesso,
e la soddisfazione è semplicemente la prova di questa nullità. Ora,
l'oggetto che è la nullità dell'oggetto è proprio la definizione
dell'autocoscienza; ne segue che nella soddisfazione
all'autocoscienza l'oggetto stesso balena come altra
autocoscienza, che nella soddisfazione è contenuto un rapporto
tra autocoscienze. Se quindi nel suo significato dialettico la
cupidità è degradarsi dell'autocoscienza nell'oggetto, in quello
speculativo essa è innalzarsi dell'oggetto all'autocoscienza; così
l'io è soddisfatto non come cupidità, in quanto annulla l'oggetto,
ma solo se è onorato come io da un altro oggetto che egli onora come
io. Questo rapporto tra autocoscienze è il riconoscimento.
La forma
iniziale del riconoscimento è che due oggetti devono
mostrarsi l'uno all'altro come autocoscienze, devono mostrare
cioè di negare l'oggettività. Per farlo devono scegliere il
pericolo, perché mettere in pericolo l'oggettivo è mostrarlo nullo.
Solo la lotta mortale, mettendo in pericolo entrambi gli oggetti,
permette il loro riconoscimento reciproco, il loro essere
autocoscienze reali5.
In altre parole, che un oggetto possa onorarmi come io, che io possa
onorarlo come io, implica, poiché l'io è la nullità
dell'oggettivo, che la mia e la sua oggettività siano per noi nulle,
dunque che entrambi siamo capaci di mettere in pericolo il nostro
corpo, la nostra vita; ma solo nella lotta possiamo mostrare
disprezzo per la nostra vita. Nella prima forma di riconoscimento
l'autocoscienza è coraggio.
Anche la
lotta incontra però la sua dialettica: il pericolo conduce alla
morte e il morto è autocoscienza negata, semplice oggetto. La lotta
presenta dunque la contraddizione che da una parte l'autocoscienza vi
si realizza come disprezzo dell'oggetto, dall'altra l'oggetto si
vendica come disprezzo dell'autocoscienza. Il risultato speculativo
della contraddizione della lotta è il rapporto tra l'autocoscienza
che è negazione dell'oggetto e l'autocoscienza negata
dall'oggetto, il rapporto tra il signore che conserva il suo
orgoglio e il servo che considera essenziale la cosa, cioè la
vita, la preferisce all'autocoscienza. Il servo è l'autocoscienza
che ha paura della morte; ma l'autocoscienza è un aprirsi
alla morte; quindi il servo è l'autocoscienza che nega
l'autocoscienza.
Anche
questa contraddizione della servitù, la sua viltà, acquisisce forma
positiva: come autocoscienza il servo annulla la cosa, come
autocoscienza negata la conserva; si genera cioè nel servo
una distruttività inibita che è il lavoro. Il lavoro
ha un doppio significato. a) Attraverso il lavoro del servo il
signore perde ogni rapporto con l'indipendenza della cosa che
affliggeva la cupidità: ora egli si rapporta alla cosa formata dal
servo così che la sua cupidità non ha più a che fare con
l'indipendenza degli oggetti. Ma questa soddisfazione completa è
contraddittoria: essa è l'oggettività del signore, ma si realizza
nella distruzione dell'oggettività, esattamente come la lotta dà
esistenza oggettiva all'autocoscienza solo in quanto essa va alla
distruzione dell'oggettività: nel signore l'autocoscienza esiste
soltanto come distruttività, come morte. b) Nel servo,
invece, l'autocoscienza si dà realtà positiva: la sua distruttività
inibita dalla paura è elaborazione della cosa immediata in cosa
coltivata, nella quale la negatività dell'autocoscienza è
positiva come forma della cosa. Riconoscendosi nella forma che
ha dato alla cosa l'autocoscienza negata del servo acquisisce
oggettività: il servo vince la paura perché si è trasposto nella
forma della cosa.
L'autocoscienza
che si realizza in quanto si sente identica alla forma delle cose ma
resta indifferente alla sua e alla loro particolarità è lo
stoicismo; ma la particolarità esclusa lo condiziona. L'identità
storica sembra poter essere raggiunta dallo scetticismo; questo è
però imperturbabile solo attraverso la confutazione del particolare,
cioè attraverso la perturbazione. Il contrasto interno in cui si
spegne lo scetticismo è la coscienza infelice, che riconosce
l'imperturbabilità come un ideale fuori di sé e cerca di
raggiungerlo annullando la sua particolarità. Nello sviluppo di
questa figura l'autocoscienza, accettando di dipendere dal ministro
dell'Immutabile, si sacrifica radicalmente e con questo sforzo di
assimilarsi alla cosa cessa il suo orgoglio, cessa di essere
autocoscienza particolare; ma l'autocoscienza particolare annullata è
autocoscienza veramente universale: libera ragione – non più
certezza della nullità delle cose, ma certezza di essere tutte le
cose.
Questi
passaggi sono difficili non tanto per il metodo che seguono, o per
l'astrazione dei termini, ma soprattutto per la violenza con cui il
loro contenuto contrasta il senso comune. Essi iniziano dall'io
singolo, come fa il senso comune; ma l'io non appare misurato nei
suoi impulsi, conciliato con la realtà; anzi, iniziare dall'io
singolo significa proiettarsi in uno scenario selvaggio in cui la sua
superiorità dell'uomo sulle cose è concepita nella forma elementare
del distruggerle e il riconoscimento tra gli uomini è concepito
nella forma elementare della lotta. Tutto questo è lontano dal senso
comune, ma non dall'esperienza quotidiana. Infatti, senza che il
senso comune se ne accorga, l'esperienza quotidiana non risulta
dall'interazione di autocoscienze naturali, ma dal rapporto tra
autocoscienze universali, cioè dalla negazione delle
autocoscienze naturali.
Attraverso
la negazione della sua naturalità che le permette il riconoscimento
senza lotta, l'autocoscienza entra nella ragione, cioè nel vivere
sociale che fa da sfondo al senso comune. Il risultato paradossale
dello sviluppo dell'autocoscienza è quindi che la libertà, ben
lungi dall'essere autocoscienza naturale, arbitrio, ne pretende
l'umiliazione. L'inizio dell'uomo, l'autocoscienza come cupidità che
va senz'altro alla soddisfazione, è una falsa partenza; solo con la
sua correzione l'uomo si libera dall'asservimento alla natura che
potrebbe generare soltanto il bellum omnium contra omnes, la
condizione del perfetto orrore, e produce il contesto della libertà.
La
teoria hegeliana dello Stato, come teoria della libertà che muove
dall'inibizione dell'arbitrio naturale, può essere esposta nei
seguenti momenti.
- La moltitudine si unisce: ogni individuo rinuncia al suo arbitrio naturale che lo rende sovrano; ora gli individui sono attrattivi, non individui ma membri, dunque al servizio dell'altro, come documenta ogni formula di cortesia. Questa servitù individuale è la sovranità generale, la società. Contro la visione liberale che assume l'arbitrio naturale direttamente come sociale, cioè trascura il lato negativo dell'educazione e dell'etica, la società è una moltitudine di persone unite dalla negazione del proprio arbitrio naturale.
- La rinuncia all'arbitrio naturale è in parte un effetto dell'educazione, ma in parte uno sforzo consapevole dell'arbitrio; in parte abitudine passiva, ma in parte volontà attiva. In quanto la rinuncia è volontaria, l'arbitrio nel negarsi si conserva; così la rinuncia all'arbitrio è accettazione volontaria del servizio, dovere.
- Il dovere che i membri accettano nei confronti della società rifluisce loro come dovere della società nei loro confronti, dunque come diritto. La rinuncia all'arbitrio naturale contenuta nell'accettazione del dovere è rinuncia alla soddisfazione immediata dell'impulso naturale, ma non alla sua soddisfazione, anzi è acquisizione del diritto alla sua soddisfazione mediata, cioè offerta dalla volontà altrui. La certezza soggettiva del rifluire del dovere come diritto è la libertà.
- Quanto più ampia la moltitudine che si unisce rinunciando alle sovranità individuali, tanto più la sua sovranità generale è solo virtuale, tanto più essa deve essere esercitata in modo organizzato. In altri termini: la sovranità generale è dapprima soltanto la negazione delle sovranità individuali; che abbia realtà positiva, che sia volontà generale operante per la propria conservazione, cioè in grado di difendersi, implica l'organizzarsi di un potere che la attui. L'obbedienza volontaria che unisce la moltitudine in una società sovrana è dunque anche origine del potere legittimo. Il potere carismatico non è in grado di fondere i molti in una società, ma solo in una setta.
- Il potere che attua la sovranità generale e le dà realtà individuale è il governo. La sua presenza fa della società uno Stato. Contro Hobbes, che esclude il governo dal pactum unionis, e contro il fascismo e il totalitarismo in generale, il governo è interno alla società, cioè investito di doveri; i suoi membri, più di ogni altro, sono tenuti alla rinuncia all'arbitrio naturale.
- Il dovere del governo è duplice: verso la sovranità interna e verso la sovranità esterna. Verso l'esterno, consiste nel difendere la sovranità dello Stato dagli altri Stati. Questi, infatti, sono individui che non riconoscono doveri tra loro; essendo sovrani non hanno rinunciato all'arbitrio che li rende repulsivi: sono in uno stato di natura che costituisce una minaccia costante per ogni società, tale da consolidarne l'unità.
- Verso l'interno, il compito del governo è di garantire che lo Stato restituisca in diritti l'accettazione del dovere con cui i membri si uniscono e costituiscono la sovranità generale, cioè di rendere la libertà una seconda natura.
- Lo Stato e la sua libertà, essendo una seconda natura, non sono un dato naturale: sono prodotti dalla volontà di servizio che dipende dall'arbitrio. L'arbitrio rinuncia a se stesso in base all'abitudine e a ragioni: perché la soddisfazione immediata dell'impulso è precaria e suscita la guerra di tutti contro tutti, mentre il diritto è sostanziale e contiene il riconoscimento altrui. Tuttavia, l'arbitrio è padrone delle ragioni: dipende da lui considerarle buone ragioni.
- Per l'arbitrio che non voglia riconoscere la libertà come condizionata dal proprio negarsi, nessuna ragione è buona per non procedere alla soddisfazione immediata degli impulsi e per non appropriarsi dei beni generati dalla mediazione della libertà. Questa contraddizione è in generale il male; in quanto infrange la legge è il reato. Il suo effetto è produrre la precarietà dello stato di natura di cui lo Stato è il superamento.
- La libertà è l'essenza dell'uomo che l'uomo stesso produce attraverso la libera negazione dell'arbitrio. In quanto l'individuo la produce con la negazione della propria naturalità, la libertà è sacra e dello Stato che attua la sua libertà l'individuo è servitore. (Tale paradosso si verifica in ogni ambito sociale; per esempio nell'educazione: la scienza libera l'individuo, ma la si acquista con la sottomissione allo studio).
- In quanto garantisce il diritto e la libertà, lo Stato svolge la funzione che la religione ha assegnato a Dio: commisurare la felicità, ossia il diritto, alla virtù, ossia al dovere. In questo senso lo Stato è Dio interno al mondo.
Secondo
l'idea hegeliana, che lo Stato inizi come asservimento dell'arbitrio,
anziché condannarlo, fa dell'asservimento una necessità
ineludibile. La storia lo presuppone quindi come suo inizio ed è lo
sviluppo delle forme statali dal paternalismo alla monarchia
costituzionale, in cui si restaura il diritto della particolarità.
Solo a partire dall'umiliazione di ogni cupidità elementare
(l'alienazione totale dei diritti naturali, secondo Rousseau) la
volontà particolare dell'individuo è in grado di misurarsi e di
comporsi con quella degli altri. Solo se si presuppone questo
spegnersi dell'arbitrio nella sovranità diventano concepibili la
sfera privata e la democrazia; il godimento della sfera privata è
infatti condizionato dalla sicurezza, cioè dalla fiducia nella
soppressione della cupidità altrui; la democrazia presuppone infatti
che i singoli percepiscano il proprio interesse come subordinato
all'interesse generale. Poiché i diritti sono la libertà generale e
la libertà generale presuppone l'illegittimità dell'arbitrio
particolare, non ha senso riferire i diritti all'arbitrio
particolare, cioè all'uomo al di fuori della sovranità generale: i
diritti dell'uomo sono un dovere degli stati, un effetto della loro
sovranità; la soppressione della sovranità è dunque la
soppressione di ogni diritto.
Nei
termini della visione etica hegeliana, la costituzione di una
sovranità politica non può neppure essere un atto di volontà di
governanti per quanto ben intenzionati, ma può solo risultare da un
processo storico di educazione che sopprime l'arbitrio nel
dovere; solo dall'accettazione generale di questo dovere possono
sorgere i diritti di cui i governanti curano la realizzazione.
Un'unione politica come l'Unione Europea, costruita sull'autonomia
degli interessi economici particolari dalla sovranità politica, non
può dunque che risolversi in un esasperarsi delle divergenze
naturali tra i gruppi e in una soppressione dei diritti e della
libertà6.
In realtà, come denunciato da importanti economisti in numerosi
interventi, il suo fine era, anziché la genesi di una nuova
sovranità e di nuovi diritti, proprio la distruzione delle sovranità
politiche esistenti e degli strumenti con cui garantivano al loro
interno il rifluire dei doveri in diritto, per lasciare libero campo
allo sfrenarsi della cupidità: gli Stati europei hanno ceduto
sovranità all'Unione Europea perché essa la dissipasse. Jacques
Sapir ricorda spesso che in un discorso pronunciato all'università
di Stanford7
l'ex-presidente della Commissione Europea Barroso ha esaltato questo
contegno proclamando che l'Unione Europea non è «né un super-stato
né un'organizzazione internazionale». Ossia: l'Unione Europea da
una parte sopprime la sovranità degli Stati, in quanto non si
limita al ruolo modesto di facilitarne il coordinamento, come farebbe
un'organizzazione internazionale, ma è loro superiore; d'altra parte
non è uno Stato sovrano; così la sovranità ceduta dagli
Stati europei non è raccolta da un sovranità europea che la faccia
rifluire in forma di diritti sui cittadini europei, ma svanisce nel
nulla, insieme ai diritti e alla libertà.
Lo
svanire della sovranità non è dunque avanzamento in un'epoca
superiore della storia universale, è regressione nell'autocoscienza
elementare, quindi nello smisurato della cupidità e nel rapporto tra
signoria e servitù. Così, divenuti membri dell'Unione, gli Stati
europei, anziché innalzare i loro popoli nel paradiso dei diritti,
sul piano interno smantellano l'organizzazione dei poteri
costituzionali, eredità del liberalismo, distruggono la stessa
apparenza di democrazia e si privano degli strumenti per gestire i
problemi economici, sul piano esterno disarmano le loro capacità di
difesa, così da porsi alla mercé di ciechi interessi privati
sovranazionali e dell'imperialismo di quegli Stati che si sono
avvantaggiati conservando la propria sovranità mentre gli altri
l'abbandonavano.
1
Non sempre li si intende così: il Wittgenstein del Tractatus
commette l'ingenuità di camuffare da ontologia il procedimento
analitico.
2
Spesso, sulla traccia dei
fraintendimenti di Lukács e di una lettura parziale di un passo
della Fenomenologia,
si dice che il metodo hegeliano consisterebbe nel concepire la
verità come totalità.
La determinazione di totalità si presenta nella «Scienza della
logica», ma solo per incorrere nella sua dialettica, che la
dissolve nella determinazione di forza; quindi non vi rappresenta
affatto la determinazione complessiva – che è invece quella di
idea,
corrispondenza di concetto e realtà, dover-essere ed essere. Se con
totalità
intende la completezza del particolare empirico, la concezione della
verità come totalità fraintende Hegel, che concepisce invece la
verità come circolo
virtuoso, generato
dal mutare l'uno nell'altro degli estremi dello sviluppo. Così il
«sapere assoluto» con cui termina la Fenomenologia
non è affatto la stupida presunzione di sapere tutto, ma la
coscienza la quale, avendo scoperto che l'estraneità inconciliata
dell'oggetto nasce dalla propria
inquietudine critica, nel saperlo differente lo riconosce anche
identico a se stessa, così da superarsi.
3
Questo vale anche dell'autocoscienza naturale in senso ontogenetico,
quella del bambino: egli si rapporta a un oggetto di cui sa la
nullità, cioè al giocattolo (che, notò Benjamin, nella sua forma
elementare è lo scarto del lavoro degli adulti), e finisce col
distruggerlo – così realizza la sua certezza di sé.
4
Nel caso del bambino questo accade nel rapporto con la madre.
5
Per Hegel il fine della lotta per il riconoscimento non è, come
spesso si crede, vincere e sottomettere, ma il pericolo stesso –
un precedente dello heideggeriano essere-per-la
morte, con la
differenza che Heidegger si preclude il superamento di questa forma
barbarica con il suo rifiuto del lavoro.
6
Cfr. quanto confessa uno dei protagonisti della costruzione
dell'«unione» dell'Europa, in particolare dal minuto 3:30 in poi,
in https://www.youtube.com/watch?v=uIEAflRcSvo
.
7
J. M. Barroso, Speech
by President Barroso: «Global Europe, from the Atlantic to the
Pacific»,
discorso pronunciato all'Università di Stanford il primo maggio
2014.
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