Pubblico una recensione ad un libro di Ugo Bardi del 2011, che solo recentemente ho avuto l'occasione di leggere.
(M.B.)
Ugo Bardi. The Limits to Growth
Revisited, Springer 2011
Ugo Bardi insegna presso il
Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze. Gestisce il blog
“effetto risorse” e da tempo si occupa dei problemi del “picco
del petrolio”. In questo libro ripercorre la storia del famoso
testo commissionato dal Club di Roma a un gruppo di studiosi del MIT
e uscito nel 1972 con il titolo “The Limits to Growth” (d'ora in
poi LTG; in italiano “I Limiti dello Sviluppo”). Bardi
ricostruisce il percorso intellettuale che ha portato al libro, ma
soprattutto fa la storia dei dibattiti successivi alla sua
pubblicazione. Si tratta di una storia piuttosto interessante, che si
può sostanzialmente dividere in tre fasi: un grande successo
iniziale, seguito da aspre critiche che portarono, a partire più o
meno dagli anni 90, all'oscuramento delle tematiche e delle
impostazioni teoriche sviluppate nel testo, e infine una ripresa di
interesse in tempi recenti.
La rassegna di questi dibattiti, svolta
da Bardi in vari capitoli del libro, è assai accurata, ed è
finalizzata a far meglio comprendere al lettore, proprio grazie al
confronto con i critici di LTG, il senso delle tesi fondamentali del
libro. Bardi spazza subito via dal tavolo le critiche basate su
fondamentali equivoci. Le più note in questo senso sono quelle che
accusano lo studio di grossolani errori di previsione. Bardi risponde
facilmente che LTG presentava non “una previsione” ma una serie
di “scenari”, cioè differenti insiemi di previsioni dipendenti
dalle possibili azioni umane nel futuro.Le cosiddette “previsioni
sbagliate” su cui ponevano l'attenzione i critici di LTG erano
ottenute semplicemente pescando alcuni dati dentro ad uno di questi
scenari, dimenticando che appunto si trattava solo di uno scenario
possibile fra i tanti delineati dallo studio stesso. Questa
osservazione ci porta ad un altro tipo di discussione critica, più
avveduta, che Bardi prende in considerazione. L'obiezione potrebbe
infatti essere non più quella dell'erroneità di LTG, ma quella
della sua inutilità: se in sostanza non fa previsioni precise,
perché offre piuttosto una “batteria” di possibili previsioni,
dipendenti dalle azioni umane, a che serve? La risposta di Bardi, che
mi sembra condivisibile, è che lo studio non intendeva fornire
previsioni numeriche precise sull'evoluzione dell'economia mondiale
nei prossimi decenni (compito probabilmente impossibile), ma
piuttosto individuare alcune linee di tendenza generali, che
potessero indicare alle forze politiche e sociali prospettive
abbastanza chiare per indirizzare l'azione politica. Bardi rileva
infatti che, anche senza offrire previsioni numericamente precise, i
vari “scenari” concordano nel mostrare che un certo tipo
qualitativo di evoluzione appare sostanzialmente inevitabile, in
mancanza di radicali cambiamenti della nostra organizzazione politica
ed economica. In (quasi) tutti gli scenari delineati in LTG appare un
crollo della produzione e della popolazione dopo un periodo di
crescita simile all'attuale. Il “quasi” indica appunto che tale
crollo si può evitare solo in uno scenario che preveda un deciso
intervento umano di correzione degli attuali squilibri.
Abbiamo detto che in tempi recenti si è
notata una ripresa di interesse nei confronti di LTG, collegata fra
l'altro alle successive versioni dello studio (l'ultima è del 2004,
ed è apparsa in italiano nel 2006 col titolo “I nuovi limiti dello
sviluppo”). Naturalmente, questo non significa che le conclusioni
dello studio siano accettate da tutti gli studiosi, o anche solo
dalla maggioranza. Il dibattito infatti prosegue. Ma almeno, stando
al resoconto di Bardi, sembra che siano superate le incomprensioni
che hanno segnato, e un po', diciamo, “rovinato” il dibattito nei
decenni precedenti. Secondo la ricostruzione di Bardi, oggi si tende
a riconoscere che l'andamento effettivo delle variabili considerate
in LTG, nei quattro decenni seguiti alla prima pubblicazione, ha
seguito nella sostanza l'andamento previsto in uno degli scenari
delineati all'epoca. Quindi l'obiezione sul fatto che le previsioni
di LTG fossero “sbagliate” sembra per il momento aver perso
efficacia. La discussione si è spostata su altri piani, a mio parere
più interessanti. Si tratta dei temi discussi nei capitoli 8 e 9 del
libro, dedicati allo stato attuale del dibattiti sull'esaurimento
delle risorse minerali e sul ruolo della tecnologia. La tesi più
significativa, fra coloro che rifiutano le conclusioni di LTG, è
infatti quella che sostiene il ruolo centrale dello sviluppo
tecnologico, e ritiene che il difetto fondamentale di LTG sia appunto
quello di non tenerne conto. Secondo i sostenitori di questa tesi, lo
sviluppo tecnologico permetterà di sfruttare altre risorse
(energetiche, minerarie) quando le attuali saranno esaurite. In
questo senso si può sostenere la tesi, che suona certo paradossale
alle orecchie di chi si sia formato su testi come LTG, secondo la
quale “le risorse naturali sono infinite”. Essa deve appunto
essere intesa nel senso che lo sviluppo scientifico e tecnologico
metterà a disposizione sempre nuove risorse quando quelle usuali
saranno esaurite. Per capirci, il petrolio non era una risorsa
energetica nel primo Ottocento: lo è diventato quando è stata
sviluppata la tecnologia che permetteva di sfruttarlo. Allo stesso
modo, nuove tecnologie permetteranno di far diventare “risorse”
aspetti della realtà naturale che attualmente non lo sono.
È ragionevole questa prospettiva?
Bardi la discute a partire dal problema delle risorse minerarie non
energetiche, come i metalli. Come è noto, essi sono diffusi ovunque,
ma solo in pochi luoghi hanno la concentrazione sufficiente per
rendere redditizia l'estrazione. Una possibile versione della tesi
che stiamo discutendo, quella cioè che “le risorse naturali sono
infinite”, potrebbe allora consistere nell'argomentare che
l'esaurimento delle miniere redditizie porterà all'aumento del
prezzo dei metalli, e questo a sviluppi tecnologici che renderanno
redditizia l'estrazione del minerale a concentrazioni minori di
quelle attualmente necessarie, cosicché la risorsa in questione
tornerà ad essere estratta.
Il problema di questo schema, nota però
Bardi, è quello dell'energia necessaria per l'estrazione, al
diminuire della concentrazione. Il rapporto fra queste due grandezze
è grossomodo quello della proporzionalità inversa: cioè, se il
minerale da estrarre presenta una concentrazione dimezzata, occorre
il doppio dell'energia, se la concentrazione si riduce ad un terzo
occorre il triplo dell'energia, e così via. Se questa relazione si
mantiene stabile al variare delle tecnologie, appare chiaro che
l'estrazione di minerali da depositi sempre più poveri troverà un
limite nella disponibilità dell'energia (e nei suoi costi). Il
problema si sposta allora, appunto, alla disponibilità dell'energia.
Il punto essenziale sta nel fatto che per l'estrazione di risorse
energetiche sembrano valere principi analoghi. Il concetto di EROEI
(Energy Return On Energy Invested), detto anche EROI, serve appunto a
precisare questo punto. Esso è definito come il rapporto fra
l'energia ottenuta in un processo di estrazione (di petrolio, per
esempio) e l'energia consumata per l'estrazione. Indica cioè il
“guadagno energetico” del processo di estrazione. Ovviamente,
l'estrazione ha senso solo quando l'EROEI è maggiore di uno. Non è
facile il calcolo preciso dell'EROEI,
come nota lo stesso Bardi altrove, ma sembra comunque che la tendenza sia
verso una sua lenta diminuzione, almeno per quella che è attualmente
la principale fonte energetica, il petrolio (a questo proposito di
veda anche il capitolo 6, pagg. 77-85, del libro di di Luca Pardi “Il
paese degli elefanti”, edizioni LUCE, in particolare a pag.81).
Questa lenta diminuzione pare essere avvenuta nonostante gli indubbi
progressi tecnologici nelle tecniche di estrazione del petrolio. Tali
sviluppi, cioè, possono sì rendere possibile estrarre petrolio “non
convenzionale” come lo
shale oil, ma non invertono la
tendenza alla diminuzione dell'EROEI. In questo modo sembra che ci
stiamo avvicinando, indipendentemente dagli sviluppi tecnologici, al
punto in cui per estrarre un barile di petrolio occorrerà consumare
un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio, per
quanto abbondante possa ancora essere, cesserà di essere una risorsa
energetica.
Se queste tendenze venissero confermate
in futuro, sarebbe lecito un certo scetticismo nei confronti della
tesi che “le risorse naturali sono infinite”. Verrebbe invece
corroborata la tesi generale che la nostra organizzazione sociale sta
entrando in una fase di “rendimenti decrescenti”, rendendo quindi
necessaria una “grande transizione” ad una diversa organizzazione
sociale. Queste tesi sono ormai sostenute da diverse voci: per un
inquadramento generale, si veda il libro di Mauro Bonaiuti “La
grande transizione”, Bollati Boringhieri 2013. Si tratta di temi
rispetto ai quali c'è urgente bisogno di un dibattito razionale
serio e approfondito e per chi voglia continuare, anche da posizioni
diverse, nella pratica del dibattito razionale, il testo di Bardi è
senz'altro di grande aiuto.