(M.B.)
Guerra
e rivoluzione. Per la filosofia del patriottismo
(Paolo Di Remigio)
In
uno scritto giovanile Hegel chiarisce il punto di vista da cui
interpretare i suoi successivi “Lineamenti di filosofia del
diritto”: «Una moltitudine umana può chiamarsi “stato” solo
se è legata per la difesa comune del complesso delle sue
proprietà»1.
Ossia, ciò che porta gli elementi di una moltitudine a voler
negare il proprio arbitrio e a sottomettersi a un potere che impone
la coordinazione in un collettivo, è la necessità di questa
coordinazione per fronteggiare la guerra: poiché teme di perdere
sotto un dominio estraneo la proprietà non solo delle cose in
generale, ma anche di quella cosa particolare che è il proprio
corpo, l'individuo considera l'indipendenza dello stato così
importante da volerle
sacrificare la propria indipendenza naturale, la vita e la proprietà
in cambio della difesa collettiva della vita e della proprietà. In
una parola: solo il timore di perdere tutto può convincere
gli individui a sacrificare la loro individualità esclusiva e a
diventare elementi di una moltitudine che proprio per questa
solidarietà diventa stato. Gli altri caratteri dello stato – se
comandi uno o se comandino pochi o molti, se chi comanda sia stato
eletto o abbia acquisito il potere per nascita, se gli individui
abbiano uguaglianza giuridica, se le leggi e l'imposizione fiscale
(proprio come i pesi, le misure e la moneta) siano uguali, se ci sia
omogeneità di costumi, di educazione e di lingua, se ci sia
differenza di religione – sono secondari:
nessuna forma di governo, nessuna identità,
né etnica, tanto meno razziale, né culturale, costituisce la
determinazione necessaria dello stato; solo la volontà
dell'individuo di sacrificare la sua sfera privata in vista della
costituzione di una forza collettiva che difenda la stessa sfera
privata (ciò che Hegel chiama “idealismo” dello stato)
conferisce spessore solidale alla moltitudine, ne fa un'unità etica.
L'essenza dello stato contiene dunque il paradosso
inevitabile di
difendere la sfera privata solo a costo della stessa sfera privata; e
questo paradosso (Hegel lo chiama “speculativo”) è la libertà
del cittadino: mentre l'arbitrio è l'esclusività propria
dell'individuo, la
libertà è l'esclusività che si conserva mediante la propria
negazione.
La
determinazione hegeliana dell'essenza dello stato ha un precedente
nella “Repubblica” di Platone2.
Questi, infatti, ha visto nella divisione del lavoro la causa della
socialità degli uomini: il lavoro è più produttivo, il consumo più
abbondante e la vita più felice, se gli uomini si specializzano nel
produrre e si scambiano le eccedenze. Nella concezione platonica, a
differenza, e forse più correttamente, che nella concezione
marxiana, la divisione del lavoro non dà origine all'antagonismo di
classe, ma alla collaborazione sociale. Benché faccia suo l'ideale
di una società povera che limitando i consumi all'elementare si
mantiene ugualitaria, Platone riconosce l'insopprimibilità della
tendenza al lusso; essa, implicando maggiore bisogno di risorse
naturali, rende rivali le diverse società; questa rivalità è la
possibilità della guerra, e la possibilità della guerra genera il
potere, ossia trasforma la divisione del lavoro interna alla società
in una divisione di classe: sono necessari guerrieri di professione,
i guardiani, che dovendo provvedere al rapporto tra la loro società
e le altre si rapportano non ai singoli compatrioti, ma alla società
come a un intero, cioè vi esercitano il potere. Solo a questo punto
la società primitiva diventa stato.
Rispetto
alle intuizioni platoniche le concezioni moderne fino a Rousseau
perdono incisività. Tutte cercano di determinare lo stato a
prescindere dal
rapporto tra gli stati, quindi fanno fatica a concepire come
l'individuo possa rinunciare al suo arbitrio, accettare la
sottomissione e cercare la libertà entro
questa sottomissione. Hobbes, per esempio, concepisce la minaccia
della guerra come effetto del diritto di natura insito
nell'individuo,
che l’individuo stesso spegne una volta per tutte – a parte
l'eccezione dell'illecito – unendosi agli altri e insieme
sottomettendosi al potere statale. Egli è troppo condizionato
dall'esperienza della guerra civile e dalla sicurezza esterna che la
sua patria, l'Inghilterra, gode in virtù della sua insularità, per
considerare la minaccia della guerra, anziché semplice istanza
psicologica, realtà sempre attuale prodotta dall'esistenza di una
pluralità di stati sovrani.
Ancora
meno incisiva di quella di Hobbes la teoria dello stato di Locke. Per
lui lo stato ha la funzione di difendere la proprietà nel senso
ristretto del diritto sulle cose esterne; ma ciò che la minaccia non
è la guerra, bensì l’illecito. Così Locke affronta il problema
dello stato con la limitazione comune a tutte le teorie
contrattualistiche, facendo cioè uso di un corredo concettuale
tratto dal diritto privato
per spiegare il diritto pubblico.
Contro questa confusione Hegel osserva che il diritto pubblico è
alla base del diritto privato e in caso di contrasto prevale. «Una
minima riflessione permette di capire che il nesso tra principe e
suddito, tra governo e popolo, ha a fondamento dei loro rapporti
un'unità originaria e
sostanziale, mentre
nel contratto si inizia dal contrario, cioè dall'uguale indipendenza
e indifferenza reciproca tra le due parti; un accordo che esse
stringano su qualcosa è un rapporto casuale, che nasce dal bisogno e
dall'arbitrio soggettivo di entrambi. Da tale contratto si
differenzia essenzialmente il nesso nello stato, che è un rapporto
oggettivo, necessario, indipendente dall'arbitrio e dal gradimento; è
un dovere in sé e per sé, dal quale dipendono i diritti; nel
contratto, invece, l’arbitrio concede reciprocamente diritti, dai
quali poi scaturiscono doveri»3.
Il diritto privato sembra legare due individui nella loro
indipendenza,
cioè nella loro esclusività reciproca; ma perché si osservino i
doveri previsti dai contratti occorrono persone non semplicemente
indipendenti, ma libere, tali cioè che siano indipendenti tramite
negazione della loro indipendenza, così che riconoscano un potere da
cui sono a loro volta riconosciute, un potere statale legittimo,
che garantisca l'esecuzione delle clausole del contratto. Solo in
quanto sono sudditi di un principe, in quanto sono popolo sotto un
governo, gli individui acquisiscono esclusività rinunciando alla
loro esclusività, accettano quindi di affermare la loro
particolarità inchinandosi alla maestà della legge, cioè di
ottemperare ai doveri che il contratto implica per goderne i diritti.
Soltanto la presenza necessaria del diritto pubblico nel diritto
privato, nessuna mistica totalitaria, conduce Hegel a parlare di
unità originaria e sostanziale tra governo e popolo.
In
questa determinazione Hegel sviluppa un pensiero di Rousseau, che
così aveva enunciato il problema di cui il contratto sociale vuole
essere la soluzione: «Trovare una forma di associazione che difenda
e protegga con tutta
la sua forza comune la persona e i beni di ogni associato, e tramite
la quale ciascuno, pur unendosi a tutti, non obbedisca che a se
stesso e resti così libero come in precedenza»4.
Come si vede, il problema di Rousseau è articolato in due punti: da
una parte il carattere difensivo dello stato, dall'altra l'esigenza
della libertà dei suoi membri. Rousseau sembra non ricavare la
seconda dalla prima; in effetti, però, solo il genere di contributo
che un'associazione esige dagli associati ne determina la natura.
Quell'associazione che per difendere e proteggere la persona e i beni
degli associati arriva a esigere il sacrificio della persona e dei
beni degli associati ha una carattere pubblico
e nella sua forma normale
è uno stato. Proprio questa esigenza, che fa dello stato non solo un
comunità di interesse, ma un'unità etica,
è dunque quell'alienazione totale dell'arbitrio naturale dei
singoli, il dovere assoluto cui tutti sono tenuti e da cui derivano i
diritti di ciascuno, sul quale si basa il contratto sociale. Poiché
invece nel pensiero di Rousseau la seconda
esigenza appare indipendente dalla prima,
vi diventa illegittima ogni forma di stato che non emani dalla
volontà diretta e
consapevole dei
singoli cittadini – il che equivale al paradosso di fare della
legittimità dello stato un'eccezione anziché la regola. Dal punto
di vista della prima esigenza non è affatto la partecipazione
consapevole
dei cittadini all'attività legislativa ciò che determina la
legittimità di uno stato, ma la loro volontà di versare “lacrime
e sangue” per conservarlo sovrano. In sua assenza la partecipazione
consapevole degli individui agli affari pubblici, esprimendo
interessi essenzialmente particolari, potrebbe addirittura portare
alla distruzione dello stato per la mancanza di una base su cui
comporli.
Hegel
valorizza la prima
esigenza di Rousseau, tanto da considerare tutte le caratteristiche
dello stato secondarie
rispetto al compito di difendere i suoi membri, e così può
ricavarne la seconda. È vero: produce differenza sul genere di
libertà degli individui che il potere statale sia gestito da
un'aristocrazia o da un monarca assoluto o da una democrazia;
nondimeno, il potere statale è legittimo in quanto gli individui,
più o meno liberi secondo la costituzione interna, si sottomettono
spontaneamente
agli obblighi per cui lo stato può conservarsi e difendere la
totalità delle loro proprietà.
Viceversa,
ignorare la minaccia della guerra comporta il rifiuto radicale del
potere, non solo statale, ma in tutte le sue forme: del potere
aristocratico, cioè della classe guerriera, sui produttori, del
potere che organizza il complesso sociale, del potere che gestisce
l’attività economica, di quello che determina la sfera familiare.
Il rifiuto di considerare l'eterna attualità della guerra è cioè
il fondamento dell'anarchismo: incapace di tollerare il paradosso
della libertà, anziché concepire il potere statale come una difesa
necessaria contro la naturalità della guerra, con uno stravolgimento
analogo a quello operato da Rousseau rispetto alla cultura, esso
ignora la natura esclusiva dell'individuo naturale,
lo finge come traboccante simpatia nei confronti degli altri
individui, così non può che concepire la guerra come un effetto
degenerativo dell'artificialità del potere statale sugli individui
naturali. D'altra parte la prassi degli anarchici consiste nella
violenza contro l'artificialità dell'ordine garantito dal potere
statale, in modo da ripristinare la benevolenza degli individui
naturali; ma il ripristino della natura benevola, in quanto è
mediato dalla violenza, fa della stessa natura ripristinata un ordine
fondato sulla violenza. Che la volontà anarchica di restaurazione
della benevolenza originaria abbia in mente soltanto la nobile meta e
non il movimento che la raggiunge, tradisce la possibilità che con
la nostalgia dell'armonicità originaria essa mascheri il bisogno
naturale di devastazione; in questo secondo senso, quello per cui la
negazione della negazione è comunque negazione, è il desiderio
rimosso della devastazione a generare il rifiuto radicale del potere
statale, di cui non si tollera la difesa dell'ordine. Quando questa
intolleranza diventa consapevole e la devastazione è desiderata per
sé l'anarchismo muta in fascismo.
La
polemica anarchica nei confronti dello stato ha la sua forma più
ingenua nella confusione tra stato e nazionalismo. Tra i due concetti
c'è differenza, non solo perché lo stato per sé non implica
omogeneità naturale o culturale, quale quella cui rinvia il termine
nazione,
ma soprattutto perché mentre lo stato organizza la guerra in vista
del suo dovere di difesa da un impulso di devastazione, che gli
preesiste essendo proprio dell'uomo in generale, il nazionalismo è
aggressivo perché esprime proprio l'impulso di devastazione5.
Ha dunque alcunché di folle che il comprensibile rifiuto
dell'aggressività nazionalistica porti a trascurare l'eventualità
che una moltitudine, per quanto pacifica e disposta a negoziati e a
compromessi, possa essere aggredita dall'esterno, e a negare la
necessità che debba avere i mezzi per difendere la propria sovranità
e che possa farlo solo se accetta di unirsi sotto il potere statale.
Da un punto di vista soggettivo: è impensabile non riconoscere come
virtù il coraggio di contribuire alla difesa collettiva. Il destino
degli ebrei europei, una nazione priva di stato, cioè indifesa, fino
alla prima metà del Novecento, offre una triste controprova del
principio che la rinuncia a difendersi non costituisce una garanzia
contro l'impulso allo sterminio.
Marx
ha considerato idealistica la filosofia hegeliana e ha dichiarato di
aver fatto sua la dialettica dopo averla liberata dal misticismo. La
difficoltà di comprensione dei testi hegeliani produce un'apparente
conferma a questi giudizi. Una lettura più attenta mostra però che
nella filosofia hegeliana non c'è proprio nulla di mistico, che la
differenza profonda tra i due filosofi non ha niente a che fare con
l'alternativa tra idealismo e materialismo, ma si radica nel loro
atteggiamento verso il paradosso: Hegel fa ogni sforzo per
valorizzarlo, Marx per mostrarne l'intollerabilità e il suo moto di
dissoluzione verso una condizione che ne sia libera. Così per Hegel
la storia nel suo nucleo filosofico è il progresso delle forme
statali verso la generalizzazione del paradosso della libertà
individuale – dal dispotismo orientale, in cui uno
solo è libero, alla monarchia costituzionale moderna, in cui ognuno
è libero in quanto soggetto non alla volontà particolare di chi
esercita potere, ma alla legge; per Marx la storia è il progresso
del dominio tecnico sulla natura nel contesto della lotta tra le
classi sociali, rispetto alla quale l'evoluzione dello stato e della
libertà è una semplice illusione che non solo non elimina, ma
consolida l'esistenza delle classi, la scissione per cui una parte
della società lavora, l'altra vive e gode parassitariamente del
lavoro altrui. Il comunismo, verso cui l'evoluzione della storia è
diretta, da una parte presuppone un aumento della produttività del
lavoro tale da farne cessare il carattere tormentoso, dall'altra
elimina le classi sociali, cioè lo sfruttamento, dissolvendo ogni
illusione che le rinforzava, compresa quella dello stato. Non è
troppo audace osservare che il pensiero di Marx congiunge fiducia
nella tecnica e anarchismo per neutralizzare la dialettica.
Mentre
Hegel riconosce la verità dello stato moderno nella sua forza di
tenere insieme la società nella sua differenziazione, Marx
concepisce lo stato come illusione in quanto nella differenziazione
scorge la lotta mortale tra la borghesia e il proletariato. Non gli
stati, dunque, ma la borghesia e il proletariato sono le unità
ultime: solo in forza di un'illusione il proletario potrebbe
combattere per difendere lo stato di cui è membro, solo perché non
ne ha compreso la natura di strumento del dominio borghese; acquisita
coscienza di classe egli diventa militante del partito comunista,
disposto a sacrificare la vita per un mondo senza contraddizione. Il
passaggio dalla concezione hegeliana a quella marxiana non è quindi
un semplice cambiamento di costume dei medesimi attori: non è che
l'antagonismo prima si travesta da lotta tra stati e poi da lotta tra
classi; questo passaggio è un cambiamento completo di scena. Gli
stati hegeliani, mentre compongono i contrasti interni, nei rapporti
reciproci oscillano tra pace e guerra, ed elaborano un diritto
internazionale con cui si sforzano di realizzare il dover-essere
della pace6;
questo oscillare per Hegel è una realtà ineludibile, non solo di
fatto, ma anche dal punto di vista logico: dipende dalla natura
speculativa della libertà, dal fatto che, come abbiamo già visto, è
la necessità della difesa dall'aggressione esterna che garantisce la
base su cui l'esclusività degli interessi all'interno dello stato
può essere composta – per quanto egli riconosca la progressività
storica della limitazione della violenza. Resta il fatto che
l'oggettività della contraddizione, l'ineludibilità del paradosso,
conduce Hegel a riconoscere l'oscillare
tra pace e guerra come condizione storica normale. A questa
oscillazione Marx contrappone la continuità
della lotta tra le classi che mediante l'annientamento del
capitalismo termina
in una società non più antagonistica: i proletari sono sempre
in lotta, dunque devono unirsi in un partito e questo partito deve
prendere il potere e gestirlo in forma dittatoriale fino
all'estinzione della borghesia e dei presupposti sociali dei
contrasti di classe. Rispetto a Hegel, Marx non solo non accetta la
realtà dello stato e la possibilità che esso componga conservandola
la contraddizione, gli interessi contrastanti, all'interno della
società, ma promuove una lotta inesorabile tra classi che può
estinguersi solo tramite il superamento messianico della
contraddizione storica nell'identità di una pace
perpetua finale.
Sebbene
sia un tema da cui dipende la valutazione di quanto l'inesorabilità
marxiana sia responsabile della portata sterminatrice del comunismo
nel Novecento, non è questo il contesto per affrontare la
consistenza logica della separazione tra contraddizione (la storia) e
identità (il comunismo). Si deve constatare però che l'alternativa
tra realtà e illusione non affligge solo lo stato ma anche la classe
sociale: per questa come per quello ciò che decide della realtà è
la disposizione dei suoi membri a sacrificarsi in suo favore. E
questo significa che è un errore determinare a
priori che lo stato
sia illusorio e la classe sociale sia reale: spaventose tirannie in
nome della lotta di classe come l'Unione Sovietica staliniana, che
sarebbero dovute crollare al primo urto esterno, hanno saputo
suscitare il patriottismo nel momento della verità, mostrando così
la loro consistenza di stato;
mentre l'unione della classe operaia non solo si è mostrata spesso
una semplice illusione, ma ha acquisito la compattezza necessaria
all'azione rivoluzionaria solo nella crisi di consenso dello stato e
si è mostrata profondamente connessa con lo sforzo di ricostituirlo.
Che
una rivoluzione puramente operaia non si sia mai verificata non è un
caso, ma è implicato nel concetto di classe operaia. In sede di
riflessione politica Marx sopravvaluta il potere del lavoro degli
operai di vivificare il lavoro morto contenuto nei mezzi di
produzione, e trascura che col progresso materiale del capitalismo la
classe operaia diventa sempre più dipendente
dal capitale, sempre meno in grado di costituire un associazionismo
sovrano in grado di organizzare la rivoluzione. Questo spiega il
fatto che di solito le rivoluzioni socialiste non sono avvenute in
stati capitalisti evoluti e che sono state sempre connesse con la
guerra. La Comune
parigina fu innanzitutto
volontà di non rassegnarsi alla pace vergognosa sottoscritta con la
Prussia dal governo di Versailles: senza la guerra franco-prussiana e
il patriottismo della città di Parigi essa non sarebbe pensabile. La
stessa rivoluzione bolscevica nasce all'interno della prima guerra
mondiale: Lenin rompe la sudditanza della Russia verso la Francia e
l’Inghilterra che non consentono la sua pace separata con i
tedeschi; e la successiva guerra civile non è soltanto lotta di
classe contro il mondo feudale russo, è anche guerra contro le
potenze vincitrici del conflitto mondiale che inviano i loro
contingenti in Russia o finanziano la Polonia perché si butti nella
mischia. La storia dell'internazionalismo, che da ultimo diventò –
è bene ricordarlo – eufemismo per mascherare l'oppressione
dell'Unione Sovietica sui paesi satelliti, è la storia della sua
dissoluzione nella realtà degli stati: già i partiti socialisti
aderenti alla seconda Internazionale non fanno nulla per organizzare
gli operai europei contro la prima guerra mondiale, la terza è
direttamente al servizio degli immediati interessi statali
dell’Unione Sovietica. Tutte le altre rivoluzioni che, a partire da
quella cinese, si sono dichiarate socialiste
rientrano nella lotta contro il colonialismo, hanno quindi un
carattere di guerra contro stati stranieri non meno che di lotta di
classe. Soprattutto, il risultato storico delle rivoluzioni
socialiste vittoriose è stato la costruzione di uno stato sovrano,
non l'internazionalismo: la Russia, la Cina sono diventate le potenze
attuali per mezzo delle rivoluzioni di Lenin e di Mao; con la
rivoluzione castrista Cuba si è sottratta al destino di repubblica
delle banane e ha conquistato la sua sovranità statale.
Poiché
popolo e stato sono complementari, l'indebolimento dello stato non
è il rafforzamento del popolo, la sua scomparsa non è la fine della
contraddizione implicata dalla libertà, ma il suo sfrenarsi
nell'indipendenza di poteri particolari
che perseguono i propri fini senza la visione dei problemi
complessivi e paralizzano l'azione politica per affrontarli. È
urgente liberarsi dalla diffamazione del patriottismo e liquidare la
rinuncia del materialismo storico alla dialettica, non tanto per
salvare le forze che ne sono eredi più o meno consapevoli – la
sinistra che si fa strumento della finanza e dei grandi monopoli va
combattuta come il nemico, quella che si perde in sogni rivoluzionari
impotenti va lasciata al suo delirio –, quanto perché esse sono
divenute ingredienti di un comune sentire, che per sfuggire il
paradosso etico diventa incapace perfino di percepire la presente
deriva storica verso la sciagura universale.
1
G. W. F. Hegel, Die
Verfassung Deutschlands,
in Frühe
Schriften,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1971, p.472. Nei
Lineamenti di
filosofia del diritto
questo principio appare in tutta chiarezza nel § 324: «La
determinazione con cui l'interesse e il diritto dei singoli sono
posti come momenti evanescenti è anche il positivo:
il positivo della loro individualità non casuale, non variabile, ma
essente in sé e per
sé. Questo rapporto
e il suo riconoscimento sono dunque loro dovere sostanziale – il
dovere di conservare la loro individualità sostanziale,
l'indipendenza e la sovranità dello stato mettendo in pericolo e
sacrificando la proprietà e la vita, l'opinione e tutto ciò che è
compreso nell'ambito della vita.»
3
G. W. F. Hegel, Verhandlungen
in der Versammlung der Landstände des Königsreichs Württemberg im
Jahr 1815 und 1816,
in Nürnberger
und Heidelberger Schriften 1808-1817,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, p. 505.
4
Cfr.
http://classiques.uqac.ca/classiques/Rousseau_jj/contrat_social/Contrat_social.pdf,
p. 17. Il corsivo
è nostro.
5
Un impulso di devastazione che può costituire lo sfondo
antropologico dell’esigenza economica di stimolare la domanda di
merci per mezzo della guerra.
6
Cfr. il § 330 dei Lineamenti:
«Il diritto internazionale parte dal rapporto
tra stati indipendenti; ciò che in esso è in
sé e per sé
acquisisce la forma del dover-essere,
perché la sua effettività poggia su volontà
sovrane differenti»,
e il § 338 «In quanto gli stati si riconoscono reciprocamente come
tali, anche in guerra,
nella situazione di assenza del diritto, di violenza e di casualità,
resta un legame
per cui gli stati valgono l'un per l'altro come essenti in sé e per
sé, così che proprio entro la guerra la guerra è determinata come
qualcosa che deve passare.»
In fondo non sono riuscito ad arrivarci. Sorry. Manca, a mio avviso, fin dapprincipio, una riflessione relativa alla costruzione di senso (condiviso?).
RispondiEliminaCiao.
carlo (quello del flauto)
Riassumo le mie tesi: l'individuo, il singolo, è definito non tanto dall’inclusività, come crede l'anarchismo, quanto da una esclusività che rende radicalmente precari i legami sociali; ciò che li consolida al punto da subordinare una moltitudine entro uno stato nasce dall'esclusività che la moltitudine conserva rispetto ad altre moltitudini: i molti individui superano la loro esclusività, si riconoscono membri di uno stato, in quanto hanno necessità di difendersi. La possibilità della guerra e la volontà dei membri di lottare per conservarlo è il fondamento dello stato. È quindi erroneo pensare (alla Giovanni Gentile) che l’individualità non sia un valore e che lo stato ne superi completamente l'esclusività; essa vi si mostra come libero differenziarsi degli interessi e come raggrupparsi di questi in classi, le cui relazioni possono assumere l'intensità della lotta. Ma è altrettanto erroneo pensare (come Marx) che lo stato sia una semplice illusione perché tra le classi ci sarebbe sempre e solo una lotta mortale; infatti gli interessi di classe possono essere composti in vista del pericolo esterno. Se dunque il patriottismo può degenerare in nazionalismo guerrafondaio, anche l’internazionalismo può degenerare in tradimento degli interessi complessivi di uno stato in favore degli interessi di un altro stato. La prima guerra mondiale mostra la prima degenerazione, il secondo dopoguerra (che a quanto pare non è ancora finito) mostra la seconda. Nella storia nessun ideale è una via sicura per il regno dei cieli. Ora è urgente che quanti vogliono salvare la società italiana ed europea dalla barbarie riscoprano i valori della coesione politica.
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