Come era prevedibile aspettarsi,
l'esito infausto della vicenda greca sta cambiando qualcosa, nelle
riflessioni interne al variegato mondo “antisistemico”, che è
costretto a confrontarsi con quelle che, in altro contesto, Bobbio
chiamò “le dure repliche della storia”.
Finalmente una parte di quel mondo sta
accettando una delle nostre tesi di fondo: cioè il fatto che mettere sul tavolo l'uscita dall'euro, almeno come “piano B”, è
una condizione necessaria (anche se, come abbiamo ripetuto molte
volte, non sufficiente) per qualsiasi programma politico di contrasto
ai ceti dominanti nazionali e internazionali.
Ci sembra importante segnalare le
sempre maggiori aperture che si stanno registrando in questo mondo,
perché anche di qui passa la necessaria costruzione di un soggetto
politico realmente antagonistico all'attuale organizzazione sociale.
Senza nessuna pretesa di esaustività,
indichiamo alcune prese di posizione succedutesi dopo la sconfitta di Syriza (qualcuna l'avevamo già segnalata in post precedenti).
Riccardo Achilli prende una posizione netta a favore
della nascita di “una sinistra nazionale, che mette l'uscita
dall'euro al centro della sua proposta, e lo smantellamento della
sovrastruttura comunitaria, che deve essere considerata un nemico,
non un interlocutore.”
J.K.Galbraith, in un'intervista pubblicata su "Sbilanciamoci", si chiede "può un paese che ha pagato sulla propria pelle il drammatico
fallimento delle politiche europee sperare
di cambiare quelle politiche all’interno della
cornice dell’eurozona?" e risponde molto semplicemente "Bene, penso che la risposta a
quella domanda sia evidente a tutti.". Si tratta di un intervento molto interessante, dal nostro attuale punto di vista, soprattutto perché
pubblicato su sbilanciamoci.info, un sito che rappresenta uno dei
punti di riferimento del mondo della sinistra pro-euro.
Un intervento di Dino Greco, della
Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista, invita il suo partito a prendere finalmente coscienza del fatto che "l’euro è
l’instrumentum regni, la tecnicalità monetaria di una politica
socialmente reazionaria, di una inaudita oppressione di classe che
trascina con sé una drammatica fuoriuscita dalla democrazia".
In questo articolo discuteremo tre interventi pubblicati sul sito di Attac-Italia. Il primo è dell'amico Marco Bertorello, che
è l'autore di “Non c'è euro che tenga”, un testo interessante e informato, la
cui tesi fondamentale è riassunta dal sottotitolo “per non
piegarsi alla moneta unica non serve uscirne”.
In un suo articolo pubblicato sul "Il Manifesto" e ripreso sul sito di Attac-Italia, Bertorello dimostra di essere capace di tenere conto delle "dure repliche della storia". Dopo aver rapidamente analizzato la vicenda greca, conclude infatti “Da
ora non è pensabile un cambiamento reale senza mettere in conto
un'uscita dalla moneta unica e senza attrezzarsi di conseguenza. Non
perché l'uscita rappresenti una soluzione: i problemi globali con
cui localmente ogni paese è costretto a misurarsi non si risolvono
con espedienti monetari e neppure di geopolitica (la Russia di Putin
non fa beneficenza). Ma perché l'irriformabilità continentale
impedisce di perseguire il benché minimo cambiamento.”
Da
quando abbiamo cominciato a occuparci dell'euro, cioè da circa 4
anni a questa parte, non abbiamo fatto altro, in ultima analisi, che
sostenere questa stessa tesi, argomentandola al meglio delle nostre
possibilità. Data
questa sostanziale convergenza di vedute con Bertorello, possiamo
provare a fare assieme a lui un passo in più, ragionando sul fatto
che il “piano B”, se davvero venisse preparato da una forza
politica di governo del tipo di Syriza, tenderebbe inevitabilmente a
trasformarsi in piano A. Come
dimostra la Grecia, qualunque tentativo di porre fine all'austerità
e all'egemonia tedesca fallirebbe, a causa dell'irriformabilità
della costruzione europea. È
davvero ingenuo, infatti, chi pensa che la crisi greca avrebbe avuto
sbocchi diversi se le posizioni anti austerità fossero state
appoggiate da più governi. La posizione tedesca, e dei paesi ad essa
più vicini, è chiarissima: o si sta nella moneta unica alle loro
condizioni, o si esce. La Germania ha il suo piano B. Se e quando la
loro egemonia dovesse essere messa in discussione (cosa molto
improbabile), Merkel e Schauble non esiterebbero a far saltare il
tavolo, ponendosi di fronte alla propria opinione pubblica come
coloro che hanno impedito che i contribuenti tedeschi pagassero gli
sprechi di Stati cialtroni. Riceverebbero plauso ed appoggio,
nonostante le difficoltà che il crollo della moneta unica
comporterebbe per la Germania.
Date
queste premesse, il punto fondamentale è che una forza politica
antisistemica che abbia ambizioni di vittoria alle elezioni, e quindi
di governo, non può certo nascondere ai propri elettori la
possibilità che, per liberarsi dalla gabbia dell'austerità imposta
dai partner europei, sia necessario lasciare la moneta unica. Questo
non solo per elementare deontologia democratica, ma soprattutto
perché, come abbiamo spiegato più volte, il recupero della
sovranità monetaria non rappresenta affatto la soluzione a tutti i
problemi: essa rappresenta piuttosto la condizione necessaria per
poter scegliere fra politiche economiche e sociali diverse fra loro. Una
volta fuori dall'euro, ciascun ceto sociale proverà a far valere nella nuova situazione i
propri interessi, e a condizionare le scelte politiche. Si aprirà
così un periodo di scontri sulle varie questioni, a cominciare
ovviamente dal tema di chi dovrà sopportare i costi dell'uscita
stessa. E in tale contesto, le forze antisistemiche potranno contare
solo sull'appoggio dei propri ceti sociali di riferimento, che non
possono quindi essere ingannati o tenuti all'oscuro di scelte così
importanti. Al contrario, devono essere ben informati e preparati.
Tutto
questo rende chiaro come l'uscita dall'euro, sia pure come “piano
B”, deve necessariamente far parte del programma esplicito di una
formazione politica antisistemica, la quale, probabilmente, proprio
per questo, in caso di vittoria elettorale si troverebbe
immediatamente di fronte a fughe di capitali, corse agli sportelli
bancari, speculazioni sui mercati. Ed
ecco che il piano B si troverebbe automaticamente trasformato in
piano A, dato che l'uscita dall'euro diventerebbe una delle tante
necessarie misure di emergenza che occorrerebbe prendere.
Fin in
qui abbiamo citato articoli che convergono sulle nostre tesi. In
chiusura di questo pezzo analizziamo brevemente due interventi di
diversa impostazione.
Il primo è di Marco Bersani (portavoce di Attac-Italia). Il pezzo sembrerebbe rappresentare un
passo in avanti nella presa di coscienza su cosa siano in realtà
euro e UE. In esso appaiono infatti espressioni molto forti, fino ad
arrivare alla decisa affermazione dell'irriformabilità dell'UE e
della necessità di far saltare i vari trattati. Su queste premesse,
a noi sembrerebbe inevitabile la convergenze su posizioni sovraniste
e anti-euro. Purtroppo la lucidità che Marco Bersani dimostra nella prima
parte del suo intervento si perde completamente nel finale. La presa
di posizione anti-euro viene rifiutata in quanto “arma di
distrazione di massa”: invece di discutere della moneta unica
bisognerebbe, dice l'autore, spendersi per la costruzione di un “processo
costituente europeo” che dovrebbe basarsi non più sull'Europa dei
popoli, bensì sui “popoli dell'Europa”.
Di fronte a simili prese di posizione è
necessario essere molto chiari: Bersani sta parlando del nulla.
È
triste vedere come il portavoce di Attac si abbassi ad utilizzare uno
dei metodi della peggior politica: pronunciare vuoti giri di
parole per evocare alti ideali, stando ben attenti a non indicare
alcunché di concreto. Qualunque persona intellettualmente onesta
riconosce che non esiste (e non esisterà per decenni) alcuna
possibilità che si concretizzi l'auspicato “processo costituente
europeo” su base popolare. Bersani riconosce la totale negatività
dell'UE, ma il suo rifiuto delle posizioni anti-euro gli impedisce
uno sbocco politico coerente. Come spesso succede nel mondo
antisistemico, la radicalità degli enunciati generali si abbina ad
una totale incapacità di pensare una prospettiva politica concreta,
senza la quale è (giustamente) impossibile costruire consenso. Marco Bersani non si preoccupa del fatto che
la sua proposta sia totalmente fuori dalla realtà. Lancia parole al
vento, il cui effetto non può che essere l'assoluta marginalità
politica, sociale e culturale.
L'ultimo intervento di cui vogliamo
discutere è quello di Pino Cosentino, anch'esso pubblicato sul sito
di Attac-Italia.
La nostra impressione è che le
obiezioni sollevate dall'amico Cosentino si mantengano all'interno di
uno schema che abbiamo già incontrato molte volte, nelle nostre
discussioni su questi temi: si tratta della tesi che rifiuta la
necessità, qui ed ora, di porre la battaglia per l'uscita dall'euro
al centro del proprio agire politico, con l'argomento che i problemi
veri sono altri.
Naturalmente la definizione di quali
siano “i veri problemi” cambia a seconda degli interlocutori. In
questi anni ci siamo sentiti dire che il problema non è l'euro ma il
capitalismo, oppure che non è l'euro ma la globalizzazione, oppure
che non è l'euro ma la mancanza di un progetto di società
comunista.
Secondo Cosentino il vero problema non
è l'euro, ma la nascita di “una
nuova soggettività, che per la prima volta non sia una minoranza
privilegiata che debba mantenersi al potere usando la forza
coercitiva dello Stato, manipolando le coscienze, distribuendo
prebende, creando clientele”. Cosentino sta cioè parlando della
nascita di un soggetto sociale e politico di tipo partecipativo,
capace di cambiare radicalmente i rapporti di potere esistenti, in
modo che il potere stesso non sia più esercitato da un ceto di
privilegiati, bensì dal popolo organizzato in base ai principi della
democrazia partecipativa. Sulla
base di questo, l'autore si dichiara d'accordo con noi
e Bertorello, ma riesce contemporaneamente a condividere la tesi di
Bersani sul fatto che l'euro sia “strumento di distrazione di
massa”, perché la questione su cui concentrarsi non sarebbe,
appunto, l'euro, ma la costruzione della soggettività partecipativa.
Questo intervento di Cosentino tocca in
effetti un tema importante, quello della necessità di una
rivoluzione nei rapporti di potere. Per Cosentino è illusorio
sperare di eleggere un ceto dirigente migliore dell'attuale, capace
di attuare politiche favorevoli ai ceti popolari. L'unica speranza
risiede nell'allargamento effettivo della partecipazione democratica
alle decisioni politiche. Pertanto, nel dibattito attuale, non appare
molto importante stabilire se si stanno proponendo scelte politiche
giuste o sbagliate (e Cosentino riconosce che l'uscita dall'euro è
una proposta giusta) perché esse, giuste o sbagliate, non
cambierebbero i rapporti di potere in essere.
Anche una proposta giusta, quindi,
diventa un' “arma di distrazione di massa” in quanto distoglie
dalla vera questione, la costruzione della democrazia partecipativa.
La
nostra risposta a Cosentino è simile a quella che abbiamo già dato
a chi ha sostenuto che vi fossero questioni politiche più importanti
dell'euro. Nella sostanza si tratta di obiezioni che sembrano non
tenere conto di cosa significhi lottare sul terreno della politica. A
chi ci obiettava che il problema vero è il capitalismo o la
globalizzazione abbiamo sempre risposto che combattere il capitalismo
o la globalizzazione non significa ripetere all'infinito che il
capitalismo è cattivo o la globalizzazione è cattiva, significa
trovare nella realtà concreta una contraddizione che possa
rappresentare un efficace punto di reale aggregazione per una
opposizione sociale e politica.
Nessuno
può pensare di creare una tale opposizione chiamando alla lotta
contro “il capitalismo” o contro “la globalizzazione”: si
lotta sempre contro aspetti concreti del dominio capitalistico, e il
ruolo dell'analisi storica e politica sta nell'individuare quegli
aspetti concreti che permettano una battaglia efficace, capace di
aggregare le forze e di rappresentare il primo passo verso prese di
coscienza più ampie che consentano davvero di sovvertire il sistema
e, appunto come vuole Cosentino, cambiare i rapporti di potere.
Quello
che abbiamo sempre sostenuto non è che l'uscita dall'euro è la
soluzione di tutti i problemi, ma piuttosto che l'euro rappresenta
una questione politica concreta del tipo appena indicato. La nostra
tesi è che se si vuole costruire una forza politica davvero
antisistemica, si dovrebbero mettere al centro della propria azione
poche questioni concrete e importanti, e che l'euro dovrebbe essere
una di queste. Ciò è a maggior ragione necessario se ci si pone
nell'ottica partecipativa in cui si pone Cosentino. È abbastanza
intuitivo, infatti, che una rivoluzione partecipativa necessiti della
presa di coscienza di ampi strati della popolazione, i quali devono
comprendere di essere stati spogliati di un diritto essenziale
(quello di partecipare alle decisioni politiche che li riguardino), e devono poter intravedere una via che permetta la riconquista di tale diritto. Ma è impensabile che ciò possa avvenire finché il paese è immerso in un
sistema che impedisce alle istituzioni democratiche di assumere
liberamente decisioni politiche, economiche, sociali. Dentro
il sistema europeo, lo Stato subisce i diktat delle istituzioni
internazionali ed è privato di qualunque arma di difesa; gli enti
locali sono ridotti a mere macchine amministrative che devono gestire
continui tagli. È ampiamente diffusa l'idea, giusta, che le
decisioni importanti sono prese altrove, lontano, fuori dalla portata
del controllo dei cittadini.
Ad
un “partecipazionista” dovrebbe dunque apparire chiaro che il
primo passo da fare è allora rompere ogni legame europeo,
recuperando la sovranità perduta, e respingendo al mittente
l'obiezione che nella globalizzazione i vincoli non vengono solo
dall'appartenenza all'euro, o dal mercato unico. Questa obiezione
dice una cosa vera, naturalmente. Ma è ovvio che ogni paese può
essere più o meno “globalizzato”, e che se si desidera la
democrazia partecipativa, occorre che le istituzioni democratiche del
paese siano depositarie della maggiore sovranità possibile, e che
quindi bisognerebbe lottare contro euro e UE con la stessa
convinzione con cui, per fare un esempio, ci si oppone al TTIP.
Per
concludere: noi riteniamo che sia proprio l'uscita dall'euro (e più
in generale la rottura di ogni vincolo europeo) il tema concreto sul
quale si possa mobilitare una lotta sociale e politica che permetta
le creazione di spazi di democrazia partecipativa.
Rifiutare
questo terreno, che qui ed ora è secondo noi il terreno della lotta
o almeno una sua parte essenziale, significa ridurre a flatus vocis
sia l'anticapitalismo, sia l'antiglobalizzazione, sia la democrazia
partecipativa.
Significa
rifiutare di confrontarsi con le questioni politiche centrali del
momento storico e condannarsi inevitabilmente alla marginalità.
Questa
sembra la scelta di Marco Bersani. Speriamo non sia quella di Pino
Cosentino e di tanti altri amici nel mondo antisistemico.
Marino Badiale, Fabrizio Tringali
Ho l'impressione che la lettura dell'articolo possa ingenerare un equivoco che sarebbe forse preferibile fosse da voi chiarito.
RispondiEliminaNella risposta a Cosentino, allo scopo condivisibile di contrastare una pericolosa tendenza a sottovalutare l'importanza di articolare l'azione politica in passi concreti, finite apparentemente per sostenere l'esatto opposto, cosa comprensibile vista la volontà di contrastare una tesi che anch'io considero sbagliata.
In sostanza, quando sostenete che la politica non può che procedere attraverso passaggi concreti, date l'impressione, almeno a me, di ignorare l'importanza del fatto che un simile decisivo passaggio debba tuttavia iscriversi in un piano strategico complessivo.
Non si può insomma ridurre la politica a pura tattica, malgrado certamente la tattica sia una materia fondamentale in ambito politico, potrei dire il pane quotidiano. Questa tattica, tuttavia, non può da sola fare una politica, la tattica da sè non va da nessuna parte, ovvero va dove essa vuole, può cioè dare luogo a conseguenze anche non volute, se non addirittura opposte a quelle desiderate.
Potrei usare la metafora dell'architetto che stia progettando una scala. Egli sa bene che senza l'unione di tanti scalini, la scala non può essere costruiita, ma sa altrettanto bene che il singolo scalino deve essere fatto in obbedienza ad un progetto complessivo di scala che precede necessariamente il progetto del singolo scalino e la sua realizzazione.
Non si può quindi costruire un partito ma neanche un movimento che abbia come obiettivo strategico la fine dell'euro, perchè questo semplicemente non costituisce di per sè un obiettivo strategico, ma soltanto un passaggio tattico, per quanto comunque importante.
Trovo quindi giusto richiamare la lotta all'euro come un momento decisivo della lotta alla globalizzazione neoliberista.
Se dovessi però contribuire alla nascita e crescita di un vero partito forte e coeso, lo fonderei sulla lotta alla globalizzazione e non semplicemente all'euro, perchè allora sarebbe più coerente iscriversi alla Lega o al M5S al cui interno si avrebbe speranze di condurre la lotta all'euro in condizioni più favorevoli che dall'esterno. Non lo faccio perchè ovviamente ho dissensi fortissimi sulla misisone della Lega e sulla natura di un'aggregazione come il M5S.
Con tutta evidenza, la lotta all'euro, seppure così centrale ed importante, non può da sola costituire un elemento fondante di una nuova forza politica perchè un gradino non fa una scala.
Preferirei pensare che il nostro intervento sia sufficientemente chiaro, così da non indurre nessuno nell'equivoco indicato da Cucinotta. In ogni caso, a scanso di incomprensioni, sono ovviamente d'accordo con lui sulla sostanza. L'uscita dall'euro è solo il primo scalino di una lunga scala.
EliminaE' difficile interpretare lo scritto come se gli autori sostenessero che l'uscita dall'euro sarebbe risolutiva dei disastri comportati dalla nostra appartenenza all'eurozona. In più passi, essi lasciano chiaramente intendere quanto hanno (mi pare) costantemente sostenuto e affermato riguardo al fatto che l'euroexit e l'abbandono della UE da parte dell'Italia non rappresentano lo scopo ultimo di un eventuale "nuovo corso" della politica e dell'economia italiane, ma la mera precondizione (necessaria ma non sufficiente) per poter allineare le decisioni istituzionali nazionali all'interesse generale del Paese e alla volontà del "popolo sovrano" e, quindi - aggiungo io -, per poter recuperare l'effettiva vigenza della Costituzione (di fatto abrogata per incompatibilità implicita delle relative norme con quelle contenute nei trattati istitutivi della UEM.
EliminaA distanza di qualche anno sono ancora stupita - e anche "stufata" - dall'affermazione che l'euro è uno strumento del capitalismo e che NON bisogna combattere l'euro bensì il capitalismo.
RispondiEliminaRilevo in tale posizione o un'illogicità palese - ma non affatto palese a chi la propugna -o una malafede di fondo (nonché di cima e di striscio).
Tale ricordo - e fastidio - mi è stato re-suscitato dal passo "A chi ci obiettava che il problema vero è il capitalismo" e solo mitigato dalla speranza che il "chi" (spero sotto forma di molti di quella corposa frangia trasversale a tante sinistre o a tanta sinistra - dal rosa sbiaditissimo al rosso accesissimo -) si sia nel frattempo ricreduto anche solo per rispetto di un minimo di logica.
Perché se quelli coscienti ragiona(va)no, si fa per dire, così, figuriamoci gli altri.
L'Uscita dall'Euro non è tattica, è una scelta strategica, la battaglia contro la mafia e la corruzionesono scelte tattiche.
RispondiEliminaCarissimi sperare di costruire un soggetto politico a sinistra è pura follia.
L'Italia ha bisogno di un soggetto politico progressista, non di un partito di sinistra.
Vedo nel dibattito pubblico una strana distorsione. La bilancia commerciale è in attivo, PIL e posti di lavoro sono in leggero aumento.
RispondiEliminaVoi che fate divulgazione dovete rendere chiara una cosa a chi si può lasciarsi deviare da questi dati e pensare che "la cura" funzioni e siamo sulla strada giusta.
Io non ho nessuna difficoltà ad ammettere che Pil e posti di lavoro aumenteranno con la cura Renzi-Merkel- Euro.
Il punto è che gli aumenti di PIL vanno solo in direzione del capitale e i posti di lavoro aumentano perchè il lavoro è stato deprezzato e quindi è ovvio che aumenta, l'azienda ti assume a 4 soldi ti manda via quando vuole, a queste condizioni certo che assume. Ma questi aumenti non ci intererssano. Noi vogliamo che aumenti il lavoro garantito e che il PIL aumenti per tutti e di più per i poveri. Non ci interressanno i posti di lavoro che durano 6 mesi. Non ci intererssano gli aumnenti di PIL se poi i contratti di lavoro prevedeno (nel 90% dei casi) stipendi da 1.000-1.300 € per cui sei povero anche se lavori.
Ci interessa sapere che se perdi il lavoro a 45 anni c'è una agenzia pubblica che te ne fa trovare un altro.
Questi sono i fatti che ci interessanno. I segni + 0,qualcosa sono certamente veri ma non è quello che vogliamo.