Chiudiamo questa miniserie sulle scuola ripubblicando una mia "lettera aperta ai docenti della scuola italiana", risalente ai primi anni 2000. Si tratta di un testo che è già circolato in rete. Ho tolto la parte finale, che oggi mi sembra meno attuale.
(M.B.)
Lettera
aperta ai docenti della scuola italiana.
I. Un
suicidio di massa.
Nei
libri sugli animali che leggevamo da ragazzi si raccontava la triste
storia dei lemming. Questi piccoli roditori delle tundre nordiche,
simili a criceti, a intervalli di tre o quattro anni, spinti dalla
scarsità di cibo, iniziano a migrare. La conclusione di tali
migrazioni è però drammatica: i poveri lemming finiscono per
gettarsi in mare dalle scogliere, realizzando un autentico suicido di
massa.
Diventati
adulti, abbiamo scoperto che questa storia, così impressionante e
capace di colpire l’immaginazione di un ragazzo, è una leggenda,
diffusa nel mondo, pare, da un documentario della Disney.
Pur
sapendola falsa, vogliamo però usare questa immagine del suicidio di
massa dei lemming per iniziare a parlare della situazione dei docenti
della scuola italiana. Enunciamo subito la nostra tesi fondamentale:
la realtà della scuola italiana è caratterizzata da un suicidio di
massa degli insegnanti. L’immagine dei professori-lemming descrive
bene, a nostro avviso, alcuni aspetti decisivi delle vicende della
scuola in questi ultimi anni. Le caratteristiche di tale suicidio di
massa possono essere riassunte nei tre punti seguenti:
- Si è avuta negli ultimi anni una serie di interventi legislativi e amministrativi sulla scuola che hanno alterato in profondità i caratteri essenziali della scuola stessa. Questi interventi possono essere riassunti nella formula “riforma Berlinguer-Moratti”.
- Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei docenti della scuola italiana.
- I docenti hanno nella sostanza accettato tutto questo, spesso collaborando alla propria degradazione, più spesso lamentandosi, ma senza mai ribellarsi seriamente.
Perché
la riforma Berlinguer-Moratti ha come conseguenza il degrado
culturale e sociale dei docenti? Perché uno dei suoi contenuti
fondamentali è la svalutazione dell’insegnamento dei contenuti
disciplinari, di quelle cioè che nel linguaggio comune sono le
“materie” tradizionalmente insegnate a scuola. Questo fatto non è
di immediata percezione, in primo luogo perché non viene enunciato
esplicitamente nei testi legislativi e amministrativi che hanno
articolato la riforma Berlinguer-Moratti, in secondo luogo perché si
tratta di una tendenza di fondo che non è ancora arrivata alla sua
compiuta realizzazione. La svalutazione dell’insegnamento delle
“materie” nella scuola italiana contemporanea rappresenta però
la ratio implicita di una serie di misure che possono essere comprese
solo alla luce di tale scelta di fondo. Gli esempi potrebbero essere
numerosi, ne facciamo solo alcuni per mantenere la lunghezza di
questa lettera entro limiti ragionevoli. Un primo aspetto è
l’incentivazione di una miriade di attività parallele
all’insegnamento disciplinare (fra cui i cosiddetti “progetti”,
ma non si tratta solo di questi), attività che implicano la continua
interruzione dell’orario curriculare, cioè dell’orario dedicato
all’insegnamento disciplinare stesso. Un altro aspetto è
l’introduzione di materie nuove che si aggiungono alle materie
tradizionali implicando una diminuzione dell’orario per tutte le
materie. A ciò si possono aggiungere gli spostamenti di docenti
dall’insegnamento di materie per cui hanno una preparazione
specifica all’insegnamento di altre materie, cosiddette “affini”,
spostamenti motivati esclusivamente da esigenze di organizzazione
scolastica. Analogo a questo fenomeno è quello delle abilitazioni
con concorsi speciali che prescindono parzialmente o totalmente dalla
preparazione specifica. Già da questi semplici esempi si capisce
come la ratio che li unifica e li rende comprensibili sia quella
della svalutazione dell’insegnamento delle “materie”
tradizionali: un insegnamento a cui viene dedicato sempre meno tempo
e rispetto quale non si ritiene importante che venga svolto da
docenti preparati.
Poniamoci
adesso il problema di capire cosa significhi tutto questo rispetto
alla scuola e rispetto alla vita di chi nella scuola ci lavora.
Significa, in sostanza, che la scuola di Berlinguer-Moratti non è
più, a parte alcune sue zone residuali, una scuola. E’ diventata
un’istituzione completamente diversa, che della scuola conserva,
con limitate eccezioni, solo l’immagine esteriore. A questa nostra
affermazione qualcuno potrebbe obiettare che la scuola non ha solo la
funzione di “insegnare delle materie”, ma ha altre funzioni,
anche più importanti, di tipo socio-educativo: come per esempio far
crescere la capacità relazionale dei giovani, aiutare il loro
inserimento nella società, sviluppare in essi il rispetto per le
culture e i popoli del mondo, e la lista potrebbe ovviamente
continuare. Se questo è vero, il permanere di tali funzioni e scopi
socio-educativi conserva un significato e un ruolo profondo alla
scuola, anche se diminuisce l’attenzione alle tradizionali
“materie”.
Questa
obiezione, in apparenza ragionevole, è in realtà un vuoto sofisma,
che denota una profonda incomprensione di cosa sia la scuola. Per
capire quanto affermiamo, basta riflettere sull’esempio seguente.
Tutti siamo d’accordo sull’importanza dell’attività sportiva
per i giovani. Una giusta dose di attività sportiva è necessaria
allo sviluppo equilibrato del corpo, ed ha anche importanti aspetti
educativi: abitua alla corretta elaborazione di emozioni come
l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del
gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni
nel caso degli sport di squadra. E’ per tutti questi motivi che
molti genitori fanno fare ai propri figli le più diverse attività
sportive. Immaginiamo però che quando portiamo nostro figlio nella
tal palestra per iscriverlo ad una qualche attività sportiva ci
venga fatto dai responsabili il seguente discorso: poiché lo sport
ha importanti funzioni nello sviluppo fisico ed emotivo dei giovani,
ma d’altra parte fare sport è faticoso, abbiamo pensato di
perseguire le importanti funzioni educative dello sport tenendo i
ragazzi fermi e seduti. Cosa penseremmo di una simile proposta?
Penseremmo che chi ragiona in questo modo o sta scherzando, o è un
pazzo, o non sa di cosa sta parlando. E sicuramente porteremmo nostro
figlio in un’altra palestra. Ma sostenere che le finalità
socio-educative della scuola possono essere perseguite trascurando
l’insegnamento disciplinare è un’assurdità dello stesso tipo.
Infatti l’essenza della scuola, così come si è formata nella
nostra storia, sta in questo: la scuola è quella particolare
“agenzia educativa” nella quale le finalità educative sono
perseguite attraverso
l’insegnamento di contenuti disciplinari.
Ovvero, la scuola esiste perché (e finché) si ritiene che alcune
particolari “materie” abbiano una pregnanza culturale e umana
tale che, attraverso il loro
insegnamento, sia
possibile perseguire quei fini sociali ed educativi di cui si diceva
sopra.
La
scuola esiste perché si ritiene, o si è ritenuto fino a tempi
recenti, che insegnare letteratura, matematica, filosofia, fisica
eccetera rappresenti un modo, il modo specifico appunto della scuola,
di educare i giovani.
E' questo lo specifico della scuola. E’ questo
che distingue la scuola da altre “agenzie educative” come la
famiglia, il gruppo di amici, i boy scouts o quant’altro.
Ma se tutto questo è vero, cosa resta della
scuola, una volta che essa sia privata del suo elemento specifico e
caratterizzante, cioè l’educazione dei giovani attraverso
l’insegnamento di specifiche materie? La risposta è ovvia: non
resta nulla. La scuola viene di fatto abolita, e il tempo della
scuola diventa un enorme tempo vuoto che bisogna riempire con le più
diverse e strane attività. E cosa diventano i docenti, dentro a
questa scuola che non è più una scuola? Qual è il loro ruolo, una
volta abolito di fatto il loro ruolo specifico dell’insegnamento
delle “materie”? Nella squola di Berlinguer-Moratti i
docenti sono ridotti ad essere dei badanti o dei baby-sitter. La
lenta cacciata dei docenti dal ceto medio alle zone più basse della
stratificazione sociale è una conseguenza ovvia di questa loro
dequalificazione professionale.
Si potrebbe obiettare che la professionalità dei
docenti (e quindi il loro livello sociale ed economico) viene salvata
insistendo sulle loro competenze pedagogico-didattiche, invece che su
quelle disciplinari. I docenti cioè sarebbero quelle persone che
sanno come si insegna, e tali persone sarebbero importanti anche in
una scuola nella quale si dà meno importanza a cosa si insegni.
Questa obiezione è analoga a quella che abbiamo poco fa confutato.
In sostanza, dire che non ha importanza cosa si insegna perché
l’importante è che venga insegnato bene, equivale a dire che i
contenuti dell’insegnamento non hanno più nessuna importanza. Ma
questo ha come conseguenza la scelta dei contenuti più facili e meno
impegnativi possibili: se tutto è uguale a tutto, perché docenti e
studenti devono sobbarcarsi la fatica di leggere Manzoni, quando è
tanto più gradevole leggersi Camilleri? Il punto è che, una volta
impostate le cose in questo modo, si è su un piano inclinato nel
quale non ci si può fermare. Perché leggere Camilleri a scuola
quando ascoltare le canzoni di De André è ancora più gradevole e
più facile? Si vede facilmente che, lungo questo piano inclinato, si
torna alla degradazione professionale dei docenti. Infatti, di quale
mai competenza pedagogica c’è bisogno per tenere i ragazzi in
classe a fare cose piacevoli e divertenti come ascoltare canzoni [1]?
E’ chiaro che, in questo contesto, la figura del docente si riduce,
come già abbiamo detto, a quella di una badante o di una
baby-sitter.
Possiamo allora concludere che nella riforma
Berlinguer-Moratti è implicita una sostanziale degradazione della
figura del docente. Tale degradazione determina il degrado economico
e sociale dell’intero ceto dei docenti, il loro ridursi a poveracci
degni solo, a seconda delle inclinazioni, di compassione o disprezzo.
Tale degradazione ha, come ulteriore conseguenza,
l’abbassamento del livello culturale e della maturità
intellettuale dei giovani che escono dalla scuola italiana. E’ un
fenomeno che chi insegna all’Università ha ben chiaro, e che
genera un forte pessimismo sul futuro del paese.
Aggiungiamo infine che, a nostro avviso, il
degrado della scuola arriverà presto a mettere in pericolo la stessa
sicurezza fisica dei docenti: è chiaro infatti che una scuola intesa
come grande parcheggio per ragazzi non ha più alcuna barriera che la
protegga dalla degradazione del sociale. Gli episodi di violenza
nelle scuole, di cui leggiamo sui giornali, sono anch’essi
collegati a quella negazione del ruolo specifico della scuola, che è
l’anima della riforma Berlinguer-Moratti, e sono destinati ad
aumentare di numero e di gravità.
II. Combattere il degrado.
E’ possibile arrestare questo degrado? E’
nostra convinzione che sia possibile, ma estremamente difficile.
Occorre infatti rendersi conto che un fenomeno di tale rilevanza
storica come l’annientamento della scuola italiana non può essere
l’effetto di una causa risibile come la miseria intellettuale e
politica di personaggi del calibro di Luigi Berlinguer o della
signora Moratti. Questi personaggi, assieme al resto del miserabile
ceto politico e giornalistico di cui essi sono perfetti
rappresentanti, possono agire indisturbati solo perché,
evidentemente, ciò che fanno esprime alcune tendenze profonde del
nostro tempo. Occorre cioè rendersi conto che la negazione del ruolo
del pensiero e della cultura è oggi una tendenza spontanea e
fortissima, e che lottare per difendere la scuola come luogo in cui
si educano i giovani attraverso la loro introduzione nel mondo del
pensiero e della cultura, significa lottare contro aspetti
strutturali di questa fase storica. Significa cioè mettersi
volontariamente e lucidamente in una posizione “conservatrice” e
“anacronistica”. E’ questa lucidità che sembra mancare
all’insieme dei docenti italiani, ed è questa mancanza di lucidità
a rendere particolarmente difficile la lotta contro il degrado.
Per combattere contro l’annientamento della
scuola italiana, che si traduce nel degrado della figura del docente,
occorre naturalmente combattere l’aspetto centrale di tale
annientamento, aspetto che abbiamo individuato nella prima parte. La
negazione della scuola è conseguenza logica della negazione della
centralità delle tradizionali “materie di insegnamento”:
l’italiano, la matematica, la filosofia, la fisica, la storia, la
geografia e poche altre. Per combattere il degrado occorre allora
rimettere al centro proprio le tradizionali “materie”: occorre
avere come punto fermo e inderogabile l’assioma che la scuola è,
essenzialmente, il luogo dove si insegnano italiano, matematica,
filosofia, fisica, storia, geografia e poche altre materie
fondamentali. Con questo intendiamo dire l’insegnamento delle
materie tradizionali deve costituire l’asse culturale di
riferimento della scuola italiana. Questo ovviamente non esclude che
nelle varie scuole si insegnino anche altre cose, a seconda del tipo
di istituto. Ma deve essere chiaro che esiste un fondamento culturale
omogeneo per tutta la scuola italiana, e che esso è rappresentato da
poche materie fondamentali. Ogni discorso sulla scuola deve partire
da qui. Da qui si può cominciare a parlare delle finalità
socio-educative della scuola. E per dire qualcosa anche su questo
tema, cominciamo subito a dedurre, dalla centralità
dell’insegnamento delle “materie”, due fondamentali valori
educativi della scuola. La scuola, grazie all’insegnamento delle
“materie”, fornisce i filtri culturali per dipanare l’immensa
massa di “informazioni” alle quali i giovani, come tutti, sono
esposti. Inoltre insegna il valore del duro lavoro dello studio. Per
quanto riguarda il primo punto, è evidente che oggi non si tratta di
offrire ai giovani stimoli e informazioni: il nostro mondo è un
mondo di persone iperstimolate sul piano mediatico e spettacolare e
rimpinzate di informazioni. Un mondo di esposizione continua alla
televisione, a cui si aggiunge lo spazio immenso di internet. In
questa situazione il punto cruciale, ciò che distingue gli individui
attivi dai recettori passivi e manipolati, è la capacità di
filtrare le informazioni, di selezionare, di rifiutarsi alla bulimia
informativa e di scegliere le informazioni importanti e
significative. Ma è appunto la lezione di organizzazione concettuale
fornita da uno studio serio e approfondito di materie come la lingua
italiana, la storia, una disciplina scientifica, a fornire questa
capacità di selezione critica delle informazioni. Allo stesso modo,
il fatto di capire che solo attraverso un duro e serio lavoro di
studio si può arrivare a risultati di questo tipo, o a qualsiasi
tipo di risultato, è un altro fondamentale valore educativo
dell’insegnamento disciplinare.
Queste osservazioni rappresentano però solo il
punto di partenza. Il passaggio successivo è la riacquisizione da
parte dei docenti dell’autorevolezza perduta. Il docente deve
tornare ad essere una figura che ha autorità e stima sociale, e ce
l’ha appunto in quanto è colui o colei che insegna quelle
particolari materie. Questo è naturalmente il passaggio più
difficile. Come dicevamo sopra, l’annientamento della scuola
italiana è un fatto storico di vasta portata, possibile solo grazie
al fatto che la negazione della cultura e del pensiero sono diventati
senso comune. E’ dunque difficile riacquistare stima sociale in una
società che nega stima proprio alla cultura e al pensiero, e quindi
alla scuola e a chi ci lavora. Ma questa difficoltà, già grave di
per sé, diventa insormontabile se i docenti introiettano la mancanza
di stima che sentono nell’intero ambiente sociale. Vale a dire che
il primo passo i docenti devono farlo su di sé. Il primo passo per
combattere il degrado della scuola e dei docenti è la riconquista
dell’autostima da parte dei docenti stessi. E poiché il docente,
come s’è detto, è colui o colei che insegna quelle ”materie”,
occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti della
centralità e dell’importanza di quello che fanno, vale a dire di
quello che insegnano. Occorre che i docenti siano, essi per primi,
convinti che insegnare Dante e Galileo, Platone e Manzoni, Newton e
Petrarca sia un compito fondamentale e centrale; che un mondo in cui
la gente impara a scuola la tradizione culturale cui quei nomi, e gli
altri simili, fanno riferimento, è un mondo migliore di quello in
cui questo non succede. Che insegnare Leopardi e Shakespeare
significa offrire ai ragazzi una opportunità inestimabile:
l’opportunità di costruirsi un’identità personale un po’ più
sensata, un po’ più umana di quella che avrebbero senza Leopardi o
Shakespeare. Ma non basta che i docenti credano questo. Devono
saperlo. E sapere è più di credere. Il docente sa che
quanto abbiamo appena detto è vero solo se ne ha provato su se
stesso la verità. Vale a dire, solo se ha nel proprio vissuto la
gioia, l’emozione, la soddisfazione profonda di capire un teorema o
una poesia, di comprendere realmente una dinamica storica o una
cultura diversa dalla propria. In definitiva, i docenti possono
recuperare stima e autorevolezza solo se tornano ad essere
intellettuali veri, che credono nel valore della cultura che
trasmettono perché quel valore lo conoscono per esperienza personale
e pratica quotidiana. E’ chiaro che su questo punto ci deve essere
una profonda autocritica dei docenti italiani. Essi per troppi anni
hanno accettato un patto scellerato che consisteva nello scambio fra
bassi salari e scarso impegno personale, anche sul piano culturale.
Questo deve finire. Non che si possa pretendere dall’oggi al domani
un radicale cambiamento delle persone. Ma si può e si deve
pretendere un radicale cambiamento dei valori. Deve essere chiaro che
la scuola italiana può essere ricostruita dalla macerie, e il
degrado dei docenti può essere arrestato, solo se si assume come
norma di cosa sia un docente il modello che abbiamo descritto. Solo
con questa radicale assunzione di responsabilità, con questa severa
autocritica e con questa scelta di un modello normativo di rigore
culturale, i docenti italiani potranno finalmente risollevare la
testa.
III. Su la testa!
A partire da quanto fin qui detto si può provare
a rispondere a molte affermazioni superficiali e scorrette sulla
scuola, da tempo depositate nel senso comune.
Dice il senso comune: la scuola trasmette
contenuti vecchi, il mondo è cambiato, occorre praticare attività
nuove, come computer, multimedialità, viaggi di istruzione.
No. Tutte queste cose fanno parte della
realtà nella quale i ragazzi sono immersi indipendentemente dalla
scuola. Sono cose che essi fanno in ogni caso. A spippolare sul
computer imparano comunque, in un modo o nell’altro, i viaggi li
fanno con i loro genitori o con gli amici, in internet ci vanno
comunque.
Il compito della scuola non è far fare queste
cose, ma fornire gli strumenti concettuali con i quali capire quello
che si fa e quello che succede nel mondo. La comprensione delle
dinamiche storiche e culturali con le quali si è arrivati ai fatti
di cui parlano i telegiornali è cosa che può dare solo la scuola, e
senza la quale è inutile seguire i telegiornali. Leggere Tucidide e
Machiavelli, studiare la storia della rivoluzione industriale o del
Medio Oriente aiuta a capire la realtà contemporanea più di ore
passate in internet.
Allo stesso modo, le classiche “gite
scolastiche” sono ormai diventate una pura perdita di tempo e vanno
abolite appena possibile[2].
Dice il senso comune: la scuola deve preparare al
mercato del lavoro; data la difficoltà odierna del mercato del
lavoro, è questo uno dei suoi compiti principali.
No. Quello della disoccupazione giovanile
(e non solo) è un problema drammatico. Appunto per questo deve
essere affrontato da chi ha gli strumenti per affrontarlo, cioè il
mondo della politica, e sul piano che gli è proprio, cioè quello
dell’organizzazione sociale dell’economia. Scaricare tale
problema sulla scuola rappresenta una truffa. La scuola non ha la
possibilità di risolvere il problema della disoccupazione giovanile.
Se si porta un giovane da un medico perché è ammalato e il medico
lo restituisce sano, il medico ha svolto il suo compito, non gli si
chiede anche di trovare un posto di lavoro al giovane. La scuola, se
funziona, fornisce alla società giovani educati al pensiero, alla
cultura, al ragionamento. E’ questo il suo contributo al progresso
civile.
Dice il senso comune: i ragazzi vanno stimolati,
per esempio portandoli a mostre e dibattiti, fiere del libro e
festival della scienza, invitando persone esterne alla scuola a fare
conferenze.
No. Come dicevamo sopra, oggi la condizione
normale delle persone è quella di una iperstimolazione mediatica,
continua e incessante. La scuola non deve contribuire a questa
bulimia, ma deve fornire filtri culturali. Inoltre, occorre rendersi
conto che la cultura delle fiere del libro, dei festival della
scienza e delle pagine culturali dei giornali, è una cultura della
chiacchiera pretenziosa, della superficialità, della moda
cultural-spettacolare priva di spessore. E’ una cultura
diametralmente opposta alla cultura dello studio e del pensiero che
la scuola deve trasmettere. La scuola, lungi dal portare gli studenti
a queste iniziative, deve insegnare loro a non andarci, o ad andarci
il meno possibile. Deve far loro capire che leggere un buon libro è
sempre la cosa migliore da fare, se si tiene alla cultura.
Quanto agli esperti invitati a tenere conferenze
nella scuola, se sono persone serie e non chiacchieroni alla moda
possono essere utili. Ma queste iniziative, se svolte nell’orario
curriculare, rappresentano in ogni caso una perdita di tempo
prezioso, rispetto al compito principale della scuola, che è di
stare in classe a insegnare e imparare, e vanno quindi ridotte al
minimo.
Dice il senso comune: in un mondo multietnico la
scuola deve aprirsi alle altre culture e diventare una scuola
multiculturale.
No. Quello del rapporto con altre culture e
dell’integrazione sociale, economica e culturale delle varie etnie
presenti nel nostro paese rappresenta un problema serio e importante,
che viene impropriamente e truffaldinamente accollato alla scuola.
Chiunque sappia cosa vuol dire educare un giovane a comprendere i
valori profondi della nostra tradizione culturale sa che si tratta di
un’impresa che richiede tempo, impegno, serietà. Non c’è
spazio, nel tempo della scuola, per fare un lavoro di altrettanto
impegno nei confronti di un’altra cultura. E quale poi? Dato che
nel nostro paese convivono le più diverse etnie, quali altre culture
dovrebbero entrare nella scuola italiana? La tradizione culturale
araba, quella cinese, quella del cristianesimo ortodosso, quella
iberica e latino-americana, le varie culture africane? Chiunque abbia
un’idea minimamente seria di cosa significhino queste tradizioni,
sa che è assurdo pensare ad una scuola nella quale si parla un
pochino di Cina e un pochino di Maometto, un pochino di Africa e un
pochino di Tolstoi. Niente potrebbe essere fatto con serietà, con
profondità, in una simile scuola. Ma chi fa simili proposte non ha
la minima idea di cosa siano serietà e profondità, di cosa siano
cultura e pensiero, e immagina la scuola come un supermarket con gli
appositi scaffali per le spezie esotiche. Del resto, basta pensare
nei termini della vita quotidiana per capire l’assurdità di queste
proposte. Se viene ospite a casa tua un amico cinese, gli prepari
forse una cena di cucina cinese? Ovviamente no, gli prepari una cena
di cucina italiana cercando di tirare fuori il meglio che sei capace
di fare. Rifiutando l’idea della scuola multiculturale, che è la
scuola non delle molte culture ma della negazione di ogni idea di
cultura, noi ci regoliamo secondo le leggi universali
dell’ospitalità, offrendo in dono a coloro che sono arrivati da
lontano ciò che di più bello abbiamo, ciò che ci è più caro:
Dante e Leopardi, Platone e Galileo, e così via. Ed è questo
l’unico modo in cui la scuola può lavorare per la pacifica
convivenza fra le culture. Sforzandosi di far vivere agli studenti
una esperienza culturale seria e vera, quella dell’incontro con la
nostra tradizione, insegniamo contemporaneamente il rispetto per la
cultura universale. Solo chi ha vissuto l’emozione di un incontro
culturale profondo e autentico, sia esso con Euclide o con Ariosto,
con Pascal o con Maxwell, è in grado di intuire lo spessore umano
di un’altra tradizione culturale, e quindi di rispettare realmente
Confucio e Maometto. Chi riduce la cultura a chiacchiericcio generico
su tutto e tutti, non rispetta in realtà nessuna tradizione
culturale.
Dice il senso comune: la scuola deve cambiare
perché ci sono molti cattivi professori che allontanano gli studenti
dalle loro materie. Ci sono tanti casi di persone che hanno avuto un
cattivo docente di matematica (filosofia letteratura italiana ecc.) e
quindi sono sempre rimaste lontane dalla matematica (dalla filosofia
dalla letteratura italiana ecc.).
No. E’ ovvio che cattivi docenti ce ne
sono sempre stati e sempre ce ne saranno. Così come ci sono sempre
stati e sempre ci saranno cattivi medici, cattivi avvocati, cattivi
cuochi. Ma non per questo la scuola deve cambiare la sua natura
profonda, che è quella, ripetiamolo un’altra volta, di educare
attraverso l’insegnamento disciplinare. Il problema dei cattivi
insegnanti va affrontato rendendo razionale, come non è da tempo, il
sistema del reclutamento. Altrimenti lo stesso ragionamento
porterebbe a dire che, poiché negli ospedali italiani ci sono anche
cattivi medici, allora gli ospedali non devono più preoccuparsi di
curare i malati. Oppure a dire che, poiché nei tribunali italiani ci
sono anche cattivi magistrati, allora la magistratura non deve più
preoccuparsi di applicare le leggi.
(...)
[1]Stiamo parlando, sia
chiaro, di tendenze insite nella logica delle cose, non
necessariamente realizzate in questo momento. Secondo notizie
riportate dalla stampa tempo fa, alcune scuole hanno già cominciato
a sostituire Manzoni o Verga con Camilleri. Non siamo ancora
arrivati a sostituire Petrarca con De Andrè, ma pensiamo ci manchi
poco.
[2]O almeno sospese a tempo
indeterminato. Se e quando verrà ricostruita la scuola italiana, se
ne potrà riparlare.
Bellissima lettera, che mi trova d'accordo su tutto, fuorché su un non trascurabile punto: la scuola com'era non andava affatto bene. Questo è un fatto oggettivo, non una mia opinione. Prof. Badiale, ha mai letto “Le vestali della classe media” (Barbagli-Dei, 1969)? Non mi piace la scuola di oggi, lei la descrive egregiamente e punta il dito nelle direzioni corrette. Ma la scuola mia (parlo delle scuole medie inferiori e superiori degli anni 70 e 80) triturava senza rimpianto chi non c'è la faceva. Chi veniva dalla montagna, dalla campagna, dalla periferia, chi era figlio di poveta gente o figlio di iimmigrati. Da questi non tirava fiori il meglio, semplicemente li allontanava senza pietà e senza nulla insegnare, se non la spietatezza. Io sono figlio di una colf e di un operaio non qualificato. Sono praticamente rimasto orfano a 15 anni ma mi sono laureato in ingegneria proprio grazie alla scuola classista che sto criticandoZc ZX. La scuola di oggi è immensamente peggiore di quella (ci lavoro, e le assicuro che in molte scuole gli insegnanti sono proprio baby sitter), ma non è tornando alla scuola criticata per esempio in "Lettera ad una professoressa" che si può sperare di migliorare la situazione. Ho mio figlio alla scuola elementare (scrivere "primaria" mi fa ribrezzo), e devo dire che è un disastro. La scuola attiva ispirata a Celestine Frenet e a Mario Lodi è praticamente scomparsa. Io ho ritrovato la mia splendida scuola elementare anni '70 descritta in "Il paese sbagliato -diario di una esperienza didattic" di Mario Lodi, che le mie maestre dovevano aver letto vista la somiglianza con quel che noi facevamo. Ora in alcune scuole è un deserto... Popolato di progetti, uscite, esperti, ecc. Ma in un anno mezzo mio figlio non ha tirato a mano libera o col righello nemmeno una linea orizzontale sui quadretti. Incolla la scheda, fai la scheda, colora la scheda..la morte della curiosità!
RispondiEliminaHo già scritto troppo. Le chiedo solo se conosce le scuole Montessori. Grazie e scusi se sono mono tematico. P.S. ho lavorato come ingegnere nel privato e poi in una municipalizzata, poi a p.Iva. Ora per scelta faccio l'insegnante. Prendevo il 50% in più prima. Lo trovo scandaloso, come trovo scandaloso che salendo dalle elementari alle superiori si aumenti gradatamente lo stipendio (e cali la fatica).
Articolo bellissimo, che condivido in tutto. Vorrei aggiungere un'osservazione per corroborare questo punto: "Quanto agli esperti invitati a tenere conferenze nella scuola, se sono persone serie e non chiacchieroni alla moda possono essere utili. Ma queste iniziative, se svolte nell’orario curriculare, rappresentano in ogni caso una perdita di tempo prezioso, rispetto al compito principale della scuola, che è di stare in classe a insegnare e imparare, e vanno quindi ridotte al minimo." L'osservazione è questa: anche quando fosse di livello molto inferiore rispetto alla conferenza dell'esperto, la lezione dell'insegnante ha dalla sua parte l'immenso vantaggio di non finire con la sua ultima parola, di essere solo l'inizio dell'azione didattica e di doversi completare con l'esercitazione, con lo studio domestico, con la verifica e con la valutazione. La conferenza dell'esperto, priva della prospettiva della verifica e della valutazione, si può anche seguire distrattamente; non così la lezione dell'insegnante. Fonti molto attendibili mi raccontano che l'attività più tipica degli alunni durante le conferenze è giocare col cellulare.
RispondiEliminaSì, bravo il professore Badiale. Purtroppo nel frattempo le cose sono peggiorate e la mentalità dell'assistenzialismo è dilagata. Come pure il sistematico travisamento di cosa debba significare la scuola come formazione della persona, per cui pare non sia la cultura la reale protagonista di questa formazione, ma l'attivismo psico-fisico di cui la lettera scrive con precisione. Vorrei fare un paio di osservazioni che non inficiano la sostanza delle ragioni. 1) Attraverso l'insegnamento dei contenuti culturali è urgente insegnare ai ragazzi anche l'uso intelligente e culturale della rete, insegnare a riconoscere quali fonti aiutano ad accrescere il sapere e quindi godono di autorità e quali no.Il metodo filologico che ci viene dall'analisi delle fonti storiografiche deve essere esteso anche alla sitografia. Questo è un lavoro che bisogna svolgere in classe,perché la rete non è come la televisione che puoi spegnere, è ormai pervasiva, è quasi una seconda natura. 2)Per combattere il degrado linguistico-culturale mediatico e sociale, lo scadimento dell'argomentazione e delle sue regole logiche e veritative, non bastono più le imprescindibili letture o le lezioni del proprio docente, per quanto bravo possa essere, è necessario confrontarsi con altri linguaggi rigorosi, con studiosi che possano offrire un contributo diverso. E allora più che la chiamata dell'esperto, che come scrive molto bene Di Remigio fa perdere tempo a tutti, il supporto multimediale, scelto e guidato dal docente, può essere molto utile perché abitua i ragazzi a interiorizzare il sapere come espressione di una più grande comunità di ricerca in cui tutti imparano da tutti. Ho fatto queste brevi osservazioni perché oggi alcuni No potrebbero non essere compresi, anche se le ragioni che li sostengono sono condivisibili.
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